Misteriseparli: «musica è musica, i generi non contano»

Vediamo se ho capito bene: sono nati nella stessa città, Pescara, uno nel 1971, l’altro sei anni più tardi. Entrambi – senza conoscersi – si sono appassionati alla musica sin da piccoli, studiandola privatamente, diventando polistrumentisti. Il primo è appassionato di club, oltre a essere un musicista è anche un dj, il secondo ha suonato in gruppi rock e hardcore surf. Entrambi sono appassionati di longboard e di professione lavorano nelle piattaforme petrolifere in giro per il mondo. Proprio in una di queste, in Spagna, dieci anni fa si sono conosciuti. 

Questa è la storia di Giuseppe Palmieri (Pepi) e di Andrea Sestri (Andrew), in arte i Misteriseparli, duo difficile da etichettare e incasellare in qualche genere. Nel maggio scorso hanno pubblicato il loro primo lavoro Speedbeforedeath. La musica, spesso, racconta in maniera più efficace delle parole la vita delle persone. E questo disco, pubblicato da Vina Records e distribuito da Believe, narra la storia di questi due uomini che le note hanno fatto incontrare.

Pensando a una bottiglia di vino mai assaggiata, dall’etichetta particolarmente curiosa, una macchinina pickup con a bordo quattro caramelline gommose a forma di orsetti che investe un altro plantigrade rosso, la voglia di “stapparla” c’è tutta. All’udito, nitidi sentori di funk, con inebrianti punte di disco e techno e chiare evoluzioni in ambient e surf. Un disco “frizzante” con una spuma persistente, bollicine fini che si dissolvono rapidamente nell’etere, per fissarsi in un apprezzabile condensato di profumi orientali e sonorità occidentali…

Si potrebbe definire un disco “disco” no gender, che, credetemi, suona davvero bene. Allego, spericolato, positivo, che passa dalla disco-music anni Settanta alla Moroder, a belle chitarre ritmate in un funk acidino che richiama il suono del mitico Nile Rodgers (ascoltate Do You Wanna Get Some?), per continuare all’ambient che si fa surf in Bengala o alla mistica, psichedelico molto chill-out Bang Ra. Sei brani che racchiudono e descrivono il modo di far musica di un duo dalle forti potenzialità.

Ho sentito Pepi e ci siamo fatti una chiacchierata interessante e divertente…

Dentro Speedfordeath ci sono tanti generi che finiscono per elidersi tutti…
«Vero e me ne faccio un vanto! Entrambi abbiamo iniziato a suonare da piccoli e la musica allora per noi era bella o brutta, non guardavamo i generi, non sapevamo nemmeno cosa fossero! Crescendo siamo rimasti con quest’idea: esiste la musica buona e quella che non lo è; ci siamo innamorati di tanti generi. Seguiamo più le emozioni che il suono. E poi, il genere oggi non ha più senso! Andava bene quando esistevano ancora i negozi di dischi e per forza dovevi catalogare tutti gli album sugli scaffali. Oggi, che puoi ascoltare di tutto in pochi minuti, tutto ciò non ha più senso. Sono anche un dj: non un “selector”, che mette semplicemente il brano del momento, ma uno di quelli che cerca di creare un percorso sonoro. Alla fine non hai percezione di come e quando è stato creato il brano».

Come vi siete conosciuti?
«Per caso, lavorando insieme per la stessa ditta di impianti petroliferi, in una piattaforma al largo delle coste dell’Andalusia, dove siamo rimasti per 52 giorni. Quando siamo tornati a terra, a Huelva, ci siamo comprati due longboard (gli skate da discesa, ndr), facendoci con metodo tutti i locali della città. In quei giorni abbiamo cominciato a pensare a una collaborazione insieme: io venivo dalla elettronica, Andrea dal Rock, e dall’hardcore surf, entrambi suonavamo più strumenti, io tastiere, batteria, percussioni, lui chitarre, sitar, basso e tastiere… un bel mix!».

A proposito di dj, sarò un po’ tradizionalista, ma un dj…suona?
«Sì, un dj per me, essendo io tutte e due le cose, equivale a un musicista. Entrambi partono da un’idea di suono che poi sviluppano attraverso strumenti o elaborazione di piccoli frammenti di loop. Sono due mondi diversi che propongono cose simili. È un po’ come il teatro e il cinema. Nel primo vedi gli attori dal vivo, li senti recitare, nel secondo sei in un mondo diverso, non reale. Non puoi metterli sullo stesso piano».

Quale preferisci, essendo entrambi?
«Non so risponderti, è come chiedere vuoi più bene alla mamma o al papà».

Hai ascoltato Oxymore, l’ultimo lavoro di Jean-Michel Jarre?
«Non ancora, lui è un pioniere della musica elettronica. Sai quali sono i primi ostracisti dell’elettronica? I musicisti, sono loro i più grandi nemici. Jarre è stato uno dei primi a togliere il diaframma tra musica ed elettronica. Come d’altronde, a modo suo ha fatto anche Moroder».

Jarre sostiene che il futuro della musica è solo elettronico…
«Non sono d’accordo, non credo che la musica tradizionale posa venire soppiantata da un computer. Però, mettiti nei panni di un giovane: per imparare a suonare mediamente bene uno strumento sono necessari almeno dieci anni, invece, se ti installi Ableton sul tuo computer e alla sera hai già composto un pezzo. Bisogna stare attenti, l’elettronica è una coperta corta: più ti spingi verso quel sentiero più apprezzi la musica acustica. Sono due poli opposti. Detto ciò, tutta la musica prodotta negli ultimi anni è campionata, anche quella classica. La musica di per sé è già tutta elettronica se ci pensi».

La musica elettronica non è una novità degli ultimi anni, esiste da quasi un secolo!
«Esatto, negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso c’erano musicisti pionieri, ma pensa anche a Jimi Hendrix: è diventato famoso perché, nella sua genialità, ha capito che poteva sfruttare al massimo il suono della sua chitarra usando la “nuova tecnologia” in commercio, i pedali, come il distorsore e il wah wah, che allora non venivano visti bene dai musicisti tradizionali. Pensa, poi, ai primi campionatori Farlight CMI: all’epoca, fine anni Settanta, costavano l’equivalente di 80mila euro di oggi».

A proposito di musica analogica e digitale, quelle percussioni che avete inserito, penso a Do You Wanna Get Some? o Bang Ra, provengono da strumenti reali?
«Tutte la sezione ritmica è stata stata fatta digitalmente. Di strumenti abbiamo usato il basso, chitarre e tastiere».

Siete riusciti a riprodurre dal vivo il disco?
«Ci siamo riusciti, sì! Abbiamo fatto una serie di date quest’estate molto gratificanti. Utilizziamo una tecnica mista, si tratta di una sequenza continua, senza interruzioni, una rielaborazione dei brani presenti nell’album e di alcuni nuovi brani che testiamo prima che vengano pubblicati. Su questa sequenza interveniamo improvvisando dal vivo con synth, chitarre, drum machine e voce. Il risultato è che riusciamo a suonare ininterrottamente per un’ora e un quarto. Può sembrare una soluzione da club, invece ci dà molta libertà di improvvisazione. Di fatto è una suite. Il pubblico si diverte doppiamente perché balla e guarda le persone suonare live».

Cosa vuole dire il vostro nome Misteriseparli?
«È un segreto, non posso dirlo».

E perché Speedfordeath?
«Il titolo è legato a Huelva e alle nostre scorribande con i longboard. Eravamo seduti in un bar e stavamo discutendo, appunto, su quale titolo dare al disco. Arriva un tipo che conoscevamo e gli chiediamo consiglio. Lui guarda la mia tavola e legge la frase incisa sotto, Speed for Death, e dice: “chiamatevi così”. Ci siamo guardati in faccia: era perfetto, provare il brivido prima dello schianto…».

La cover illustra proprio questo: chi l’ha pensata?
«La foto è stata pensata e realizzata da Marco Tinari, un fotografo di Pescara. È un’immagine “morbida” dell’idea di velocità prima della morte, speed before death, appunto. Non gli abbiamo chiesto nulla, s’è proposto lui quando per caso gli abbiamo fatto ascoltare il promo del disco. Avevamo il timore che un titolo come sbd potesse essere male interpretato, dando una sensazione aggressiva e cupa che in realtà il disco non ha. Quindi gli orsetti di gelatina danno quel tocco di leggerezza che ci calza a pennello. È un incidente mortale, ma senza che nessuno si faccia male, come quello che farebbe Willy il Coyote inseguendo Beep Beep…».

Quanto ha influito il lavoro sulle piattaforme petrolifere nella vostra musica?
«È stato fondamentale! Andrea ora è su una piattaforma in Egitto. Il nostro è un lavoro strano. Ci sono momenti nelle giornate dove puoi lavorare 10 ore oppure un’ora soltanto rimanendo comunque a disposizione. I turni di riposo sono di 12 ore. Rimane tanto tempo da occupare, visto che sei in mezzo al mare, senza Internet né televisione. Mi ero portato il computer e delle altre “cosette”, Andrea una chitarra. Abbiamo iniziato a suonare per ore e così sono nati i nostri primi brani…».

Gli altri “abitanti” della piattaforma come vi vedono?
«Non è gente allegra, sono dei pirati allo sbaraglio… e le cuffie sono una grande invenzione. Un giorno con Andrea stavamo ascoltando una nostra registrazione. Passa uno dei “pirati” e mi dice: “Perché avete registrato l’impianto della pompa tre?”. No, l’ho fatto io, gli ho risposto. E lui “È un pezzo? Voi siete matti. Ciao!”».

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