Per “alleviare” questo weekend grigio e piovoso vi propongo un lavoro uscito in digitale qualche giorno fa, mentre in vinile è in circolazione da fine dicembre 2023. Il titolo è Cuore in mare e porta la firma Megattera. Artisti emergenti, nonostante facciano musica da 13 anni. Una coppia anche nella vita che ha unito la passione per le note e il canto con quella altrettanto forte – e necessaria – per il mare. «Megattera è il nostro primo progetto autorale», mi spiega Maurizio Zucchelli, chitarrista e autore delle musiche. «Un progetto fieramente indipendente», interviene convinta Marianna Sala, cantante e autrice di tutti i testi. All’attivo hanno anni di gavetta, tra concerti per eventi, feste, celebrazioni. La produzione di musica propria è l’attività parallela che, finalmente, ha visto la luce. In quest’avventura c’è anche Raffaele “Rabbo” Scogna, producer e musicista che ha amalgamato le esigenze artistiche di Maurizio e Marianna, suonando tastiera, batteria e basso. Continua a leggere
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Bright Magus, esce Jungle Corner. Con la benedizione di Miles
Venerdì prossimo, 27 ottobre, uscirà sugli scaffali fisici e digitali un disco che vi consiglio d’ascoltare con una certa libertà d’udito e di pensiero. Loro sono i Bright Magus, formazione tutta italiana che arriva con un lavoro di sei brani intitolato Jungle Corner. Il genere? Una fusion anni Settanta, ma non una fusion qualsiasi, bensì quella ispirata dal padre del genere, Miles Davis, nel suo periodo elettrico che va dal 1969 al 1975, quando l’artista era sotto contratto con la Columbia. Continua a leggere
Quattro, Nanni Gaias e la pietra filosofale della musica
Di Nanni Gaias vi avevo parlato poco più di due anni fa, all’uscita del suo Ep T.O.T.B. – Think Outside The Box, via Tǔk Air, uno dei bracci della casa madre fondata da Paolo Fresu, dedicata si suoni dell’elettronica, del funk e del soul. Nanni, classe 1996, di Berchidda (Sassari), il 21 aprile scorso ha pubblicato Quattro, un concept album che vi consiglio di ascoltare attentamente.
Un lavoro composito, ricco, pieno di spunti che unisce gli opposti e che riesce, come un alchimista, a trovare la strada per arrivare alla mitica pietra filosofale. Già, perché l’album non si chiama Quattro per caso. Quattro sono i passaggi degli alchimisti per arrivare a trasformare il vile metallo in oro, quattro sono le stagioni, quattro gli elementi della creazione. «Il disco è un mio viaggio interiore. Quattro sono i miei pilastri musicali, dub, afrobeat, funk e soul, un mix di stili e generi che insieme creano la mia pietra filosofale», mi racconta Nanni. Continua a leggere
Misteriseparli: «musica è musica, i generi non contano»
Vediamo se ho capito bene: sono nati nella stessa città, Pescara, uno nel 1971, l’altro sei anni più tardi. Entrambi – senza conoscersi – si sono appassionati alla musica sin da piccoli, studiandola privatamente, diventando polistrumentisti. Il primo è appassionato di club, oltre a essere un musicista è anche un dj, il secondo ha suonato in gruppi rock e hardcore surf. Entrambi sono appassionati di longboard e di professione lavorano nelle piattaforme petrolifere in giro per il mondo. Proprio in una di queste, in Spagna, dieci anni fa si sono conosciuti.
Questa è la storia di Giuseppe Palmieri (Pepi) e di Andrea Sestri (Andrew), in arte i Misteriseparli, duo difficile da etichettare e incasellare in qualche genere. Nel maggio scorso hanno pubblicato il loro primo lavoro Speedbeforedeath. La musica, spesso, racconta in maniera più efficace delle parole la vita delle persone. E questo disco, pubblicato da Vina Records e distribuito da Believe, narra la storia di questi due uomini che le note hanno fatto incontrare. Continua a leggere
Disco del Mese: P.O.C. (Proof Of Concept), Zenizen
Nelle mie escursioni lungo sentieri sonori da me poco frequentati, mi sono imbattuto in P.O.C. (Proof Of Concept), un disco molto interessante, uscito il 27 luglio, ben concepito e altrettanto ben arrangiato da Opal Hoyot – nata in Alaska, vissuta tra Australia, Las Vegas, Washington DC, Jamaica e ora di stanza a New York – con il moniker di Zenizen. C’è tanta elettronica, ma ci sono anche strumenti “analogici” che, insieme, dialogano molto bene. Continua a leggere
Riccardo Ruggeri, la libertà di cantare
Oggi vi presento un artista che, nonostante faccia il musicista da anni e abbia un background di grandissimo rispetto, ha pubblicato a metà aprile il suo primo disco da solista, Non ci aspetta nessuno (se non miliardi di foto), per Vina Records/ADA Music Italy. Si chiama Riccardo Ruggeri, è piemontese di Biella, ha 42 anni ed è uno che sulla sua voce ha scommesso tutto. Anni di studio, una laurea al Conservatorio di Alessandria in canto jazz e improvvisazione, un master in vocologia, e poi studi ancora più approfonditi di canto funzionale, canto armonico e canto estremo, e una venerazione da ricercatore per Demetrio Stratos e il canto dei pigmei…
In una parola: sostanza. Nella musica, dove l’elettronica, i richiami dance e funk con uno sguardo al miglior pop internazionale sono il filo conduttore. E nei testi stimolanti, provocatori, a uso di una voce con cui riesce a fare praticamente di tutto. Se mettete in cuffia Un POPulista, capirete ciò di cui sto parlando!
Vi consiglio vivamente l’ascolto! E lo suggerirei soprattutto ai tanti trapper e rapper nostrani, specialmente nell’uso sapiente e centellinato dell’Auto-Tune, impiegato per esaltare la vocalità e non per nascondere le incapacità. Avrete capito che il personaggio mi intriga non poco.
Ruggeri è un artista particolare: non cerca il successo ma il pubblico. In base a questa filosofia – corretta per un musicista – persegue una politica di intrattenimento tutta sua. La situazione ideale per esprimersi è la strada, da vero busker, dove può entrare in contatto con chi lo sta ascoltando che si ferma solo perché interessato alla sua musica. La maggior soddisfazione. Ha suonato in molte parti del mondo, all’Ansan Street Arts Festival in Corea, al Nature and Art Festival di Shenzhen, in Cina, al Cirk! in Belgio, Imaginarius in Portogallo, Olla in Austria, Spoffin in Danimarca… tutti grandi festival dedicati agli artisti di strada.
Anche la cover dell’album lo rappresenta, un rinoceronte con un orecchino d’oro, i suoi occhi azzurri e la bocca aperta nell’atto del cantare. Altra particolarità di Riccardo: non sopporta i dischi mono-genere e neppure l’accademismo fine a se stesso.
Lo raggiungo al telefono in Francia, dove sta portando in giro con una compagnia teatrale uno spettacolo. La telefonata arriva mentre stanno cercando il teatro dove dovranno esibirsi. «Gira di qua». «Ok, ora dritto, il navigatore mi dà così, ecco, ora vai a destra…».
Riccardo, mi senti? Hai un attimo per me?
«Eccomi! Scusami siamo praticamente arrivati… dimmi pure!».
Ti chiamo per il disco, mi è piaciuto molto. So che non sopporti gli album mono-genere però ci sarà pure un filo conduttore in questi 12 brani…
«Certo, è il canto!».
Come ti è venuta la passione?
«Ai tempi del liceo avevamo dato vita a una band. Suonavo la chitarra, poi, visto che non c’era il cantante, ho iniziato a cantare. L’avevo sempre fatto, ascoltavo i vinili di mio nonno, mi piaceva la voce di Claudio Villa… poi ho conosciuto il lavoro di Demetrio Stratos. È stata una deflagrazione: pensa a quello che ha fatto, una tangente che è partita da John Cage ed è arrivata al Rock’n’Roll. È stato una meteora, purtroppo. Riascoltando i suoi lavori da solista, dentro ho ritrovato e ritrovo i suoi esperimenti vocali, utilissimi in campo didattico. A 18, 19 anni mi mettevo in sala prove cercando di ripetere i suoni che uscivano dalla sua bocca».
Hai studiato anche canto funzionale…
«Lo si ritrova in tutte le didattiche. Si tratta di percepire, sentire la propria voce attraverso tutto il corpo in modo da ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Quando si canta si mettono in movimento catene muscolari lungo tutto il nostro corpo. Non è una tecnica sciamanica ma si tratta di ricerca (la scienza ci è arrivata negli ultimi vent’anni). Praticarla mi ha smontato e ricostruito, cambiato il valore del canto, che diventa ascolto, autopercezione, condivisione. In questo modo il virtuosismo passa in secondo piano…».
Mi è piaciuto molto la cover… ma perché proprio un rinoceronte?
«Da piccolo ero affascinato dal mondo animale, avevo l’album di figurine del Wwf. Poi ho trovato la simbologia dei vari animali. Il rinoceronte rappresenta la resistenza, la pazienza e la precarietà…».
Ti riconosci in lui…
«Tendo ad avere passioni forti e intense che durano un paio di mesi, poi passo a un’altra cosa».
Vieni da Biella. Come si sta in provincia? Zerocalcare nel suo Strapapare Lungo i Bordi, l’ha presentata come una cittadina sonnolenta, triste, scatenando l’ira di tanti…
«Zerocalcare ha toccato l’orticello e le sue chiusure. Ci sono nato, ci vivo, ma ho sempre bisogno di scappare per ritrovare equilibrio e soddisfazione nella piccola provincia. E poi si sta bene: a pochi minuti da casa sono a fare il bagno nel torrente in montagna».
Non hai mai pensato di trasferirti? Che ne so, a Milano, a Torino o a Roma?
«La grande città, a livello di offerte, ha grossi vantaggi. Il fatto è che sono un estimatore del caso e del caos: come l’acqua, che va ovunque e si infiltra dappertutto. La provincia ha muri così alti che, per contro, mi spinge a cercarmi le cose…».
Bella teoria: è uno stimolo per aggirare i tanti ostacoli. Lo fai se proprio lo desideri…
«A 16 anni mi andavo a cercare tantissime cose, facevo concorsi, eravamo riusciti a suonare a Torino, Bologna e Milano!».
Veniamo ai brani: Io non sono figlio di Maria, intesa come la Madonna?
«Ma no! Io non sono Figlio di Maria, intesa come la De Filippi. Non ho mai provato il mondo dei talent, per quanto trovo sia efficace. Però non lo farei mai perché mi è sempre piaciuto il valore sociale della musica. Il dover dimostrare quanto si vale non è nelle mie corde: forse è meglio fare quello che ci fa stare bene. Il titolo e un po’ un gioco, ricordi la vecchia cantilena chi fa la spia non è figlio di Maria? Ebbene, voglio essere una spia, intesa come segnale che si accende per segnalare problemi, anomalie…».
Quindi questo disco che cos’è per te?
«Una necessità, avevo bisogno di creare quel tipo di accrocchio di generi. Tutto però si riconduce alla mia esigenza di creare qualcosa legato a una sensibilità condivisa. Come nei miei progetti, ad esempio con i Syndone, band prog rock di Torino (decisamente e meravigliosamente prog!, ascoltateli, ndr) o con Le Lavatrici Rosse (duo con il batterista Andrea Beccaro, con cui canta Giovinezza, brano contenuto nel disco, ndr)».
Una canzone diversa dall’altra quanto a stile e modo di interpretarla…
«Mi sono concesso un momento di libertà creativa, dove non avevo vincoli nello scrivere, basandomi solo sui periodi in cui li ho composti».
Cosa ti aspetti dall’album?
«Di dare una visione sincera semplice di quello che mi piace, arrivare a comunicare in modo intimo con chi mi ascolta. Un condivisione di esperienze e sensibilità. Non ho aspettative commerciali».
Avete fatto anche dei vinili?
«Per ora solo una piccola tiratura di Cd e la versione digitale, ovviamente. Il vinile è una spesa troppo elevata. Ci sarà comunque un secondo tempo, ho già venti brani pronti!».
Deciso appuntamenti live?
«Stiamo organizzandoci. L’estate è l’occasione per sperimentare… il lavoro grosso sarà in autunno, nei club».
Ti definisci, con orgoglio, un busker…
«È la forma di live che preferisco in assoluto. Il busking è post social, mi piace, mi fa impazzire suonare per strada, perché cade tutta la finzione del palco. La strada è spietata, nessuno ti aspetta. Si ferma ad ascoltarti solo chi ritiene che sei degno d’ascolto. È libertà per il musicista e per l’ascoltatore, una palestra di vita. E poi ci si muove facilmente. Prendo la mia orrenda Multipla, carico il borsone con gli strumenti e parto… è un senso di libertà totale!».
Interviste: Electric Sheep Collective, ne sentirete parlare!
Fifty years ago in Vietnam… People were fighting for nothing.
Right now, in Afghanistan, Indonesia, Burundi, Colombia, Congo, Philippine, Yemen, Libya, Nigeria, Syria, Somalia, Sudan… (People are) still fighting, killing each other, fathers, mothers, sons, daughters, sisters, brothers… friends… human beings.
People are fighting every day. Fighting for money, fighting for more petrol, more authority, more richness.So, if you don’t want any war, Say Nope to racism
Say Nope to exploitation
Say Nope to segregationSay Nope to violence
Let me take your minds to the fact just yesterday I was watching in CNN, I see the destruction of Syria, middle East on crisis! I see the atrocity committed by my black brothers I could not comprehend them I said to myself that this fucking word is coming to an end…
The rich always want to oppress the poor. They take advantage of their weakness …is a useless world where we live and where we die… please don’t take this personal.Say Nope to racism
Say Nope to exploitation Say Nope to segregation Say Nope to violenceSome believes in wars. For me, I don’t believe in war, I don’t believe in fight, because so many warriors are dead. I am the last man standing, I got so many names like I had the feeling my name will be lost. On top of the highest mountain, I was named great Joe Nize, my hands above my head, my belts fit my shoulders, my aim is to make the street alright. No more crime, everywhere will be peaceful like that’s of river Nile I can see it from miles. Good Italy, good people, peace is what I see
Evocativo, vero? Quanto mai attuale, visto il periodo. Il brano si intitola Nope e potete ascoltarlo, come del resto l’intero album uscito poche settimane fa dal titolo Nope-Hope, su Bandacmp. È il primo lavoro di un collettivo chiamato Electric Sheep Collective. Suonano da molti anni insieme, ma hanno deciso di pubblicare solamente quando hanno trovato il loro giusto – e complesso – equilibrio creativo.
Torniamo a Nope: come avrete capito, l’invocazione in forma di spoken word alla Gil Scott-Heron, è una denuncia contro le guerre. Troppe contemporaneamente sul nostro Pianeta – il collettivo non poteva prevedere l’invasione “putinesca”, avendo inciso il disco prima. Troppa violenza, troppi interessi, si combatte sempre per soldi, per accaparrassi più petrolio, più potere, più ricchezza. A questo proposito: fresco fresco di stampa, vi consiglio di leggere l’editoriale su Domani, di Mario Giro.
Quella degli Electric Sheep Collective è una gran bella scoperta, sicuramente una delle più interessanti e qualitative ascoltate da un bel po’ di tempo a questa parte. Un lavoro che ha catturato la mia attenzione perché tutti e otto i brani dell’album (il titolo è la composizione del brano iniziale e di quello finale) sono stati composti, arrangiati, scritti insieme, da vero collettivo quale sono. Non si tratta di esecuzioni stucchevoli, ma vive, cariche di impegno con percorsi armonici non scontati, un groove che non è groove, ma molto di più, come vedremo tra poco. Stratificazioni attente per rendere in note quello che le parole raccontano.
Gli ESC sono italiani, vivono tra Roma, Latina e Viterbo, a parte Joe Nize, il cantante, nigeriano fuggito dal suo Paese e da anni in Italia. C’è poi Ashai Lombardo Arop, la voce femminile, italo-sudanese, nata a Genova, artista poliedrica, cantante, coreografa, attrice, danzatrice, insegnante di danza e teatro-danza. Joe e Ashai sono due punti di riferimento per la band. Sono tutti più o meno giovani, studi al conservatorio, impegnati socialmente, determinati nelle loro scelte di vita e arte. Il motore è Angelo Olivieri, trombettista di fama, uno che ha percorso molte vie del jazz, avendo ben chiaro da che parte stare nella musica e nella vita. E poi ci sono Vincenzo Vicaro ai sassofoni, Andrea Angeloni al trombone, Lewis Saccocci alle tastiere, Manlio Maresca alla chitarra, Joe Serafini alla consolle, Riccardo Di Fiandra al basso e Daniele Di Pentima alla batteria.
Vi consiglio di ascoltare questo disco. Ci sono richiami a Heron, appunto, ma anche Terri Lyne Carrington e ai suoi Social Science, ai Sons of Kemet, uno dei progetti di quell’istrione di Shabaka Hutchings, al trombettista americano Christian Scott aTunde Adjuda, c’è l’Afrobeat di Fela Kuti, c’è Tony Allen, si sentono, sparse e più elaborate, quelle punte afro-funk alla Michael Wimberly (mettete in cuffia il suo bel lavoro Afrofuturism pubblicato lo scorso anno).
Con cinque di loro mi sono collegato via streaming per conoscerli. Ne è uscita un’istruttiva conversazione durata un’ora e mezza, dove ho capito – ritorno all’intervista con Ferdinando Faraò dell’altro giorno – quanto siano importanti il confronto e la creatività messi a disposizione degli altri.
Domanda scontata, tanto per rompere il ghiaccio: come vi siete conosciuti?
Riccardo Di Fiandra: «Alcuni di noi hanno iniziato a suonare, giovanissimi, al limite della maturità (scherza Riccardo, ndr.), con Angelo (Olivieri, ndr) in un suo progetto, chiamato Zy Project. Sono stati anni di crescita, non solo musicale ma umana, di amicizia. Anche con Andrea Angeloni abbiamo suonato in un’orchestra insieme. Siamo tutti, innanzitutto, molto amici, c’è un rapporto di grande stima tra noi. Ed è un punto fondamentale. Quindi siamo approdati nel progetto Electric Sheep che Angelo ha ideato in questi anni con un lavoro di sintesi e di ricerca molto lungo… ed eccoci qua!».
Venite tutti dal conservatorio?
Riccardo: «Io e Daniele (Di Pentima, ndr) abbiamo studiato al conservatorio di Frosinone, anche Angeloni ha frequentato il conservatorio… sì, più o meno tutti veniamo da lì».
Angelo Olivieri: «Sono l’unico che viene dal conservatorio. Sono un autodidatta. Ho costruito la mia conoscenza musicale “alla vecchia maniera”, suonando; ho frequentato un sacco di seminari, scuole, non ho però il pezzo di carta in mano, che ho, invece, in altri ambiti. Anche Lewis (Saccocci, ndr), il tastierista, arriva dal conservatorio; Ashai viene da altre esperienze (si è laureata in Discipline Teatrali a Bologna, ndr), è una performer che ha molte frecce a disposizione. Joe Nize è come me».
Visto che Joe non c’è, potete raccontarmi come lo avete conosciuto?
Angelo: «Alla festa di compleanno di mio figlio (la figlia era una compagna d’asilo). Di lui sapevo poco, mi dissero che prima di scappare dalla Nigeria era un cantante professionista, aveva un ingaggio, una casa discografica, faceva una musica chiamata Afrobeats, con la esse finale, che non ha nulla a vedere con l’Afrobeat. Essendo nigeriano, però, aveva una venerazione per Fela Kuti. L’incontro con Joe è avvenuto per caso, ma nel momento più giusto: come collettivo eravamo in forte impasse: avevamo capito che il nostro sound aveva bisogno di una voce che narrasse delle storie e, soprattutto, ci serviva quel tipo di ritmica, non rap ma spoken word. Avevo iniziato a girare tra Roma e Viterbo intervistando africani a cui chiedevo che mi raccontassero a loro modo opinioni rispetto a certe tematiche. Con Joe Serafini, il nostro dj, montavamo in studio le voci per vedere che effetto facevano unite alla nostra musica. Abbiamo sentito anche Joe: era perfetto. Questo accadeva quasi sei anni fa. Con Ashai, invece, è nata proprio l’esigenza di avere un’altra voce per essere completi. Poi abbiamo deciso che eravamo già tanti e poteva bastare così».
Siete un bel gruppo effettivamente…
Angelo: «La nostra idea di musica è una sorta di piazza, una piazza condivisa, dove le voci sono tante. Esistono, però, dei limiti logistici. Sarebbe bello dare spazio a molte altre voci dentro la nostra musica, perché vorremmo fosse la colonna sonora di un tempo, e, attraverso questi brani, poterlo anche cambiare. Le prime parole del nostro primo brano del nostro primo disco sono più che mai attuali. Pensa che l’abbiamo scritto in occasione del cinquantesimo anniversario dell’inizio della guerra in Vietnam…».
Nel vostro fare musica siete attenti a presentare “senza filtri” il mondo come è oggi…
Angelo: «Per noi è un’esigenza, sono un po’ le nostre storie. Joe è un uomo scappato da una sorta di guerra, quando suonavamo in un’orchestra c’era un signore ucraino che suonava il trombone. È il nostro vissuto, abbiamo frequentato e lavorato con persone fuggite da tragedie. Si rischia di essere ovvi a parlare di discriminazioni, a dichiararsi contro il razzismo. Ma evidentemente non lo siamo così tanto. Non basta aver cantato un miliardo di volte Imagine di John Lennon, capirne il significato ma continuare ad ignorarlo. Sono stanco di essere trattato da utopico, perché mi sembra molto più utopico far esistere un mondo dove si rischia un conflitto nucleare che non uno dove è normale passare da un confine all’altro. Ho una vita di ricercatore al CNR, un phd in fluidodinamica, mi sono occupato di navi e, come puoi capire, non tutte le navi sono fatte per trasportare i pesci. A certi progetti ho detto no, ci vuole coerenza…».
A parte Angelo (classe 1968), siete tutti molto più giovani…
Vincenzo Vicaro: «Mi colloco, come età, esattamente a metà tra Riccardo, Daniele e Angelo. Ricordo i conflitti nei Balcani, che avevano un altro connotato. Il contesto attuale è unico. Si vivono paradossi mediatici, pensa alla Prima guerra del Golfo. Non puoi permetterti, come sta facendo qualche nostro politico, di stare di qua e di là allo stesso tempo, vieni sgamato subito. Noi non siamo utopici. Cerchiamo di vivere il mondo che vorremmo, lo fa Joe, puro nella fonetica, ma duro, e noi con la musica. Il nostro è un sodalizio che nasce prima del conservatorio, la nostra relazione è scevra da diplomi e lauree. Siamo un gruppo di amici da oltre dieci anni, ci confrontiamo di continuo su tutto, siamo uniti. La musica è un mezzo per intrattenere, ballare, raccontare. Tanti artisti se ne dimenticano, diventando astratti… dei dadaisti concettuali!».
Riccardo (scherza, ndr): «Bella questa! Te l’eri preparata?».
Angeloni: «Ci siamo conosciuti – non a caso – in un’orchestra multietnica, dove non esistevano né barriere musicali né confini di altro genere. Stiamo vivendo un periodo molto complesso ed è importante che le radici di questo collettivo provengano da un percorso senza barriere, confini né limiti. Angelo, con il suo lavoro ha contribuito non poco a ottenere tutto ciò. Prendi il jazz: nella sua forma più idiomatica ha anche lui molti limiti. È difficile dare una connotazione a quello che suoniamo, perché è frutto di tante esperienze. C’è il jazz, certo, c’è quello che ha fatto studi classici, l’altro che ha studiato improvvisazione, è una storia eterogenea, ideale…».
Infatti la vostra musica non è definibile classicamente “jazz”, siete piuttosto vicini ad altre esperienze, per esempio, ai Sons of Kemet, a Shabaka Hutchings…
Andrea: «Rispondo io perché seguo Shabaka da una decina d’anni e non solo lui, anche i suoi musicisti. Noi prendiamo quell’energia anche dal gruppo degli Ancestors (band sudafricana che ha suonato anche con Shabaka, in un altro progetto del vulcanico barbadiano, ndr). Gli Ancestors sono nati in contemporanea con la nostra musica. Abbiamo notato il messaggio di unione che ha voluto trasmettere Shabaka. Fanno session di improvvisazioni lunghe, qualità e interpretazione dei singoli è fondamentale, ma l’energia è quella che nasce dallo stare insieme».
C’è molta Africa nel disco…
Angelo: «C’è ed è precedente all’incontro con Joe Nize. È colpa mia, risale a tanti anni fa, mi ha catturato. In realtà, la matrice di tutta la musica afroamericana che ascoltiamo è… completamente africana! Il Blues, come le poliritmie sono già nella musica africana. La parte americana dell’afroamericana può essere lo swing. Ho conosciuto uno dei primi suonatori di Kora arrivati qui in Italia, Madya Diebate, ho suonato tanto con lui e ho ascoltato un repertorio infinito di musica del Senegal e del Mali. L’ho sentita molto vicina: sono nato a Pitigliano, nota come La piccola Gerusalemme, a cui abbiamo dedicato il terzo brano (Little Jerusalem) dell’album. Ho in testa la musica ebraica sefardita che comunque c’è ancora nell’aria del borgo. Ma non ci sono solo io! Daniele (Di Pentima, srl) è anche uno dei migliori suonatori di tabla che abbiamo in Italia. Ogni tanto se ne va in India a perfezionare lo studio e con Riccardo ha costruito un progetto sulla musica indiana. Nell’Electric Sheep Orchestra c’è un delirio di roba, per questo abbiamo impiegato tanto a pubblicare il primo disco. Avevamo bisogno di far decantare il tutto».
Daniele: «Tempo per canalizzare molte suggestioni e non solo musicali! Anche ideologiche e di pensiero».
Avete composto un pezzo dedicato a Fela Kuti, This Is For Fela. Mi raccontate il vostro rapporto con il groove?
Angelo: «Abbiamo lavorato molto sull’idea di groove. Sette, otto anni fa, durante una cena a casa di Vincenzo, sostenni che dovevo capire come si potessero trasferire umanamente le imperfezioni della macchina nel linguaggio musicale. Quello che ha fatto un po’ J Dilla e che Chris Dave ha in qualche modo codificato a livello di copia. La mia idea, forse l’unica cosa utopica, era: riusciamo a fare qualche cosa che abbia nell’incertezza un punto cardine e che mantenga il groove? Tutto ciò ha a che fare con i miei studi di fluidodinamica, con i flussi turbolenti: sembrano caotici ma in realtà, dietro al caos, c’è un ordine. Così è anche nella musica. Stiamo ancora lavorando per creare un qualcosa di imperfetto, ma perfetto, un groove non groove, un po’ come la musica africana».
Prendiamo ad esempio il secondo brano, Afriks…
Angelo: «Afriks l’avevo inciso una decina d’anni fa ma non l’ho mai pubblicato perché non suonava come doveva, suonava “dritto”. Fatto così, com’è nel disco, ora ha un senso, è una cosa che groova, anche se ci sono miriadi di irregolarità lì dentro, che hanno tutte un senso comune».
Riccardo: «Questo approccio alla pulsazione, quasi coreutico, siamo stati in grado di realizzarlo dopo tanti anni di studio, confronto, prove, anche grazie a un background comune legato a un certo tipo di freejazz».
C’è stato tutto il freejazz anni Sessanta…
Riccardo: «Lì c’era un’idea di pulsazione regolare, non scandita, ma comunque costante, che ti abituava a una sequenza di impulsi regolari. Sono due musiche apparentemente distanti che però si ritrovano, non è che suoniamo a caso! È tutto l’aspetto del freejazz, legato nell’approccio ritmico e nell’habitus del suonare ritmicamente in un contesto libero, che riporta a quello che stava raccontando Angelo».
Daniele: «Se poi approfondiamo: cosa vuol dire regolare? Che il suono è scandito da durate che valgono ognuna la metà dell’altra? Sono cose artificiali, un meccanismo per misurare la musica in modo molto arbitrario. Ciò non vuol dire che se le lunghezze delle pulsazioni che si usano siano di metri, dimensioni, diverse non siano intellegibili. Basta fare un passo indietro e guardare il macroinsieme di impulsi che si ripetono con una fase molto più lunga, e questo non pregiudica poi la risultante di una musica che, come direbbero i giovani, “groova”. È un po’ l’opposto di tutta la corrente musicologica che parte da Vincenzo Caporaletti che afferma che il groove parta da microframmenti di impulsi, chiamati grooveni!».
Farete concerti live?
Angelo: «Lo speriamo tantissimo, ma non è così semplice. Faccio un’osservazione senza polemica: frequento da anni il mondo del jazz italiano e ho imparato che c’è un ambito di jazz costruito per gli italiani e uno che italiano non è, preferibilmente americano o inglese. Noi facciamo una musica internazionale, non jazz italiano. Per un organizzatore di concerti, quindi, è più facile chiamare formazioni straniere invece degli Electric Sheep Collective. È una questione di mercato. Sono più di trent’anni che il jazz italiano è fermo. Non si esce da lì, se fai cose diverse da quelle canoniche sei fuori mercato. Per questo ero per non dichiararci, perché se ci ascolti non pensi che siamo italiani…».
Come vedete la musica in questo Paese?
Vincenzo: «Essendo io un pre-millenial, ho vissuto il passaggio del digitale partendo dalle vecchie fasi. Il mio modo di scoprire musica è andare ai concerti o parlare con i Dj, loro ne sanno tantissimo sugli ascolti, più di noi musicisti. La musica in Italia è condizionata dai cartelloni, dai media e, purtroppo, due anni di Covid mi hanno tolto una delle mie due fonti primarie di ricerca. Spotify ha buoni pro ma mostruosi contro, piuttosto utilizzo Soundlclouds, Bandcamp…».
Angelo: «Su SoundCloud c’è il rischio di imbattersi in un artigianato eccessivo…».
Andrea: «È bello anche quello, puoi ricavarne delle idee!».
I “Millennials” del collettivo come la pensano?
Riccardo: (scherza, ndr) «Millennials? Siamo del ’91, l’anno in cui è morto Miles Davis e c’era la Prima guerra del Golfo!».
Angeloni: «Condivido con voi alcune riflessioni ascoltate a un convegno: il livello della musica italiana non conosciuta, jazzistico e “para-jazzistico”, jazz non idiomatico per intenderci, è molto interessante. C’è tanto talento, gente che suona bene e ha tante idee fighe: è banale fare il nome di Manlio Maresca, che ruota attorno al collettivo. Lui come altri pubblica la sua musica, spende soldi per fare il disco, per mettere dei punti fermi. La scena musicale italiana in questo momento non ha niente da invidiare ad altre, prendi per esempio l’utopia berlinese…».
Daniele: «A livello di contenuti no, ma di possibilità e fruibilità sì!».
Andrea: «C’è più possibilità di suonarla all’estero perché c’è anche tanto più pubblico, disposto ad accogliere il nostro prodotto».
Non è anche una questione di educazione all’ascolto? La scuola non la dà…
Angelo: «È vero, chi sta sotto al palco fa la musica quanto chi sta sopra. La nostra musica è popolare. Il jazz è una musica del popolo per il popolo e noi ogni volta che saliamo sul palco non possiamo scordarci questo. Non significa che non possiamo suonare qualcosa di complesso, ma deve poter essere condiviso con chi ti ascolta. Quello che è successo in Italia è la combinazione di due fattori, lo sviluppo di una musica incomprensibile, diventata la nicchia di super esperti, e lo sviluppo di quella ammiccante, di coloro che la sera si incontrano all’Auditorium. Queste due strade divergenti tolgono spazio a chi sta in mezzo…».
Vincenzo: «In Europa, l’ho sperimentato di persona, soprattutto nelle zone anglosassoni, esistono molti livelli intermedi di musicisti e tantissimi appassionati. Da noi ci sono musicisti di buon livello, poi un vuoto, e quindi tanti appassionati e alcuni di questi strimpellano. Il musicista italiano che vuole proporsi è un mezzo eroe. Dopo gli studi al conservatorio il 90 per cento molla. Non dico che debba avere un posto garantito, d’altronde il musicista per sua definizione è un po’ cane randagio, vive l’instabilità. Però, questo sì, è necessaria un’educazione alla musica. In Svezia, dove si insegna canto fin da piccoli, non trovi un bimbo stonato!».
Interviste: Ryan Dooley, l’ingenuità, l’arte, lo spoken word e i Little Pony
Ingenuità. Tenete a mente questo sostantivo, perché sarà il filo conduttore di tutto il post. È la prima parola che mi è venuta in mente quando mi sono messo ad ascoltare il nuovo disco – uscito oggi, venerdì 18 febbraio – dei Little Pony, dal titolo Voodo We Do, negli store per Soundinside Records. I Little Pony sono una band composta da un istrionico frontman di Minneapolis, che risponde al nome di Ryan Spring Dooley, e da tre musicisti napoletani, Marco Guerriero al basso e cori, Valerio De Martino alla batteria, synth e cori, e Pierluigi D’Amore, synth, effetti e cori.
I Little Pony, come ci racconterà tra poco lo stesso Ryan, sono attivi da anni nell’underground italiano. Sono nati come buskers, musicisti di strada: nel 2014 erano un trio (allora alla batteria c’era Fulvio Laudiero), si sono fatti conoscere in tutta Italia e anche in Europa, viaggiando dove portavano il vento e gli amici. Rigorosamente in treno, in maniera “molto umile”, per dirla alla Ryan, che di formazione e professione è uno street artist e un pittore. Napoli è piena dei suoi lavori firmati con il moniker Marvin Crushler.
Proprio l’ingenuità del loro modo di presentarsi, dell’essere artisti, che mi ha spinto ad ascoltarli. Vale la pena metterli in cuffia. Sono un mix di anni Settanta, anni Novanta e anni Duemila, con influssi jazz, punk, funk, elettro… insomma un Voodoo sonoro, come richiama il titolo dell’album, indefinibili nel genere, catalogati giocoforza nella grande casa dell’Alternativa, dove ci abita di tutto e di più. Il loro sound fa venire in mente un set di Jim Jarmousch, dove tutto è al limite della follia e della psichedelia, i personaggi sono portati all’estremo, caricati di ironico simbolismo.
Ascoltate il brano d’apertura, CPC che sta per Check Point Charlie: basso e batteria introducono belli tosti, quindi arriva il sax, lavorato con effetti che lo fanno sembrare una vecchia chiatarra elettrica con il wah wah sparato. Poi parte la voce e un coro che urla fino alla nausea: So free like? Così libero, come? E ancora in Voodoo We Do, traccia che dà il titolo all’album Ryan canta: My phone, I phone, down in the mud, my phone, your phone, little buddy gonna suck your blood, my phone, your phone, my mind is down in the mud, my phone, your phone little motherfuckers gonna suck your blood.
Per questo i Little Pony sono… i Little Pony! A partire dal nome: chi non li conosce fa subito un rapido accostamento: si saranno mica ispirati a quegli insopportabili cavallini colorati, gioia di bimbi, collezionisti e intrippati del genere? In realtà i cavallini umanizzati non c’entrano proprio nulla. Abbiate pazienza, arriveremo anche lì! Ma, soprattutto, dal modo di proporre la loro musica. Ryan più che cantare, rappa leggero, o meglio, si dedica con intensa passione allo spoken word, quello che faceva, magistralmente, Gil Scott-Heron (ricordate la mitica Revolution Will Not Be Telvised?).
Ryan nei testi gioca molto sui ricordi di quando era piccolo, sui sogni di allora e di oggi, sulla dura realtà di chi è nato dalla parte sbagliata – nascere a est di Minneapolis non è come nascere dall’altra parte – sulla povertà e sul senso di riscatto che l’arte può simboleggiare. Ma anche sulla bellezza di quei luoghi deputati all socializzazione, forzata o spontanea, in quel grande e complesso laboratorio che è la strada.
Una maturazione artistica rispetto agli album precedenti, la presenza di sintetizzatori, l’uso del moog che elabora il suono del sassofono e la voce, il sax tenore di Ryan che surfa tra la profondità del basso martellante, i synt che diventano sirene e noise puro, e una batteria che raccoglie tutte le contaminazioni mediterranee fuse in secchi e pressanti ritmi. Il risultato è che è impossibile stare fermi, vien voglia di ballare, partecipare. Una bella miscela esplosiva.
Ryan, come sei finito a Napoli?
«A Minneapolis frequentavo l’università di Belle Arti. C’era la possibilità di avere interscambi culturali in Europa. Volevo conoscere Parigi, Berlino, Roma. Mi sono iscritto al programma all’ultimo minuto, così mi sono trovato assegnato all’università di Pavia. Da lì ho iniziato a girare l’Italia. Ho vissuto a Milano: mi piaceva perché, negli anni Novanta, c’era così tanta ricchezza creativa e culturale racchiusa in pochi chilometri quadrati! Sai, venendo da Minneapolis dove per percorrerla da un capo all’altro con i mezzi pubblici ci mettevo un paio d’ore, Milano mi sembrava un sogno. Ho frequentato i centri sociali: il Pergola, il Leoncavallo. Il primo era diventato praticamente la mia casa. L’ era un’officina di creatività: c’erano i primi hacker organizzati, la street art, i veejay, un mondo in gran fermento. In quel periodo tutto era molto improntato alla condivisione. Ora, nell’arte come nella musica siamo su un altro concetto, l’individualismo, la ricerca personale del successo… A Napoli sono arrivato perché era stata organizzata una mostra dei miei lavori. Mi sono innamorato subito della città, del mare, della storia, del suo contorno architettonico, della sua bellezza estrema. Un posto forte!».
Ti sei sentito a casa?
«In realtà ho impiegato un po’ ad ambientarmi. Milano aveva un ritmo diverso, ti rendeva subito partecipe, si faceva immediatamente rete. A Napoli era tutta questione di prendere quel ritmo. Alla fine ce l’ho fatta. La città ha un’accoglienza diversa dovuta a un’identità secolare molto radicata. C’è l’orgoglio di essere sempre stati diversi da tutti. Roma è ancora un’altra cosa: ci abito da sette anni, con mia moglie e mia figlia, mi trovo bene perché ha una bella vita artistica».
Un passo indietro: ma il sax?
«Venivo da una famiglia povera che non poteva permettersi di farmi studiare in college costosi. Lo Stato americano per chi non ha le possibilità, mette a disposizione dei giovani studenti uno strumento musicale a scelta. Ti viene regalato. Ricordo che avevamo il diritto di entrare per primi in quella grande stanza dove c’erano tutti gli strumenti disponibili: molti di noi ragazzi “poveri” pensavano che più uno strumento era grande e più valeva; quindi, i grossi, come la tuba, sparivano subito. Mi sono ritrovato tra le mani un sax tenore che ho tenuto e suonato fino a un paio d’anni fa, quando ho dovuto cambiarlo. Ci hanno insegnato la musica… nella scuola c’era anche un’orchestra. Lo suono da quando avevo 13 anni. Crescendo ho fatto parte di molte band, quelli che si mettono insieme da adolescenti. Quando sono arrivato in Italia, a 19 anni, ho portato con me il sax. Ho suonato a Pavia, a Milano, a Parigi, dove ho vissuto, sempre per studiare arte, per sei mesi, nel 2000».
Il sax ti ha accompagnato anche a Napoli…
«Sì, certo. Avevo fatto amicizia con due americani che vivevano lì e, come succede per lo skateboard, che portavo sempre con me ogni volta che uscivo di casa, loro non dimenticavano mai di portare le chiatarre. Così ho imparato portare con me anche il sax. Nel pomeriggio si andava in Piazza Bellini, sempre piena di gente e di locali, e si suonava. Mi ricordo che un bar aveva un pianoforte. Stavamo lì a far musica con chiunque fosse disposto a suonare».
Gli altri membri della band li hai conosciuti così?
«Certo. Ci siamo incontrati in questo humus di personaggi e, quando ci siamo strutturati, abbiamo iniziato a girovagare sempre suonando, nell’autentico spirito napoletano! Siamo partiti dal Napoli e abbiamo iniziato a girare l’Italia e l’Europa per farci conoscere. Siamo riusciti a guadagnare qualcosa, ma avevamo un rigido controllo delle spese, quindi lo facevamo in modo molto umile. Eravamo dei bohémien che si nutrivano di pasta e fagioli!».
Avevate un furgone?
«Ma no! Abbiamo imparato dagli zingari: in una discarica abbiamo preso dei vecchi passeggini per bambini e li abbiamo riadattati per caricarci gli strumenti. Poi prendevamo i treni regionali… Così abbiamo suonato a Roma, Livorno, Genova, città molto simile a Napoli, Milano…».
Puoi definire la musica dei Little Pony?
«Per me è energia, è una gioia suonare nella band. Il bello è vedere che il pubblico giovane o meno giovane si diverte perché coglie i nostri riferimenti musicali. I primi due album li abbiamo composti in viaggio, hanno un sound legato al nostro girovagare, alla nostra ingenuità fanciullesca che continuo a considerare un valore. Poi c’è stato un cambio di passo: Valerio, il nuovo batterista, ha messo un freno al nostro romanticismo insegnandoci un maggiore livello di attenzione per i dettagli. Lui di professione fa il fonico, anche in grossi concerti. Esperienza e creatività hanno creato un nuovo modo di stare insieme, così il groove si trasmette in più sfaccettature. Durante la pandemia si è aggiunto Pierluigi, il tastierista, un musicista polistrumentista che proveniente dal gruppo perugino Guappercartò, band dove la musica è più orchestrale, teatrale. Anche lui ci ha coinvolto nell’elaborazione di nuovi mondi sonori….».
Come sono nate le canzoni?
«I testi li scrivo io, sono impressioni: ad esempio, New York è nata quando, un paio d’anni prima della pandemia, sono andato a Brooklyn a trovare mio zio. Mi sono usciti versi legati alla mia cultura americana. Una volta ritornato in Italia, ci siamo messi ad arrangiare quello che avevo scritto cercando di comporre una melodia più curata».
Ultima curiosità: perché vi chiamati Little Pony?
«I piccoli pony non c’entrano nulla! Il nome è stato un modo per avvicinarsi alle tradizioni dello stivale: pronunciato velocemente cinque volte di seguito suonava come… Little Tony! Almeno così sosteneva mia moglie quando mi suggerì possibili nomi per la band…».
Disco del Mese: “What Does It Mean to Be American”, Robert Stillman
Nel 2022 troverete una nuova rubrica su Musicabile. L’ho battezzata – banalmente – Disco del Mese. Qui scriverò di quello che, per i miei ascolti, è, appunto, il lavoro più intrigante e interessante, bello ed emozionante del mese. A gennaio vi segnalo un album pubblicato venerdì 21, degno di un attento ascolto…
È l’ottavo lavoro in studio composto, suonato in tutte le sue parti, prodotto e registrato da Robert Stillman, americano del Maine, residente dal alcuni anni nell’East Kent, in Gran Bretagna. Si intitola What Does It Mean to Be American?, sette tracce per la durata totale di 34 minuti e 15 secondi. Un solo brano cantato, Cherry Ocean, il primo e il più lungo (8 minuti e 34 secondi).
Here lives a family where opposites collide
A brearthing tapestry, the youngest and the guide
A fear of chilly old bones, where influence lies
You dream of a cherry ocean, with a white light
sailing over…
Questa la prima strofa. Sembra di ascoltare le atmosfere minimal del Novecento, il Simbolismo di Debussy, con un sottofondo marchiato Pink Floyd…
Il disco è suonato dal polistrumentista Robert in tutte le sue parti. Sax, pianoforte, piano Rhodes, batteria, clarinetto basso, elettronica. Frammenti volutamente scomposti e poi inseriti in un puzzle perfetto di suoni e generi. C’è jazz, certamente! Ma c’è anche folk americano, accenni classici, appunto, drone music, avanguardia. Tutto scomposto, liquido, come il musicista vede la società americana di oggi.
La seconda traccia, It’s All Is, un’allegra sessione di fiati con un sax tenore predominante, è una rassicurazione dopo la fluttuante Cherry Ocean. Il riff del sax è caldo e invitante, ci si ritrova. Nel video che l’artista ha girato – sempre da solo! – scorrono a ogni “It’s All… Is” parole in coppia di opposti: sofferenza e felicità, bei tempi, tempi bui, risate e pianto, realizzare qualcosa o far niente… indecisioni che si avvertono musicalmente ogni volta che il tema finisce e ricomincia, inciampi voluti. E questa incertezza sul fare scivola, inesorabile, verso un drone ambient, dove tutto s’annebbia…
Passata Self-Image, nella quale il tema iniziale, funk, chiaro, finisce per scomporsi in echi di un sax sovrapposto, si arriva al brano che preferisco in assoluto, Acceptance Blues: il suono ovattato di un piano a muro, un tema che scivola leggero sui tasti, e un fragore primordiale, prima sommerso poi sempre più insistente, un blob sonoro che avvolge lentamente le note dominanti: iniziano dissonanze volute, mentre tutto viene nascosto da una coltre sempre più pesante di noise che poi finisce per esplodere, assordante. Sembrano i frastuoni di un incendio. Alla fine, tra le macerie fumanti, s’innalza il suono nitido e calmo di un fiato. Il canto solenne di speranza dopo la distruzione?
Si continua con What Does It Mean to Be American?, strumenti che diventano tante voci diverse di quel melting pot che sono gli Stati Uniti. Forse oggi il significato di essere americani non è poi così tanto chiaro come era in passato. Il Paese ha bisogno di “accordarsi” nuovamente, scoprire nuovi modi per stare insieme. Deep Time, USA, penultimo brano, è l’amara considerazione del caos organizzato che regna in questo millennio, c’è bisogno di pace, di certezze, di unioni e non di divisioni politiche, razziali, di classe.
No Good Old Days è l’ultima traccia: una classica chitarra folk, la tentazione di ritornare a chiudersi in ambienti confortanti, “accordati”, che però è assai improbabile che ritornino. Un pezzo intriso di nostalgia, mentre il folk si fonde in un caos onirico di suoni. Chiude il lungo, umano respiro del musicista, l’ultima aria che si vuota dai polmoni e che preclude ogni nostalgia di un tempo che fu…
Rolling Stone, le classifiche e una riflessione…
Il 15 settembre Rolling Stone USA ha pubblicato la sua colonna sonora più dirimente e attesa: le 500 canzoni più belle di tutti i tempi. Il magazine, ormai ex-bibbia del rock, ha voluto pubblicare, a quasi vent’anni di distanza dalla prima edizione, una nuova revisione.
Le classifiche a cui RS ci ha assuefatto sono una buona lettura dei tempi e di quello che significa la musica, mainstream e alternativa, dagli anni Trenta del secolo scorso a oggi. Le 500 canzoni sono la summa di tutto questo, anche perché, la prima “RS hit parade”, come ben ricordano dallo stesso magazine, era del 2004, quando Billie Eilish aveva appena tre anni. A partecipare al sondaggio per decidere i brani più belli di sempre, sono stati chiamati oltre 250 tra artisti, musicisti, produttori, discografici che ne hanno selezionati, ciascuno, 50, per un totale di 4mila brani.
Con questo ampio e democratico parterre si presume sia uscita uscita una fotografia piuttosto nitida e ben incisa della storia della musica occidentale, soprattutto americana e inglese.
Quello che più salta all’occhio è che di brani “dirimenti” dall’inizio del Terzo Millennio ne sono stati selezionati pochi, appena una settantina, per lo più provenienti dalle correnti mainstream, un pop facile e ben codificato e un rap che s’è liberato dalle origini e naviga tra bit raramente innovativi e un conformismo testuale presentato come anticonformismo. Di contro, troviamo, monolitici, i 250 e passa brani compresi nel periodo Sessanta e Settanta e i 142 scelti negli anni Ottanta e Novanta, oltre a poche decine che arrivano tra il 1930 e il 1950.
Di artisti ce ne sono tanti – anche se, per esempio, non si vedono tracce del periodo prog inglese, King Crimson, Genesis, Yes, Traffic, gli Emerson, Lake & Palmer – alcuni ritornano più volte in classifica (vedi Aretha Franklin, Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Prince, Bob Dylan, Lou Reed, Led Zeppelin, Bob Marley, Bruce Springsteen, David Bowie…) ma quello zoccolo duro di brani memorabili, immancabili, oserei, eterni, nati dalla seconda metà degli anni ’60 alla fine dei Settanta sono la riprova, se mai fosse stato necessario, di quanto le esperienze musicali, sociali, politiche di quegli anni abbiano generato una svolta epocale nelle arti, e soprattutto nella musica, a cui tutti, ancora oggi si rifanno a piene mani. Una rivoluzione che dobbiamo ancora vivere in questo nuovo millennio.
E, dunque, non può suonare strano se il miglior brano di tutti i tempi sia stato scritto da Otis Redding e pubblicato nel 1967 dalla grande Aretha Franklin. Sto parlando di Respect, una delle canzoni più suonate di sempre. Il secondo posto se lo sono aggiudicato i Public Enemy con Fight the Power (1989), mentre il terzo e quarto appartengono rispettivamente a Sam Cooke, uno dei principali esponenti della soul music degli esordi, con A Change Is Gonna Come (1964) e l’eterno Bob Dylan con la sua altrettanto immortale Like a Rolling Stone (1965). Al quinto ci sono i Nirvana con Smells Like Teen Spirit del 1991, e via via Marvin Gaye con What’s Going On (1971), The Beatles con Strawberry Fields Forever (1967), il rap di Missy Elliott, Get Ur Freak On (2001), i Fleetwood Mac e la loro splendida Dreams (1977), e gli Outkast con Hey Ya! (2003)…
Il resto della classifica, numeri alla mano, rispecchia la prima decina. Ne deriva che, nell’esperimento musicale (e, a questo punto, anche sociale) di RS in novant’anni di musiche selezionate, il nocciolo importante, salvo rare eccezioni, rimane chiuso in poco più di trent’anni. Quei trent’anni che hanno visto rock, punk, soul, funk, jazz, nascere e rinascere, reinventarsi, crescere, svilupparsi, contaminarsi, classicismo e sperimentazione a ciclo continuo, effervescenza di note, idee, pulsioni.
In attesa di una rumorosa, spettacolare, necessaria rivoluzione epocale – che sinceramente non vedo – vale la pena rimettersi all’ascolto di quella Musica. Per rivangare ricordi, quelli delle generazioni vicino alla mia, per imparare un po’ di background le nuove leve del Duemila.