Un paio di dischi per iniziare bene dicembre

Per iniziare con una bella predisposizione d’animo l’ultimo mese dell’anno vi propongo due lavori che meritano un ascolto attento. Le protagoniste di questo post sono due artiste molto diverse tra loro ma con in comune un unico obiettivo: non dimenticare le loro origini culturali e musicali, base per la loro carriera artistica. La brasiliana Marisa Monte e la candese-haitiana Dominique Fils-Aimé hanno pubblicato il mese scorso due dischi di grande fattura, belli, profondi, solidi, dove le banalità sono bandite e la ricerca è la benvenuta. Se avete voglia e tempo, dedicate un paio d’ore a questi due ascolti, non rimarrete delusi. Buon weekend! Continua a leggere

Quattro, Nanni Gaias e la pietra filosofale della musica

Nanni Gaias – Foto di Camilla Pianezzi

Di Nanni Gaias vi avevo parlato poco più di due anni fa, all’uscita del suo Ep T.O.T.B. – Think Outside The Box, via Tǔk Air, uno dei bracci della casa madre fondata da Paolo Fresu, dedicata si suoni dell’elettronica, del funk e del soul. Nanni, classe 1996, di Berchidda (Sassari), il 21 aprile scorso ha pubblicato Quattro, un concept album che vi consiglio di ascoltare attentamente.

Un lavoro composito, ricco, pieno di spunti che unisce gli opposti e che riesce, come un alchimista, a trovare la strada per arrivare alla mitica pietra filosofale. Già, perché l’album non si chiama Quattro per caso. Quattro sono i passaggi degli alchimisti per arrivare a trasformare il vile metallo in oro, quattro sono le stagioni, quattro gli elementi della creazione. «Il disco è un mio viaggio interiore. Quattro sono i miei pilastri musicali, dub, afrobeat, funk e soul, un mix di stili e generi che insieme creano la mia pietra filosofale», mi racconta Nanni. Continua a leggere

Dieci dischi degni di nota del 2021 – Prima parte

Il 2021 s’è chiuso da pochi giorni. Un anno in musica che, dal mio piccolo osservatorio, ha rivelato molti lavori di buona qualità. In tutti i generi, dal rock al jazz all’alternativa, classificazione usata per dire tutto e niente. Mi sono esercitato in una mia personale classifica dei dieci album che che mi sono piaciuti di più. L’ho stilata in base ai miei gusti, alle mie aspettative, alle mie sensazioni ed emozioni. Di dischi ne ho ascoltati centinaia, molti mi hanno annoiato a morte ma altri mi hanno catturato. Questi dieci sono quelli che ascolto con rinnovato piacere quando lavoro, leggo, mi rilasso. Praticamente tutti li ho già pubblicati nel corso dell’anno, con un paio di artisti ho chiacchierato anche a lungo… Ve li propongo tutti e dieci in rigoroso ordine di pubblicazione, divisi in due post…Qui i primi cinque.

Per Aspera Ad Astra – Daniela Spalletta – 5 febbraio 2021

Daniela Spalletta, siciliana, 39 anni, è una delle voci più interessanti e complete del panorama jazzistico italiano e internazionale. Ha all’attivo tre album solisti D Birth (2015 – Alfa Music), Sikania (2017 – Jazzy Records) e Per Aspera Ad Astra (TRP Music) uscito a febbraio. Troppo poco conosciuta dal grande pubblico, e questo è una grande sfortuna per chi non l’ha mai ascoltata, visto che, con la voce che si ritrova, la Spalletta potrebbe cantare di tutto. Usa la voce come strumento, ma è una musicista che compone e arrangia e la riprova è proprio quest’ultimo lavoro, frutto della sua creatività e studio. C’è jazz, certo!, ma c’è anche world music, c’è classica e un brano che mi ha stregato, un ricordo di musica barocca rivisitata in Rosa, dove tecnica e passione si fondono “angelicamente”. Un lavoro dalla costruzione complessa, grazie anche ai musicisti che la accompagnano, persone che si conoscono da anni e che da anni suonano insieme. Dagli Urban Fabula (Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone – che ha suonato nell’album ma ha anche curato la direzione della TRP Studio Orchestra, l’orchestra d’archi, e ha prodotto il progetto con la Spalletta – al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria) al chitarrista sloveno Jani Moder, formatosi in quella straordinaria fucina che è il Berklee College of Music di Boston, a Riccardo Samperi, ingegnere del suono, che Daniela ha definito «il quinto uomo del quartetto». Approvato a pieni voti!

Carnage – Nick Cave & Warren Ellis – 25 febbraio 2021

Nick Cave & Warren Ellis. Con questi due artisti non poteva che uscire un lavoro di altissimo livello. Carnage, carneficina, è un disco che impatta, fa male, ti rigira senza troppa gentilezza. Scritto durante il lockdown, è un lavoro di pesante riflessione sulla solitudine arrivata con la pandemia, sul credere in qualcuno o qualcosa, su quello che siamo oggi, con l’inconfondibile voce baritonale di Nick e praterie di sintetizzatori made in Warren, piccoli interventi di chitarre elettriche secche come la solitudine, il pianoforte suonato da Nick che tesse melodie, in realtà, note di speranza. In Balcony Man, ultimo degli otto brani che compongono questo mosaico baritonale, profondo, essenziale, Nick canta: This morning is amazing and so are you/This morning is amazing and so are you/ This morning is amazing and so are you/ You are languid and lovely and lazy/ And what doesn’t kill you just makes you crazier. Quest’ultima frase è epica: «Ciò che non ti uccide ti rende solo più pazzo», una sintesi perfetta per due anni di pandemia. In Hand of God, «Hand of God /Coming from the Sky», primo brano, dopo un inizio “classico”, scarica sull’ascoltatore un ritmo ossessivo, profondo. Nella splendida Old Time, dove, per inciso, alla batteria c’è un altro storico “Bad Seeds”, Thomas Wydler, Nick canta: «I sogni di tutti sono morti, ovunque tu sia andata, tesoro, non sono così indietro». Tasselli che raccontano la solitudine ma anche la speranza di ritornare un giorno a una normalità. Pregno ed epico White Elephant, un chiaro riferimento all’estrema destra americana. Parte con un’elettronica alla Peter Gabriel anni Ottanta per finire in una sorta di gospel. Qui è il primatista bianco che minaccia di uccidere tutti, si sente dio, «Una Venere di Botticelli con il pene», ma anche «Una scultura di ghiaccio che si scioglie con il sole»…

Smiling With No Teeth – Genesis Owusu – 5 marzo 2021

Smiling With No Teeth è il primo album di questo ventitreenne nato in Ghana e cresciuto a Canberra (Australia), dove i suoi genitori lo portarono all’età di due anni. La famiglia è ritornata in Ghana, lui divide la sua vita tra i due Paesi. Il fratello maggiore è un rapper noto in Australia, Citizen Kay. Premessa necessaria: Genesis adora i manga giapponesi, i videogiochi e in genere le arti visive. E ancor di più ama alla follia le musiche dei videogiochi, oltre al funk, al punk, al rap e al pop. Queste sue passioni si riversano tutte nel disco che riassume un caos di generi dove Owusu si muove a suo agio, alimentandolo a dovere. Si sente la stessa fluidità di Prince nel fare musica… A partire dal primo brano, On The Move che introduce The Other Black Dog, è un crescendo di melodie e generi che stimolano e incuriosiscono. Ti invogliano ad andare avanti per questa strada apparentemente sconnessa – vedi Waitin’ on Ya – e divorare il disco fino all’ultimo brano, By By.

We Are – Jon Batiste – 19 marzo 2021

Jon Batiste, è un artista di New Orleans, famoso negli States per essere il direttore musicale del The Late Show condotto da Stephen Colbert. Il suo lavoro, We Are, è un album che trasmette energia allo stato puro, emozione, disperazione, commozione, pur conservando un grande rigore musicale nel mix stilistico. Un album “impegnato”, sull’onda del Black Lives Matter. C’è soul, pop, hip-hop, rap, R&B, con un pizzico di maestria jazz, ingredienti di un’insalata condita alla perfezione. Ascoltate We Are, il brano che apre il disco, cantata assieme alla St. Augustine High School Marching 100 e il Gospel Soul Children’s Choir di New Orleans, dove la parola “freedom” è una costante. Freedom è anche il titolo di un altro brano… In un crescendo la creativa sequenza di Batiste si sussegue a ritmo serrato, passando per Tell The Truth, un’intemerata alla Otis Redding e agli anni Sessanta, all’incontenibile I Need You, e così per tutti e 13 i brani, belli spessi.

Vulture Prince – Arroj Aftab – 23 aprile 2021

La voce di Arroj Aftab ti inchioda, la sua musica, contaminata da jazz, ritmi afrocubani, dal samba e, ovviamente dalle melodie tradizionali del suo Paese d’origine, il Pakistan, è la dimostrazione di come le culture si possano fondere armoniosamente e far nascere qualcosa di nuovo e importante. Dopo Bird Under Water, primo disco uscito nel 2014 – ascoltate la ninnananna Lullaby – Sirene Islands, del 2018, quattro brani per 48 minuti e 15 secondi di ascolto, pura elettronica, musica meditativa – qui Ovid’s Metamorphoses – ecco Vulture Prince, un disco che doveva essere la naturale continuazione del precedente Sirene Islands, con un ritorno, però, all’uso di strumenti quali la chitarra, l’arpa, i violini, nella quasi totale assenza di percussioni, un forte richiamo alla musica urdu, un neo-sufi con influenze jazz, folk, persino reggae. Il tutto suona non come una semplice contaminazione di generi, ma con uno studio attento e rispettoso della musica da cui Arooj ha attinto. Doveva essere anche un disco più “sostenuto”, come lei stessa ha avuto modo di spiegare in un’intervista a NPR, emittente radiofonica americana, con iniezioni di Afrobeat, poi, una tragedia familiare, la morte di Maher, il fratello più giovane a cui era molto unita, l’ha portata a fare scelte più rispettose del lutto che si era imposta. Ne è nato un lavoro di grandi emozioni. Da Diya Hay, brano per lei significativo, perché è l’ultima canzone che ha cantato al fratello, registrato con la brasiliana Badi Assan, alla sua personale versione del Mohabbat, un ghazal, poema tradizionale (famosissimo), che parla d’amore, ma anche di dolore per la perdita della persona amata, fino a Last Night, il testo è un poema di Rumi, il grande poeta persiano vissuto nel Duecento, che lei ha messo in musica (reggae) nel 2010 e che ha deciso di incidere in questo disco.

Xenia Rubinos, Una Rosa e il “no gender” della musica

Non so se l’avete sentita nominare o ne avete già ascoltato qualcosa. La musicista in questione, polistrumentista, si chiama Xenia Rubinos ha 36 anni ed è nata nel Connecticut da madre portoricana e padre cubano. Studi alla Berklee School of Music di Boston, una formazione jazz ma anche una passione per la musica elettronica, definire il genere della Rubinos è praticamente impossibile. In questo “no gender”, anzi, “full gender” album, si sentono accenni punk, jazz, folklore latino – rumba in testa – beat hip hop, una sequenza e sovrapposizione che disorienta l’ascoltatore, perso tra mille sentieri di note, ma che poi finisce per ritrovarsi in un ambiente sonoro che ha del familiare, attira, ha un senso compiuto.

Una Rosa è il terzo lavoro di Xenia, i primi due sono Magic Trips del 2013 e Black Terry Cat del 2016. Ci sono voluti cinque anni per pubblicare il nuovo lavoro uscito a metà ottobre per Anti. In questo lungo periodo, dove di mezzo si è messo pure il Covid, Xenia s’è fermata, come da lei stessa dichiarato (il The New York Times le ha dedicato un lungo articolo firmato dalla critica musicale Isabelia Herrera), sentendosi disorientata dopo la serie di concerti per promuovere Black Terry Cat e varie vicissitudini personali, che l’avevano mentalmente prosciugata. Aveva bisogno di pace e riflessione. È persino andata da un curandero che le ha diagnosticato una “perdita di spirito”…

Un lavoro che ha della drammaticità intrinseca, che tratta temi importanti, per lei la musica e il messaggio devono coesistere, altrimenti la sequenza di note perde valore. Un brano, Ay Hombre, inizia con un auto-tune sostenuto (non sopporto l’auto-tune, lo trovo un insulto alla voce, però in questo caso, dopo il primo urto di nervi, la Rubinos ha sconvolto lo spartito, piazzando un synt, con un uso quasi “scolastico”, per introdurre, con una voce densa, il dondolare latino, in contrasto con l’essenzialità elettronica del brano.

Anche Una Rosa, la canzone che dà il titolo all’album, un danzón portoricano di José Enrique Pedreira di settant’anni fa, è stato rivisto come un momento struggente di pathos, con un tappeto di synt e un basso che gira cupo e solenne. Era un motivo che aveva sentito uscire da una lampada che apparteneva alla bisnonna, fatta di fiori di fibre ottiche che si illuminavano con il suono di un carillon, la stessa della cover dell’album. Alla giornalista del New York Times, ha raccontato che ci ha messo un paio d’anni per capire chi fosse l’autore del brano, alla fine lo ha trovato, ma ha deciso di eseguire quello che lei aveva filtrato nei ricordi di bambina. Una nenia che diventa quasi aulica…

Ascoltatelo  questo disco! Il primo brano Ice Princess, dura 56 secondi ed è un ingresso al mondo di Xenia. Il testo è breve: There she is, There she is. No, wait! There she is, There. Tre interventi musicali di pochi secondi e il resto è silenzio assoluto. Quando la pausa diventa musica.

Tre dischi da ascoltare e… commentare

Oggi vi propongo tre dischi di recente uscita che mi sono piaciuti. Come sempre, alla ricerca di album non banali che abbiano qualcosa da dire.

1 – Superwolves – Matt Sweeney e Bonnie “Prince” Billy

Parto subito con un disco uscito il 30 aprile scorso firmato Matt Sweeney – chitarrista americano famoso per aver fatto parte degli Zwan, supergruppo composto da Billy Corgan, frontman, e Jimmy Chamberlin, batterista, dei The Smashing Pumpkins e David Pajo, fondatore degli Slint – e Will Oldham nella sua veste di Bonnie “Prince” Billy. Nel 2005, 16 anni fa, i due artisti avevano pubblicato Superwolf, disco che è diventato un’icona underground. Il nuovo album si chiama Superwolves, l’idea del lupo è una linea guida di Oldham nella veste del suo alter ego Bonnie “Prince” Billy: nel 2003, nell’album Master and Everyone aveva scritto una canzone intitolata Wolf Among WolvesLupo tra i Lupi. Il lupo, animale simbolo, selvaggio, feroce, tutto cuore e passione. Superwolves è un disco che raccoglie quel filo che s’è interrotto 16 anni fa tra Sweeney e Oldham. Il canto e la scrittura del secondo si fonde con le chitarre del primo in una simbiosi così naturale e totale che ti fa sentire parte di qualche cosa, immerso nel mondo gentile – e drammatico – di Bonnie fin dalla prima canzone, Make Worry For Me, intreccio di voci e chitarre…

2 – We Are – Jon Batiste

Andiamo su tutt’altro genere. Lui è Jon Batiste, artista di New Orleans, famoso negli States per essere il direttore musicale del The Late Show condotto da Stephen Colbert. Jon ha pubblicato il 19 marzo scorso We Are, disco che trasmette energia allo stato puro, emozione, disperazione, commozione, gran rigore musicale nel mix stilistico ma anche impegno, sull’onda del Black Lives Matter. C’è soul, pop, hip-hop, rap, R&B, con un pizzico di maestria jazz, un’insalata condita alla perfezione. Ascoltate We Are, cantata assieme alla St. Augustine High School Marching 100 e il Gospel Soul Children’s Choir di New Orleans. Quindi si passa in un crescendo a Tell The Truth, un’intemerata alla Otis Redding e agli anni Sessanta. Per passare poi all’incontenibile I Need You, e così per 13 brani belli spessi.

3 – The Battle at Garden’s Gate – Greta Van Fleet

Dei tre fratelli Kiszka, Josh (voce), Jake (chitarra) e Sam (basso) e di Danny Wagner (batteria) ne stanno parlando tutti. In arte sono i Greta Van Fleet, due dischi all’attivo, l’ultimo, The Battle at Garden’s Gate è uscito il 16 aprile scorso, e un rock già sentito. Anzi, un gruppo già sentito, storico, immortale, i Led Zeppelin. La cosa strana – e bella – di questa band americana è che non fa nulla per nascondere l’amore incondizionato per il rock anni Settanta, periodo di massimo fulgore, e per Robert Plant & Co. Josh ne ha introiettato persino la voce. Detto ciò, ripuliti dai possibili mormorii di plagio, la chitarra di Jake in Built By Nations assomiglia, ma assomiglia proprio, al celeberrimo riff di Jimmy Page in Black Dog: è un rock per nostalgici del Rock. Ben suonato, con il giusto pathos, impeccabile, sartoriale. I quattro son proprio bravi, speriamo in un’evoluzione che prenda le distanze dai loro idoli, perché di stoffa ne hanno, eccome.

Tre dischi in arrivo: Pat Metheny, Valerie June e Morcheeba

Ci sono tre dischi per altrettanti artisti che sto aspettando. Sono musicisti molto diversi tra loro per generi, storie e percorsi musicali. Ve lo dico, li ho già prenotati. Il mio personale metodo di scelta non guarda a chi sia più famoso o meno (essere una star non è sinonimo di bravura eterna), ma a quello che mi dicono, all’emozione che mi danno, allo stupore che mi lasciano, a quel senso di soddisfazione che provo nell’ascolto. Criteri soggettivi, ovviamente, che voglio condividere con voi. Poi mi direte se siete dalla mia o se mi manderete a quel paese…

Parto forte: il 5 marzo sarà disponibile per la Modern Recordings, etichetta in seno alla BMG dedicata a classica, jazz ed elettronica, l’ultimo lavoro di Pat Metheny, Road To The Sun. Sono pochi i musicisti che dopo aver vinto 20 Grammy, pubblicato 40 album, suonato con decine di mostri sacri della musica riesce a tirar fuori dal suo magico cappello un lavoro per certi versi spiazzante, diverso dagli altri, mantenendo però l’imprinting “Metheny”. Come sempre, direte voi. Esatto, ribatto. Come sempre. Metheny è una garanzia. Questa volta la chitarra è protagonista con il suo suono puro. Un disco diviso in tre parti, Four Paths of Light, dove, con lui suona con Jason Vieaux, chitarrista classico (qui Four Paths of Light Pt. II), una seconda, Road To The Sun, sei tracce che danno il titolo all’album, eseguite con i LAGQ, Los Angeles Guitar Quartet, al secolo John Dearman, William Kanengiser, Scott Tennant e Matthew Greif. Ascoltate Road To The Sun Pt. II. L’ultima parte è un riarrangiamento di Für Alina, uno dei brani storici dell’ottantacinquenne compositore estone Arvo Pärt, musica per pianoforte suonata nel 1976, arrangiata da Metheny che la suona con la sua mitica chitarra a 42 corde.

Il 12 marzo, invece, cambiando del tutto genere, uscirà un disco attendevo da un po’. Si tratta di The Moon And The Stars: Prescription For Dreamers di Valerie June, via Fantasy Records. La trentanovenne cantante e compositrice polistrumentista del Tennessee dotata di una voce molto particolare, ha prodotto il disco con Jack Splash (producer anche di Kendrick Lamar, John Legend, Alicia Keys). Il risultato è un lavoro che giustifica l’attesa. Dalle canzoni che preannunciano l’album, Call Me A Fool e le prime tre Stay / Stay Meditation / You And I, traspare un progetto ambizioso (erano quattro anni che non pubblicava più nulla) quanto profondo. C’è blues, R&B, un pizzico di psichedelia e una generosa dose di folk pop.

Il 14 maggio, mi prendo per tempo, sarà nei negozi Blackest Blues il nuovo album dei Morcheeba, via Kartel Music. Il duo britannico, autore di un pop molto raffinato, ha composto 10 brani, disponibile all’ascolto per ora, solo Sounds of Blue, con un video dove Sky Edwards e Ross Godfrey, il chitarrista, navigano in una barca in mezzo al mare e Sky in acqua si muove cantando avvolta nel profondo blu. L’album contiene anche due apprezzati interventi, quelli di Duke Garwood (in The Edge of The World) e Brad Barr (in Say It’s Over). Trip hop, raffinate armoniche della chitarra di Godfrey e la voce inebriante di Sky ne fanno un lavoro preciso ed emozionale, da ascoltare con cura.