Il 30 giugno scorso è uscito, per Tǔk Music, il nuovo lavoro di Marco Bardoscia, Legnomadre. Un disco che ho ascoltato più e più volte, di alta cifra stilistica. Bardoscia è uno dei nostri musicisti più apprezzati, contrabbassista di grande versatilità, pulito, preciso. Con lui, insieme a William Greco, al pianoforte, e Dario Congedo alla batteria, membri “storici” del suo trio, c’è l’Orchestra da camera di Perugia, ci sono due musicisti che stimo e amo particolarmente, Gabriele Mirabassi al clarinetto e Simone Padovani alle percussioni. Oltre a un cameo di Alessandro Mannarino, Lágrimas Negras, di cui vi parlerà tra poco lo stesso Marco. Mannarino sta portando in giro il suo live che ha battezzato Corde, e con lui in tournée c’è Bardoscia. Praticamente un atto dovuto, visto che i due artisti in comune hanno lo stesso modo di concepire musica e palco. Continua a leggere
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Interviste: Claudio Fasoli, il jazz e la cura per l’armonia
La teoria della spugna, ma anche la pratica dell’uvaggio e la pazienza dell’ascolto. Da un’intervista, generalmente, si impara sempre qualcosa. Ti fissi dei punti fermi, delle sensazioni che poi ti riservi di approfondire. Ma, raramente, ti segnano. Nella mia – ormai – lunga vita prestata al giornalismo ho parlato e scritto di centinaia di persone. Ma vi confesso che solo tre mi sono rimaste impresse a distanza di anni, una dall’altra.
La prima è stata con lo scrittore brasiliano Jorge Amado, che mi ha parlato della sua Bahia, la seconda con un altro brasiliano immenso, l’architetto Oscar Niemeyer, la terza oggi, con Claudio Fasoli, compositore, sassofonista, uno dei miti del jazz. Il motivo della mia chiamata a Claudio è stato un premio prestigioso che ha vinto a gennaio: il miglior disco italiano del 2021, con Next, assegnatogli dalla rivista Musica Jazz nel suo annuale “award” Top Jazz. Un premio importante perché il lavoro di quest’album – tra poco ne parlerò più approfonditamente – premia la ricerca oltre che la qualità.
Torno un attimo indietro, a Niemeyer. L’ho intervistato nel suo studio a Rio de Janeiro, a Copacabana, una calda mattina di fine primavera, con il cielo azzurro terso e il sole che rendeva l’oceano scintillante. Di lì a un mese avrebbe compiuto 100 anni. Nel suo ufficio mi colpirono tre cose, un cavaquinho, che lui stesso suonava, una foto in bianco e nero raffigurante tre donne nude, distese (rappresentavano il flessuoso panorama di Rio, ma anche la fissazione dell’architetto per le linee curve) e un enorme televisore che cozzava con la stanza piccola, raccolta. Lì il geniale professionista che disegnò Brasília e lasciò le sue tracce in tutto il mondo, Italia inclusa, componeva la sua arte. Un anziano signore con una creatività fanciullesca accompagnata da una saggezza dovuta ad anni d’esperienza sul campo, tracciava con il carboncino sulla parete che faceva imbiancare ogni mese, veloci linee che guardavano il futuro, spazi che nascevano modellando il cemento, curvandolo, rendendolo armonico con la natura circostante, grazie anche a giochi d’archi e d’acqua e a soluzioni estreme. L’architettura come mezzo per diffondere cultura e bellezza, aiutare la gente comune a guardare oltre i propri limiti (tempo, censo, educazione) e le difficoltà della vita.
Parlare con Claudio Fasoli mi ha ricordato proprio tutto questo. Nonostante suoni da anni, il musicista continua a ridisegnare il pentagramma con la sua musica intuitivamente fresca, guardando al futuro, cercando di non ripetersi, creando suoni diversi… Fare arte e cultura, appunto…
Ho iniziato ad apprezzare Fasoli, poco più che adolescente, negli anni Settanta quando faceva parte di quella band, per me mitica, che furono i Perigeo. Ricordate Azimut? Era il 1972. E anche Abbiamo tutti un Blues da piangere (1973), o La Valle dei Templi (1975). Una band che sancì l’inizio della fusion in Italia. Certo, c’erano anche gli Area, come mi fa notare lo stesso musicista. Ma il sax di Claudio, le tastiere di Franco d’Andrea, la chitarra elettrica di Tony Sidney, il basso di Giovanni Tommaso e la batteria di Bruno Biriaco sono un capitolo importante della musica d’avanguardia italiana.
Per questo ho voluto intervistare Fasoli. Milanese d’adozione e veneziano di nascita racchiude l’essenza delle due città, la prima seria, riflessiva, intraprendente, rispettosa dei tempi e dei silenzi, la seconda aperta da sempre alle contaminazioni, elegante, leggiadra. Riunire armonia ed efficenza è una fortuna per chi la sa cogliere…
Ultima precisazione prima di leggere l’intervista: in Next, disco pubblicato dalla Abeat Records il 5 agosto dello scorso anno, che vi raccomando di ascoltare attentamente perché entra poco a poco, sottilmente persuasivo, per poi conquistare, Claudio ha dei meravigliosi compagni di viaggio: il chitarrista Simone Massaron, il contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer e il batterista Stefano Grasso, tutti milanesi. Un quartetto incredibile…
Claudio, partiamo dal Top Jazz per Next, miglior disco 2021…
«È un riconoscimento importante, che dà soddisfazioni, perché indica che abbiamo intrapreso una strada giusta, riconosciuta e riconoscibile. Un premio apprezzato visto che viene assegnato da una giuria composta da critici specializzati».
Un lavoro dove proponi forme innovative nel linguaggio jazz.
«Seguo la mia curiosità. Per me era importante riuscire a realizzare un progetto con una realtà sonora caratterizzata da suoni diversi da quelli fatti finora. Fissare un’idea di progetto aprendo una nuova strada rispetto alle ultime produzioni. Questo non vuol dire che abbia chiuso con le esperienze precedenti. Next è un disco fondamentale per verificare il mio lavoro».
Una prova del tuo “Inner Sound”, il suono interiore di cui parli spesso? (Il musicista ha pubblicato anche un libro sul tema, Inner sounds nell’orbita del jazz e della musica libera, 2016, oltre a un album, Inner Sounds, dello stesso anno, con il Double Quartet, ndr)…
«È l’idea giusta. Il musicista jazz, che ha la responsabilità e l’opportunità di caratterizzare la sua musica, lo fa in base ai suoi ascolti. Deve comportarsi come una spugna, e cioè assorbire, ascoltare, tanto e di tutto, partendo dalla musica classica. L’ascolto è importante, perché solo così si ha la possibilità di ampliare le possibilità espressive. Inner Sound significa anche comportarsi come un bravo enologo, saper dosare uve diverse e miscelarle in una botte dove l’uvaggio riposerà per diventare un’altra cosa, ricca, intrigante, soprattutto diversa. Senza il primo passo non ci sarà il secondo. Se ascolti King Oliver, Chopin, Debussy, Keith Jarret, Jan Garbarek e Miles Davis otterrai di sicuro un suono che non è quello dei singoli musicisti ma un altro, elaborato dalla tua conoscenza e creatività».
Buona parte del tuo lavoro, dunque, è ascoltare…
«Dedico molto tempo, perché la musica è fatta di tante cose, entri in contatto con varie esperienze. Non è detto che tutto ciò che si ascolta sia necessariamente buono o apprezzato».
Scivolo sui ricordi, tenendo il tema Inner Sound: i Perigeo sono stati una delle band che, negli anni Settanta, hanno contribuito ad accendere la mia passione per la musica. Siete stati i primi in Italia a inserire il concetto di Fusion…
«Quello che caratterizzava i Perigeo era l’uso del rock come elemento ritmico in un’architettura jazzistica. Non facevamo jazz ortodosso, era piuttosto la ricerca di qualcosa di nuovo, ma il linguaggio dei Perigeo era jazzistico. Non eravamo i soli, anche gli Area lavoravano più o meno in quel senso».
Elementi ritmici presi da hip hop o rap non sono nelle tue corde?
«Herbie Hancock ha spesso usato questo materiale con risultati più o meno discutibili. Non sono nelle mie corde, non li ho mai studiati seriamente e, a dire il vero, non interessano alla maggior parte dei musicisti jazz, sia americani sia europei».
Ciò significa che…
«Nella mia musica cerco di essere integerrimo. Preferisco rispettare le mie valenze facendo musica onesta che ha in sé delle verità. Non faccio musica per gli altri, non seguo le mode per vendere. È una musica autentica, vera. Pop e Hip Hop sono generi che non conosco e non sento il bisogno di approfondire. Sarebbe come chiedere a Debussy perché non ascolta Stravinskij. Ti confesso che tanti ritmi africani non li ho coltivati a lungo. Sono più per la cura dell’armonia e della melodia».
Come nascono le tue composizioni?
«(ride, ndr) Mi hanno fatto addirittura un docufilm (Claudio Fasoli’s Innersounds di Angelo Poli e Carlodavid Mauri, 2018, ndr). In tempi normali, in modo del tutto occasionale. Sono un po’ evasivo. Ogni giorni mi assalgono tante idee, certe volte, per strada, mi viene in mente un brano perfettamente congegnato. Se trovo qualcosa su cui scrivere me lo appunto, altrimenti, dopo dieci minuti me lo sono già dimenticato. Quando, invece, ho bisogno di comporre perché non ho musica pronta, mi metto a strimpellare al pianoforte… Recentemente ho trovato un faldone di appunti dove avevo già preparato alcuni brani completi, che mi ero totalmente scordato di aver scritto. Due di questi li ho uniti in un unico brano, Mix, che ho pubblicato su Next».
Com’è il tuo rapporto con la musica elettronica?
«Negli ultimi dischi ho usato solo strumenti fisici, ma la trovo estremamente scenografica, evocativa, seduttiva, sensazioni che non necessariamente gli strumenti normali sanno trasmettere. Usare l’elettronica per me è come imparare una lingua straniera: vieni a conoscenza di altri mondi sonori e amplii, così, le tue possibilità. Il jazz è il mio italiano, ma posso imparare il mio francese, il mio russo, che è l’elettronica».
Il jazz è un po’ come l’Esperanto, un insieme di lingue diverse…
«Di bello ha la disponibilità ad aprire la mente a ogni tipo di esperienza e rendere “jazz” ciò che non lo è. Se ascolti Wayne Shorter ci trovi Chopin, Debussy, la cultura della musica in senso lato. Il jazz ha sempre assorbito e/o arricchito, è sempre disponibile all’apertura, un linguaggio straordinario».
Però non è di massa. È per pochi privilegiati?
«Il Jazz è una musica di nicchia, ma non per sua scelta. Non viene presentato come meriterebbe, è praticamente uno sconosciuto, come la musica contemporanea. La verità è che non lo si fa mai ascoltare. Il jazz esiste nei vinili, nei Cd, ma non nelle radio. Non ci sono spettacoli diffusi. Fanno ascoltare il gospel passandolo per jazz».
Perché, secondo te?
«Per lo stesso motivo per cui in Italia non esiste che ti vedi al cinema un film in lingua originale. Non ci abituiamo a sentire suoni e parole pronunciati in maniera diversa dalla nostra. Dovremmo, invece, addestrarci ad ascoltare altre lingue. Lo stesso vale per il jazz. È una questione culturale e un’emarginazione razziale, vale anche per la musica classica: le poche volte che viene trasmessa alla radio o in televisione, se non sei avvezzo ad ascoltarla, cambi subito canale, reputandola noiosa! Abituandosi a sentirla, come fai con una lingua straniera, entri nel suono, la capisci, la riconosci, la acquisisci come linguaggio. Se i mezzi audiovisivi fanno ascoltare solo il festival di Sanremo, fatto bene non lo metto in dubbio, ma pompato solo per scopi commerciali, si crea di fatto una discriminazione, impedendo a molte persone di ampliare i propri orizzonti culturali. Il risultato è che c’è un grande timore ad ascoltare ciò che è diverso dal mainstream perché è ignoto, e l’ignoto spaventa».
Come ti sei avvicinato alla musica?
«Nell’infanzia e in gioventù sono sempre stato immerso nella musica. Ai tempi, la radio trasmetteva molta più musica classica di oggi. Ho ascoltato anche arrangiamenti di orchestre che mimavano il jazz. Poi… mi sono innamorato del sassofono. Ho vissuto cinque anni ascoltando solo Lee Konitz. Mi piaceva anche Charlie Parker, ma Konitz aveva un linguaggio e un suono proprio, una sua identità. Geni, erano dei geni, gente che inventava cose che non esistevano».
Quindi, tornando alle “lingue straniere”, questo analfabetismo di ritorno è dovuto a una “settorialità” commerciale dei mezzi di comunicazione?
«Se trasmetti un concerto di Keith Jarret o il bellissimo docufilm su Michel Petrucciani (Body&Soul, 2011, ndr) alle 2:30 del mattino, di fatto impedisci di approfondire e imparare. Il Jazz non viene fatto conoscere. Era così anche negli anni Novanta nei Conservatori, quando insegnavo composizione jazz… Avevano aperto opportunisticamente le porte al jazz, ma, in realtà, questo veniva ostacolato. Poi c’erano anche invidie accademiche: io avevo 12 allievi e facevo lezioni singole di un’ora, altri docenti avevano un solo alunno… Oggi abbiamo Stefano Bollani che, nei suoi programmi televisivi, tenta di proporre il jazz come può. Per il resto, silenzio assoluto».
Ultima domanda: ti ha mai attratto la bossanova?
«La musica brasiliana mi piace tantissimo, mi commuovo ogni volta che ascolto quel capolavoro di Tom Jobim che è Retrato em Branco e Preto. È devastante la bellezza di quella musica che Stan Getz ha poi diffuso negli Stati Uniti. È un genere con grandi testi, un ritmo intelligente, una bella armonia. Jobim e Gilberto sono stati musicisti incredibili. E Ivan Lins è… straordinario!».
Disco del Mese: “What Does It Mean to Be American”, Robert Stillman
Nel 2022 troverete una nuova rubrica su Musicabile. L’ho battezzata – banalmente – Disco del Mese. Qui scriverò di quello che, per i miei ascolti, è, appunto, il lavoro più intrigante e interessante, bello ed emozionante del mese. A gennaio vi segnalo un album pubblicato venerdì 21, degno di un attento ascolto…
È l’ottavo lavoro in studio composto, suonato in tutte le sue parti, prodotto e registrato da Robert Stillman, americano del Maine, residente dal alcuni anni nell’East Kent, in Gran Bretagna. Si intitola What Does It Mean to Be American?, sette tracce per la durata totale di 34 minuti e 15 secondi. Un solo brano cantato, Cherry Ocean, il primo e il più lungo (8 minuti e 34 secondi).
Here lives a family where opposites collide
A brearthing tapestry, the youngest and the guide
A fear of chilly old bones, where influence lies
You dream of a cherry ocean, with a white light
sailing over…
Questa la prima strofa. Sembra di ascoltare le atmosfere minimal del Novecento, il Simbolismo di Debussy, con un sottofondo marchiato Pink Floyd…
Il disco è suonato dal polistrumentista Robert in tutte le sue parti. Sax, pianoforte, piano Rhodes, batteria, clarinetto basso, elettronica. Frammenti volutamente scomposti e poi inseriti in un puzzle perfetto di suoni e generi. C’è jazz, certamente! Ma c’è anche folk americano, accenni classici, appunto, drone music, avanguardia. Tutto scomposto, liquido, come il musicista vede la società americana di oggi.
La seconda traccia, It’s All Is, un’allegra sessione di fiati con un sax tenore predominante, è una rassicurazione dopo la fluttuante Cherry Ocean. Il riff del sax è caldo e invitante, ci si ritrova. Nel video che l’artista ha girato – sempre da solo! – scorrono a ogni “It’s All… Is” parole in coppia di opposti: sofferenza e felicità, bei tempi, tempi bui, risate e pianto, realizzare qualcosa o far niente… indecisioni che si avvertono musicalmente ogni volta che il tema finisce e ricomincia, inciampi voluti. E questa incertezza sul fare scivola, inesorabile, verso un drone ambient, dove tutto s’annebbia…
Passata Self-Image, nella quale il tema iniziale, funk, chiaro, finisce per scomporsi in echi di un sax sovrapposto, si arriva al brano che preferisco in assoluto, Acceptance Blues: il suono ovattato di un piano a muro, un tema che scivola leggero sui tasti, e un fragore primordiale, prima sommerso poi sempre più insistente, un blob sonoro che avvolge lentamente le note dominanti: iniziano dissonanze volute, mentre tutto viene nascosto da una coltre sempre più pesante di noise che poi finisce per esplodere, assordante. Sembrano i frastuoni di un incendio. Alla fine, tra le macerie fumanti, s’innalza il suono nitido e calmo di un fiato. Il canto solenne di speranza dopo la distruzione?
Si continua con What Does It Mean to Be American?, strumenti che diventano tante voci diverse di quel melting pot che sono gli Stati Uniti. Forse oggi il significato di essere americani non è poi così tanto chiaro come era in passato. Il Paese ha bisogno di “accordarsi” nuovamente, scoprire nuovi modi per stare insieme. Deep Time, USA, penultimo brano, è l’amara considerazione del caos organizzato che regna in questo millennio, c’è bisogno di pace, di certezze, di unioni e non di divisioni politiche, razziali, di classe.
No Good Old Days è l’ultima traccia: una classica chitarra folk, la tentazione di ritornare a chiudersi in ambienti confortanti, “accordati”, che però è assai improbabile che ritornino. Un pezzo intriso di nostalgia, mentre il folk si fonde in un caos onirico di suoni. Chiude il lungo, umano respiro del musicista, l’ultima aria che si vuota dai polmoni e che preclude ogni nostalgia di un tempo che fu…
Tre dischi per il ponte/1 – Tony Allen, Moby e Charles Lloyd
Il ponte che ci porta alla festa della Repubblica, il 2 giugno, è l’occasione per ascoltare nuova musica. Ho pensato, quindi, di condividere con voi sei dischi in due post, tutti di recente o freschissima uscita, che hanno catturato la mia attenzione. Come sempre, questione di gusti. Non pretendo di imporre, ma piuttosto di condividere quello che mi piace mettere in cuffia…
1 – There Is No End – Tony Allen
Partiamo forte, con un disco pubblicato il 30 aprile scorso. Un lavoro postumo, quello di Tony Allen, morto a Parigi lo scorso anno, il 30 aprile, appunto, per un aneurisma. Il disco era quasi ultimato, lo aveva già più che imbastito. Per il padre dell’Afrobeat, assieme a Fela Kuti con il quale ha suonato per anni prima nei Koola Lobitos e quindi nei mitici Afrika 70, questo lavoro è la conferma di come Allen ha concepito la musica e la batteria, strumento che suonava con una devozione e una conoscenza unica. Negli oltre sessant’anni di carriera Tony Allen ha messo a disposizione il suo incredibile know how ad artisti famosi e a quelli alle “prime armi”. Se credeva a un progetto, statene certi, lui c’era. Come nel supergruppo The Good The Bad and the Queen insieme a Damon Albarn (Blur e Gorillaz), Paul Simonon (Clash) e Simon Tong (Verve, Blur, Gorillaz), oppure con Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers, e sempre Damon Albarn, sotto il nome di Rocket Juice & The Moon (ascoltate Poison, grandi!). Ha suonato la batteria anche per Jovanotti, nell’album Oh Vita!. Con There Is No End, collabora con producer e rapper di varia estrazione: c’è Jeremiah Jae – Gang On Holiday (Em I go We?) – e anche Danny Brown – splendida la loro Deer in Headlights. E ancora, Mau Mau, con la keniota Nah Eeto; o Cosmosis, brano con Skepta e il poeta e scrittore nigeriano Ben Okri. Una iniezione di vita e di energia. E un grazie postumo a questo artista incredibile, nato a Lagos, in Nigeria, ma cittadino del mondo, al servizio della musica.
2 – Reprise – Moby
Reprise, nel senso di riprendere in mano canzoni, hit che hanno fatto conoscere l’artista newyorkese, per offrire ulteriori e nuove suggestioni. L’album, uscito fresco di stampa oggi, 28 maggio, per la prestigiosa etichetta discografica Deutsche Grammophon, è la dimostrazione che Moby è un artista curiosi e completo. Accettare la semplicità e la vulnerabilità di strumenti acustici o classici invece dell’elettronica è stata la sua sfida, come ha dichiarato quando ha annunciato l’uscita del disco. A dire il vero, un certa forma meditativa l’avevamo vista nell’album “pandemico” Live Ambient Improvised Recordings Vol. I, sonorità in cerca di pace e tranquillità spirituale e fisica. La passione per la classica l’aveva preso nel 2018, quando fece un concerto dal vivo con il suo amico Gustavo Dudamel, direttore d’orchestra e violinista venezuelano, alla Walt Disney Concert Hall insieme alla Los Angeles Philarmonic. Ecco, dunque, Reprise, eseguito con la Budapest Art Orchestra e un nutrito numero di straordinari interpreti, tutti grandi artisti: Gregory Porter e Amythyst Kiah per cantare una strepitosa versione di Natural Blues, Mark Lanegan e Kris Kristofferson per una solida, calda e “sofferta” The Lonely Night, poi Alice Skye, Apollo Jane, Darlingside, Jim James, Luna Li, Mindy Jones, Nataly Dawn, Skylar Grey e Vikingur Ólafsson, il pianista islandese che tre mesi fa pubblicato un album molto interessante, Reflections, dove interpreta con il suo modo vellutato, quasi misterioso, brani di Rameau e Debussy, al quale Moby ha affidato God Moving Over The Face Of The Waters. Che altro dire: un viaggio “mistico”, un percorso inverso, dall’elettronica all’analogico, incredibilmente affascinante…
3 – Tone Poem – Charles Lloyd & The Marvels
A 83 anni compiuti, il sassofonista di Memphis è in uno stato di grazia estremo. L’album, uscito a marzo di quest’anno, è una delle perle di questo 2021. Anche per chi non ascolta jazz o lo frequenta poco, Tone Poem offre emozioni a non finire. Innanzitutto perché i Marvels, al terzo disco insieme a Lloyd, sono quattro grandissimi musicisti: alla chitarra, sempre più in gran spolvero, Bill Frisell, alla pedal steel guitar Greg Leisz e alle sezioni ritmiche due colonne, il bassista Reuben Rogers e il batterista Eric Harland. E poi perché la scelta dei brani è stata curata con una precisione millimetrica: da partiture classiche come le prime due tracce dell’album, Peace e Ramblin’ di Ornette Coleman, prosegue con Anthem di Leonard Cohen, ve la ricordate? The birds they sang/ At the break of day/ Start again/ I heard them say/ Don’t dwell on what has passed away/ Or what is yet to be… per poi continuare affrontando Thelonius Monk, Gabor Szabo e una versione live molto bella di Ay Amor, storico brano del cubano Bola de Nieve (il suo vero nome era Ignacio Jacinto Villa Fernández, morto a 60 anni nel 1971). Il lavoro di Frisell in questo disco è superbo, tesse merletti per il sassofono di Lloyd, ricama di fino, quasi impercettibile. Come quello della sezione ritmica, efficace e morbida, e gli interventi ricchi e gentili di Leisz.
Pippi Dimonte, jazz e sonorità mediterranee, cocktail perfetto
Di musica buona anche in Italia ce n’è, e tanta. Basta saper cercare. Attività che include una buona dose di passione, e una equivalente di pazienza. In una di queste mie sessioni giornaliere mi sono imbattuto in un nome che, ammetto, non conoscevo abbastanza. Uno di quelli che ti metti da parte perché magari hai ascoltato qualcosa e che ti riproponi di approfondire in un prossimo futuro. Lui è Giuseppe Pippi Dimonte. Musicista, artista, compositore, classe 1991. Il suo strumento? Il contrabbasso che suona cercando sonorità sempre diverse, portandolo a nuovi orizzonti sonori. Approfondisco: quattro dischi all’attivo, lucano di Bernalda, il borgo rinascimentale da dove proviene anche Francis Ford Coppola. Da una decina d’anni vive nei pressi di Bologna, trasferito per frequentare e perfezionarsi al conservatorio Martini del capoluogo emiliano-romagnolo e qui rimasto.
L’ho ascoltato, visto in alcuni suoi video pubblicati sui canali social. L’ho cercato e intervistato. Il perché lo scoprirete durante questa chiacchierata. Pippi Dimonte viene da studi classici, e si sente, ama il jazz tanto quanto la musica popolare che sta riabilitando in maniera sorprendente (e solo su questa bisognerebbe aprire più di un lungo capitolo, mi impegno a farlo in un prossimo futuro), quella della sua terra, la Basilicata, ma anche le altre del mediterraneo, la greca, la turca, la maghrebina, la balcanica. Il risultato è una fusione di stili che potremmo battezzare folk-jazz o meglio jazz-pop-world.
Alcuni se la cavano definendolo jazz contemporaneo, che, per la musica che fa, vuol dire tutto e niente. Se dovessi fare un paragone, con le debite distinzioni del caso, direi che Pippi è sulla stessa lunghezza d’onda di Luke Stewart, trentatreenne contrabbassista americano che adora suonar jazz traendo scorribande da punk e rock. Insomma artisti aperti, in cerca di nuove sonorità con uno strumento che così estroverso non è, anche se si presta a essere piuttosto trasversale. E qui sta la bravura…
Pippi, dicevo, ha all’attivo quattro album, Morning Session (2014), Hieronymus (2016), Trio Mezcal (2018) e Majara, uscito quest’anno, oltre a un lungo elenco di collaborazioni con jazzisti internazionali come Adrien Moignard, Sebastien Giniaux, Nilza Costa, brava interprete brasiliana di Bahia, un timbro di voce molto particolare. Pippi si circonda di musicisti, amici, molto diversi tra loro, per studi e interessi personali. Eppure questo bell’ensemble ha creato nei suoi lavori quella sapidità che esalta le differenze, unendole.
Siamo in un altro lockdown, quest’anno va così. Per voi musicisti è stato piuttosto difficile…
«Sì, questo è un anno particolare per tutti. Io sono di indole positiva o forse non sono ancora troppo maturo ma, nella mia innocenza, da questa situazione ho tratto il dono più grande: il tempo».
E quindi?
«Mi sono messo a studiare contrabbasso come non lo facevo dal conservatorio. Ho vissuto in maniera, se vuoi, egoistica il tempo che mi era stato dato. Non possiamo farci niente, tutto è “rimandato” al 2021. Anche se quel verbo, in Italia spesso assume un significato diverso, più definitivo, e cioè, “annullato”. Penso che il Covid abbia palesato difficoltà come queste, che già esistevano».
È un problema non solo di lavoro ma anche psicologico…
«Ora non sto lavorando. Vuol dire che non sono più un musicista? O che la musica, come spesso si crede, non è un lavoro? Al momento sto vivendo da quindicenne: studio e basta, studio perché provo piacere a restare ore concentrato sullo strumento, mi piace dedicare tempo ad ascoltare gli altri musicisti, cerco di crescere ancora, perfezionarmi sempre di più».
Dopo quattro album, che si trovano anche sulla piattaforma Bandcamp, come definiresti il tuo stile?
«Sono sempre stato affascinato da tante “robe”, e il contrabbasso è uno strumento che si impone in maniera trasversale. Ho studiato musica classica, mi piace il jazz e ora mi sono concentrato sulla world music, musica etnica, musica turca, musica dei Balcani. Questa curiosità mi obbliga a cercare connessioni nuove e, dunque, stimoli nuovi».
Sto ascoltando con grande attenzione Majara, il tuo ultimo lavoro, che è diventato anche un progetto musicale.
«È uscito ai primi di febbraio e, ovviamente non abbiamo potuto promuoverlo a causa della pandemia. Siamo partiti in quattro, Mario Brucato, al clarinetto, Francesco Paolino alla chitarra e alla mandola (strumento a corde della famiglia dei liuti, simili all’oud, in voga nel Cinquecento), Emiliano Alessandrini al pandeiro (tamburo brasiliano usato nel Samba e nello Choro, una piccola batteria portatile!) e io, al contrabbasso. Quello che ne è uscito, è stato un lavoro apprezzato dal pubblico e dalla critica. Ora sto già cambiando, è un progetto che sto perfezionando, espandendolo ad altri musicisti che hanno altre provenienze. C’è Giulia Meci cantante jazz, il nostro amico greco Vaggelis Merkouris all’oud e Alberto Mammollino alle percussioni, esperto di tamburi a cornice (qui potete ascoltarli nel nuovo ensemble in una registrazione dell’estate scorsa, ndr).
Continuo su Majara, il disco: ti sei riavvicinato alle sonorità della tua terra. I titoli dei brani riportano tutto lì, all’essenza, a quello che sei…
«Anche se sono anni che non abito più in Basilicata, ora vivo vicino a Bologna, in un paesino sull’Appennino, sento molto la mia “lucanità” Mi piace la genuinità. In Basilicata siamo veramente pochi, lo spazio è tanto e la natura incontaminata. Certe sovrastrutture verbali lì è come se non esistessero. Majara, in dialetto, è la fattucchiera. Di lei ne parlava l’antropologo Ernesto De Martino nel suo libro Sud e Magia (1959, ndr). Majara era una donna, una strega buona, l’incontro tra il sacro e il profano. Ricorda riti pagani, è profana al massimo! Ma, come spesso accade, in un ambiente geograficamente chiuso, tutti sono religiosissimi però credono anche in lei. Il disco – e anche il nome del progetto – è un omaggio alla mia terra e alla commistione di generi e culture (ascoltate Grancìa…)».
Parlando della composizione, parte tutto da te giusto?
«Compongo musiche e arrangiamenti. Poi, per il fatto di essere molto eterogenei tra noi, il pezzo si perfeziona, prende corpo e forma. Vedi, Alberto Mammollino, il percussionista, viene dalla tradizione popolare italiana, ma ha studiato anni la percussione mediterranea. Francesco Paolino ha studiato chitarra classica, è un mandolinista e apprezza anche la musica popolare, come Mario Brucato, clarinettista classico ma appassionato di musica rinascimentale. Suona anche il cornetto, uno strumento a fiato usato dal Medioevo fino al periodo rinascimentale. Giulia Meci, invece, ha studiato canto jazz, mentre Vaggelis Merkouris, il nostro oudista suona la musica Makam, della tradizione turca…
Tu, invece “lavori” con un classico contrabbasso…
«Ne suono uno normale a quattro corde. Quest’anno mi sono comprato quello a cinque corde. Di solito viene usato per aggiungerci una corda ancora più grave, in modo da ottenere suoni più profondi. Io, invece, ho montato una corda più alta, per avere un suono più lirico. Sembra quasi un violoncello… Ecco, l’ho detto, e ora mi attirerò le reprimenda dei violoncellisti!».
Ho letto da qualche parte che un critico musicale americano, all’uscita del tuo album Hieronymus, 2016, ti ha annoverato tra i più creativi bassisti in circolazione, uno in particolare mi ha colpito perché lo ammiro da sempre, Flea dei Red Hot Chili Peppers…
«Troppo buono, un complemento immeritato, Flea è uno dei più grandi bassisti al mondo, non esageriamo! Però, dai, va bene tutto».
Che musica ascolti, quali i tuoi riferimenti?
«Sono uno youtuber dipendente! Dedico ore al giorno a cercare musicisti e musiche che mi interessano. Grazie a queste ricerche ho avuto modo di ascoltare personaggi incredibili. Queste piattaforme sono veri propri banchi dati della musica. Torniamo agli ascolti: al momento mi sto dedicando di più a quello che mi interessa per il lavoro che sto facendo, ascolto molti musicisti turchi, arabi, spagnoli, quelli che hanno in comune contaminazioni panmediterranee. Oltre a questi, mi piace molto la corrente jazz nordeuropea, ad esempio, il contrabbassista svedese Lars Danielsson, musicisti che suonano jazz ma che hanno un background classico. Tra i miei preferiti ci sono Ibrahim Maalouf (trombettista jazz franco libanese, ndr), Dhafer Youssef (oudista tunisino, ndr), Ross Daly (inglese, specialista nella Lira Cretese, ndr), Efrén López (polistrumentista spagnolo, appassionato di musica medievale, ndr), Stelios Petrakis (greco, polistrumentista)…».
Tutti nomi che con il mainstream musicale non ci azzeccano proprio…
«La musica che in questo momento ha più risonanza fa semplicemente sembrare che non ci sia altro in circolazione. Mi piace, invece, pensare che altra musica, di minor valore commerciale, possa, un domani, avere molta più eco di questa. È un sogno, un augurio…».
Antidoti alla quarantena: tre artiste da ascoltare per rilassare l’anima
Agnes Obel, Anna Meredith, Kate Miller-Heidke. La prima, danese di Copenhagen, la seconda, londinese di Tufnell Park cresciuta in Scozia, la terza australiana di Gladstone, Queensland. Tutte e tre sono nate tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, Agnes ha 39 anni, Anna 42 e Kate 38. Sono tre artiste, compositrici, che hanno molto in comune tra loro. Innanzitutto provengono da studi classici, Agnes, figlia di una pianista suona il pianoforte da quando era piccola. Anna ha studiato al conservatorio di Edimburgo, suonato e composto per la BBC Scottish Simphony Orchestra e per i suoi meriti nel campo della musica è stata insignita dalla regina Elisabetta del prestigioso MBE, Member of the Order of the British Empire. Kate, studi classici al Queensland Conservatorium di Griffith, nasce come cantante lirica, soprano. Inoltre, hanno iniziato più o meno tutte a produrre dischi negli stessi anni: Kate Miller-Heidke è stata la prima, nel 2007 con Little Eve, Agnes Obel, nel 2010 con lo spettacolare Philarmonics, mentre Anna Meredith nel 2012 con un EP di musica elettronica, Black Prince Fury.
Perché ve ne sto parlando? Perché le tre signore in questione hanno saputo trarre dalla musica classica una chiave di lettura per proporre un altro tipo di musica che, sinceramente, non saprei come definire, senza confini, con contaminazioni elettroniche, sperimentali, “mistiche”, pop sofisticato, indie raffinato, insomma una musica colta ma accessibile.
L’ultimo lavoro di Agnes Obel, Myopia, quarto album dell’artista danese uscito il 21 febbraio scorso, pubblicato dalla prestigiosa Deutsche Grammophone (il che la dice lunga…), creato e prodotto nella casa studio di Berlino, dove vive da parecchi anni, è, come sostiene la webzine Pitchfork, “il vertice della sua lussureggiante malinconia”, una meticolosa fusione di pianoforte e voce, crescendo di atmosfere che ti avvolgono e incantano. Un disco che metteresti in loop perché aiuta la concentrazione, portandoti a stati mentali positivi (a maggior ragione ora che siamo confinati nelle nostre case…). Se volete immergervi nei meandri di note e voce ascoltate Camera’s Rolling, o anche Broken Sleep. Molto intrigante, uno dei tre brani solo musicali dell’album, Parliament of Owls.
Anna Meredith, a parte due Ep, ha prodotto il suo primo album nel 2016, Varmints (che tradotto suona come “mascalzoni”) album elettro pop, che ha voluto perfezionare in Fibs (frottole), disco uscito il 25 settembre dello scorso anno, dove si lascia andare a un classic-elettro con accenni rock e pop degno di nota. Guardate e ascoltate il video di Paramour, decimo brano dell’album, davvero divertente. Tra i due dischi la Meredith ne ha pubblicato un altro nel 2018, intitolato Anno: Four Season by Anna Meredith & Antonio Vivaldi, eseguito con la Scottish Ensemble e il violinista Johnatan Morton. Le Quattro Stagioni di Vivaldi sono uno dei pezzi di classica più conosciuti al mondo. La Meredith le ha “smontate” e “rimontate” remixate, aggiungendo un tocco magico all’opera del sacerdote veneziano, “re” della musica barocca.
E veniamo a Kate Miller-Heidke. Ha publicato quattro dischi, come la Obel, ma si muove con maggiore scioltezza nei percorsi pop mainstream. Per capirlo basta ascoltare O Vertigo!, brano tratto dall’omonimo lavoro del 2015, qui dal vivo con la Melbourne Simphony Orchestra. La Miller-Heidke ha pubblicato lo scorso gennaio un Ep con un’unica canzone, Zero Gravity, rivista e remixata in sei brani diversi. Il brano è stato scelto dall’Australia per partecipare alle semifinali dell’Eurovision Festival 2019.
Permettetemi un ultimo accenno. Ma questo vale per la Obel e la Miller-Heidke. Entrambe ricordano, la prima nella composizione e la seconda nell’estensione vocale, la mitica Kate Bush, artista parca nella produzione musicale ma di estremo talento. Il suo Running Up to the Hill dall’album del 1985 Hounds of Love o il più riflessivo Snowflake, che racconta il viaggio di un fiocco di neve dal cielo alla terra dal disco 50 Words For Snow del 2011, sembrano contenere le due anime di Agnes e Kate, la magia di percorsi musicali nati dai tasti di un pianoforte e da una voce particolarmente dotata.