Venerdì prossimo, 27 ottobre, uscirà sugli scaffali fisici e digitali un disco che vi consiglio d’ascoltare con una certa libertà d’udito e di pensiero. Loro sono i Bright Magus, formazione tutta italiana che arriva con un lavoro di sei brani intitolato Jungle Corner. Il genere? Una fusion anni Settanta, ma non una fusion qualsiasi, bensì quella ispirata dal padre del genere, Miles Davis, nel suo periodo elettrico che va dal 1969 al 1975, quando l’artista era sotto contratto con la Columbia. Continua a leggere
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Tre artisti per il weekend: Kiah, Owusu, Kidjo
Per quest’ultimo fine settimana di giugno vi voglio proporre tre artisti apparentemente molto diversi tra loro, per generi, origini, contaminazioni ma che in fondo hanno più di una radice comune. Dalla beninese Angélique Kidjo, al giovane ghanese-australiano Genesis Owusu, al suo primo disco – e che disco! – alla potentissima Amythyst Kiah che ha pubblicato un album che è un capolavoro di forza e di country blues. Musica dinamica, viva, pulsante, per i tre artisti, giusta per il momento, l’estate e la speranza di riconquistare una nuova normalità.
1 – Wary + Strange – Amythyst Kiah
La trentaquattrenne artista del Tennessee ha confezionato un disco praticamente perfetto. Dove c’è posto per tutto l’universo di Amythist Kiah, folk, blues, country, rock che nei precedenti due lavori aveva tenuti ben distinti. Il primo, Dig, uscito nel 2013 erano cantate folk ricche di pathos (d’altronde con la voce che il buondio le ha donato può permettersi praticamente tutto), il secondo, Songs of Our Native Daughters, pubblicato assieme ad altre tre musiciste – Rihannon Giddens, Leyla McCalla e Allison Russell – sotto il nome di Our Native Daughters, oltre a un rifacimento in chiave folk di Slave Driver di Bob Marley, proponeva punti di vista su questioni dirimenti per gli afroamericani, dal razzismo, alla schiavitù alla discriminazione sessuale, in chiave “americana” con inserti blues. Wary + Strange è finalmente un disco completo, interpretato con la giusta grinta e quel senso di sicurezza di chi ha finalmente trovato la sua strada artistica. La stessa Black Myself, presente nel precedente album, è stata trasformata in una vigorosa ballata rock blues. Ascoltatela, alzate il volume e caricatevi!
2 – Smiling With No Teeth – Genesis Owusu
Smiling With No Teeth, uscito nel marzo scorso, è il primo album di questo ventitreenne nato in Ghana e cresciuto a Canberra (Australia), dove i suoi genitori lo portarono all’età di due anni. La famiglia è ritornata in Ghana, lui divide la sua vita tra i due Paesi. Il fratello maggiore è un rapper noto in Australia, Citizen Kay. Premessa necessaria: Genesis adora i manga giapponesi, i videogiochi e in genere le arti visive. E ancor di più ama alla follia le musiche dei videogiochi, oltre al funk, al punk, al rap e al pop. Queste sue passioni si riversano tutte nel disco che riassume un caos di generi dove Owusu si muove a suo agio, alimentandolo a dovere. Si sente la stessa fluidità di Prince nel fare musica… A partire dal primo brano, On The Move che introduce The Other Black Dog, è un crescendo di melodie e generi che stimolano e incuriosiscono. Ti invogliano ad andare avanti per questa strada apparentemente sconnessa – vedi Waitin’ on Ya – e divorare il disco fino all’ultimo brano, By By.
3 – Mother Nature – Angélique Kidjo
Ancora Mama África, per citare una vecchia canzone del brasiliano Chico Cesar. Dal Ghana ci spostiamo al Benin, da dove viene Angélique Kidjo, una delle grandi voci del continente. La sessantenne artista che vive a New York, con questo album continua la sua missione, e cioè, divulgare la cultura panafricana come un insieme di grande valore. Grazie ad artisti come lei la musica africana negli anni è diventata punto di riferimento nella world music. E Mother Nature vuole essere proprio questo, attorno al solido pilastro che è Angélique trovano voce molti artisti, come i nigeriani Mr. Eazi e Burna Boy e il chitarrista e jazzista beninese Lionel Loueke (che vi avevo presentato lo scorso anno). Come riporta Pitchfork, la Kidjo ha registrato l’album in Francia chiamando virtualmente a raccolta un collettivo panafricano composto da musicisti e cantanti provenienti dall’Africa agli Stati Uniti per presentare brani che contenessero le sonorità dell’Afrobeat, la spiritualità dello Zilin, tecnica vocale tipica del Benin, l’improvvisazione dei griot, cantastorie dell’Africa Occidentale, uniti al banku e all’hip hop. Un disco che è, dunque, anche uno scambio di memorie condivise. Da una solida versione di Africa, come specificato nel titolo, One Of A Kind, del maliano Salif Keïta, che canta assieme a Mr. Eazi, a Omon Oba che la Kidjo interpreta con Zeynab e Lionel Loueke. Una vera e propria avventura in musica.
Tre dischi per il ponte/1 – Tony Allen, Moby e Charles Lloyd
Il ponte che ci porta alla festa della Repubblica, il 2 giugno, è l’occasione per ascoltare nuova musica. Ho pensato, quindi, di condividere con voi sei dischi in due post, tutti di recente o freschissima uscita, che hanno catturato la mia attenzione. Come sempre, questione di gusti. Non pretendo di imporre, ma piuttosto di condividere quello che mi piace mettere in cuffia…
1 – There Is No End – Tony Allen
Partiamo forte, con un disco pubblicato il 30 aprile scorso. Un lavoro postumo, quello di Tony Allen, morto a Parigi lo scorso anno, il 30 aprile, appunto, per un aneurisma. Il disco era quasi ultimato, lo aveva già più che imbastito. Per il padre dell’Afrobeat, assieme a Fela Kuti con il quale ha suonato per anni prima nei Koola Lobitos e quindi nei mitici Afrika 70, questo lavoro è la conferma di come Allen ha concepito la musica e la batteria, strumento che suonava con una devozione e una conoscenza unica. Negli oltre sessant’anni di carriera Tony Allen ha messo a disposizione il suo incredibile know how ad artisti famosi e a quelli alle “prime armi”. Se credeva a un progetto, statene certi, lui c’era. Come nel supergruppo The Good The Bad and the Queen insieme a Damon Albarn (Blur e Gorillaz), Paul Simonon (Clash) e Simon Tong (Verve, Blur, Gorillaz), oppure con Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers, e sempre Damon Albarn, sotto il nome di Rocket Juice & The Moon (ascoltate Poison, grandi!). Ha suonato la batteria anche per Jovanotti, nell’album Oh Vita!. Con There Is No End, collabora con producer e rapper di varia estrazione: c’è Jeremiah Jae – Gang On Holiday (Em I go We?) – e anche Danny Brown – splendida la loro Deer in Headlights. E ancora, Mau Mau, con la keniota Nah Eeto; o Cosmosis, brano con Skepta e il poeta e scrittore nigeriano Ben Okri. Una iniezione di vita e di energia. E un grazie postumo a questo artista incredibile, nato a Lagos, in Nigeria, ma cittadino del mondo, al servizio della musica.
2 – Reprise – Moby
Reprise, nel senso di riprendere in mano canzoni, hit che hanno fatto conoscere l’artista newyorkese, per offrire ulteriori e nuove suggestioni. L’album, uscito fresco di stampa oggi, 28 maggio, per la prestigiosa etichetta discografica Deutsche Grammophon, è la dimostrazione che Moby è un artista curiosi e completo. Accettare la semplicità e la vulnerabilità di strumenti acustici o classici invece dell’elettronica è stata la sua sfida, come ha dichiarato quando ha annunciato l’uscita del disco. A dire il vero, un certa forma meditativa l’avevamo vista nell’album “pandemico” Live Ambient Improvised Recordings Vol. I, sonorità in cerca di pace e tranquillità spirituale e fisica. La passione per la classica l’aveva preso nel 2018, quando fece un concerto dal vivo con il suo amico Gustavo Dudamel, direttore d’orchestra e violinista venezuelano, alla Walt Disney Concert Hall insieme alla Los Angeles Philarmonic. Ecco, dunque, Reprise, eseguito con la Budapest Art Orchestra e un nutrito numero di straordinari interpreti, tutti grandi artisti: Gregory Porter e Amythyst Kiah per cantare una strepitosa versione di Natural Blues, Mark Lanegan e Kris Kristofferson per una solida, calda e “sofferta” The Lonely Night, poi Alice Skye, Apollo Jane, Darlingside, Jim James, Luna Li, Mindy Jones, Nataly Dawn, Skylar Grey e Vikingur Ólafsson, il pianista islandese che tre mesi fa pubblicato un album molto interessante, Reflections, dove interpreta con il suo modo vellutato, quasi misterioso, brani di Rameau e Debussy, al quale Moby ha affidato God Moving Over The Face Of The Waters. Che altro dire: un viaggio “mistico”, un percorso inverso, dall’elettronica all’analogico, incredibilmente affascinante…
3 – Tone Poem – Charles Lloyd & The Marvels
A 83 anni compiuti, il sassofonista di Memphis è in uno stato di grazia estremo. L’album, uscito a marzo di quest’anno, è una delle perle di questo 2021. Anche per chi non ascolta jazz o lo frequenta poco, Tone Poem offre emozioni a non finire. Innanzitutto perché i Marvels, al terzo disco insieme a Lloyd, sono quattro grandissimi musicisti: alla chitarra, sempre più in gran spolvero, Bill Frisell, alla pedal steel guitar Greg Leisz e alle sezioni ritmiche due colonne, il bassista Reuben Rogers e il batterista Eric Harland. E poi perché la scelta dei brani è stata curata con una precisione millimetrica: da partiture classiche come le prime due tracce dell’album, Peace e Ramblin’ di Ornette Coleman, prosegue con Anthem di Leonard Cohen, ve la ricordate? The birds they sang/ At the break of day/ Start again/ I heard them say/ Don’t dwell on what has passed away/ Or what is yet to be… per poi continuare affrontando Thelonius Monk, Gabor Szabo e una versione live molto bella di Ay Amor, storico brano del cubano Bola de Nieve (il suo vero nome era Ignacio Jacinto Villa Fernández, morto a 60 anni nel 1971). Il lavoro di Frisell in questo disco è superbo, tesse merletti per il sassofono di Lloyd, ricama di fino, quasi impercettibile. Come quello della sezione ritmica, efficace e morbida, e gli interventi ricchi e gentili di Leisz.