Joe Barbieri, trent’anni di musica e rispetto

Joe Barbieri – Foto Angelo Orefice

Vivere attraverso la musica è un’arte che pochi sanno praticare. È questione di attitudine, di sensibilità, di condivisione. Joe Barbieri, musicista napoletano, è uno di questi rari esseri umani. Lo seguo da anni, mi ha incuriosito fin dai suoi primi lavori per la sua “integrità musicale”. Che non significa attaccamento a un genere, anzi! Semmai, pura creatività messa in note con criteri rigidissimi. 

Artista attento alla musica del mondo con una predilezione per il jazz, la bossanova e lo choro, la sua Cosmonauta d’appartamento suonata con Hamilton de Hollanda, incredibile mandolinista brasiliano, dall’omonimo album uscito nel 2015, è uno dei brani che resta custodito nella mia playlist del cuore, tra Desde Que o Samba é Samba di Caetano Veloso e Gilberto Gil, e País Tropical cantato da Veloso, Gil e dalla grande Gal Costa (che se n’è andata a 77 anni la scorsa settimana)… Insomma, tornando a Barbieri, alla sua creatività, uno può avere tutta la fantasia del mondo, ma poi, per trasformarla in musica e fare un buon pezzo ha bisogno di tanta arte e studio.  Continua a leggere

Steve Hackett in concerto e i 50 anni di Foxtrot

Il 6 ottobre del 1972 i Genesis pubblicavano Foxtrot un lavoro destinato a diventare una delle colonne del prog mondiale. Il quarto album della band era composto da sei tracce, quattro nel lato A e due nel lato B, la splendida e brevissima Horizons (nemmeno un minuto e mezzo) suonata da Steve Hackett e la lunga, elaborata e psichedelica suite Supper’s Ready (23 minuti e sei secondi), pezzo che farà storia.

Foxtrot ha superato il mezzo secolo di vita, ma quell’album con la celebre ragazza-volpe nata dalla creatività di Paul Whithead (a proposito, l’artista settantasettenne ha disegnato alcuni mesi fa la cover di una band italiana, i romani New Strikers, di cui vi ho parlato qualche giorno fa), rivivrà tra pochi giorni in una tournée di sei date in Italia firmato Steve Hackett, accompagnato da musicisti di altissimo livello. A partire da Craig Blundell, batterista di Steven Wilson ma anche componente di uno strepitoso supergruppo, i Trifecta di cui vi ho parlato circa un anno fa all’uscita del loro album; il tastierista Roger King, con Hackett da molti anni, come Rob Townsend (alle percussioni, sax e flauto), Jonas Reingold (basso e chitarra) e Nad Sylvan (alla voce). Continua a leggere

Africa Unite, quarant’anni di impegno e amicizia. Parola di Madaski

Quarantan’anni insieme senza essere mai banali. Capita a pochi gruppi, si contano sulle dita delle mani. Gli Africa Unite appartengono a questo club esclusivo. Veramente il quarantesimo si sarebbe dovuto festeggiare lo scorso anno, visto che la formazione di Bunna&Madaski nacque nel 1981, l’anno successivo alla mitica venuta a Milano di Bob Marley and The Wailers, il 25 giugno, nello stadio di San Siro, ma soprattutto nell’anno in cui il padre del reggae morì. Il nome della band è un omaggio al giamaicano più famoso della terra, tanto per ricordarlo anche a coloro che nell’81 erano ancora in fasce. La band di Pinerolo pubblicò il primo disco nel 1986, si chiamava Mjekrari, album che conteneva Nella mia città, una delle hit del gruppo. Se siete interessati, il 19 marzo su Sky Arte nel palinsesto My Generation, ci sarà uno speciale tutto per loro.

Il quarantesimo ha portato un altro bel regalo ai fan della band: tutta la vasta produzione fatta di brani, album, live, collaborazioni, è disponibile in streaming. Il 1 marzo sono stati caricati gli ultimi “pezzi” mancanti. «Ma ce ne sono ancora altri che rilasceremo presto», mi dice Madaski, tastierista e produttore eclettico, intrippato di dub.

Ammetto, era un po’ che non mettevo in cuffia al giusto volume gli Africa. Ed è sempre una gran bella carica. Per il loro modo di fare reggae, molto simile a quello di Marley, rigoroso, ben piantato, con testi impegnati, lontano da quello che viene prodotto oggi sull’isola caraibica, contaminato da sound confusionari e molto più “leggero”.

Quella degli Africa, e poi mi taccio e lascio la parola a Madaski, è anche una fruttuosa e importante esperienza di vita. Gli Africa sono una famiglia, oltre ai pochissimi rimasti dall’inizio dell’avventura, nella band sono passate decine di musicisti. Tutti amici prima che membri della band, gente a cui l’esperienza negli Africa scorre ancora nelle vene, un timbro nell’anima, indelebile…

Mada, dopo quarant’anni di reggae suonato sempre ad alti livelli, hai l’autorità per dirmi com’è la situazione attuale in Giamaica…
«Il reggae giamaicano oggi è del tutto indigeribile, ed è così da parecchi anni. Il mio rapporto con lui risale agli anni Settanta, Ottanta e un po’ dei Novanta. A livello attitudinale, o ha iniziato a scimmiottare roba americana o è diventato molto mistico, un misticismo di facciata che non ha prodotto più dei capolavori. Se ti dico che il miglior artista reggae in circolazione è un italiano ci crederesti? È Alborosie!».

Molto bravo, condivido! Tra l’altro non l’avete iniziato voi? Allora si faceva chiamare Stena!
«Gli ho prodotto cinque dischi quando suonava nei Reggae National Tickets. Vive da anni in Giamaica, ed è l’unico che riesce a ancora a suonare il reggae senza banalizzarlo».

Permettimi una divagazione sulla musica italiana, visto che hai uno studio discografico e sei un produttore, insomma, uno del mestiere… Cosa ne pensi?
«Vuoi proprio saperlo? Oggi è un pretesto per vendere un personaggio, né più né meno. Una trovata come un’altra, le stesse che usi per vendere qualsiasi prodotto. Si tratta di un’economia di gestione mediatica che avviene attraverso web, televisione e radio che implica un fiorire di cantanti, cantautori più o meno criptici, rapper più o meno colti o del tutto imitatori della scena americana. Tutto si basa su un’ostentazione della ricchezza della violenza, della bella vita…».

Sono sparite soprattutto le band come voi, i Modena City Ramblers, i 99 Posse…
«Non c’è granchè, i gruppi sono pochi, perché la figura solista è molto più facile da gestire e il management, con uno solo, esercita meglio il proprio potere. Queste figure vengono usate, sfruttate per pochi anni o addirittura meno, e poi scaricate».

Perché si è arrivati a ciò?
«Non ci sono più confini. Negli anni Ottanta c’erano tanti gruppi alternativi che proponevano modelli internazionali. Oggi ci siamo rinchiusi nei nostri studi con basi musicali fatte in serie. E si sente. Prima si usciva per scoprire gli artisti, ora si costruisce a tavolino un personaggio, ci sono alcuni produttori, sempre gli stessi, che preparano basi che poi vengono smistate a quello o a quell’atro che si vuole lanciare».

Uno può salire sul palco senza saper cantare e suonare – come spesso avviene!
«Non punto molto sulla preparazione musicale, ma almeno un libro di storia della musica dovrebbero leggerselo tutti per capire la differenza tra Bach e Chopin, Beethoven e Ravel… È tutto il sistema che è bacato: produce piccole meteore commerciali con, ripeto, una durata medio-corta. Non si basa su progetti di album, sul significato di quello che si vuol comunicare, su un linguaggio più ricercato…».

I vostri brani sono sempre stati molto legati al sociale, alla politica, all’attenzione per il lavoro, al criticare chi al governo agiva male o per nulla…
«Vero, questi sono temi molto poco affrontati dalle nuove generazioni. Per noi, invece, erano fin troppo sottolineati. Per me era naturale guardarmi intorno e cercare di capire cosa stesse succedendo, e di argomenti “politici” in quarant’anni ce ne sono stati tanti. Stiamo assistendo a un preoccupante peggioramento che coincide con un progressivo impoverimento culturale e politico dell’attuale classe dirigente. A parte Draghi, al potere ci sono degli analfabeti!».

E i musicisti, gli artisti, che avrebbero dovuto accorgersene prima e più di altri sono stati, salvo rare eccezioni, silenziosi…
«È una conseguenza che il mondo musicale ha subito molto… Sto vedendo un individualismo spinto nei musicisti, invece di aprirsi al mondo si chiudono. Il risultato che avverto è che purtroppo non c’è mai nulla che salti all’orecchio, che ti riesca a stupire. Penso che sia cambiato l’approccio alla musica. Sicuramente i nuovi artisti pensano la stessa cosa, al contrario, di noi!».

Torniamo agli Africa Unite, la vostra è una storia soprattutto di amicizia e di condivisione di valori… Di musicisti sul palco degli Africa ne sono passati tantissimi…
«Una quarantina! Io, Bunna e Papa Nico, il percussionista arrivato nel 1989, siamo i tre più longevi. Nel lungo albero genealogico degli Africa siamo rimasti tutti quanti con rapporti molto forti, ci troviamo spesso per suonare insieme, ed è bello! La musica deve essere prima di tutto un piacere, e forse è anche per questo che oggi manca. Il Tal dei Tali che esce da Amici spesso non ha nessuno, sul palco è solo, suona con altri musicisti ma non c’è quel legame che si forma in anni di convivenza sul palco. Lo vedi quando un artista suona con gli amici, quel legame profondo il pubblico lo avverte eccome! Oggi c’è un bel livello tecnico di persone che spesso suonano per qualcuno ma non con qualcuno…».

Tu e Bunna siete inseparabili…
«Ci conosciamo da 52 anni, dunque, avevamo io 4 e lui 5 anni. Tutt’ora abitiamo a 400 metri di distanza uno dall’altro. Ci vediamo molto, quasi tutte le sere per un aperitivo. Stamattina, per esempio, prima di sentirti, abbiamo fatto colazione insieme. Sicuramente gli Africa senza questo rapporto, questa vicinanza, non si sarebbero potuti esprimere così. Io e Bunna siamo diversi, per carattere, facciamo cose diverse, ma per questo siamo così uniti».

A proposito, tu Madaski e lui Bunna… ma chi vi ha dato questi nickname?
«Beh, Bunna… è sempre stato Bunna! È un adattamento del suo cognome, Bonino, sai i bimbi come fanno! Il mio me l’ha dato un amico musicista, Silvio Quarrozzo dei Persiana Jones. Credo sia l’anagramma di Adamski un musicista e produttore inglese.

Presto pubblicherete un nuovo album…
«Dovevamo farlo uscire l’anno scorso per celebrare i quarant’anni di attività, ma con tutto quello che è successo abbiamo deciso di rinviare. Il disco si chiamerà Non è Fortuna, è stato scritto durante il lockdown e in questi mesi lo abbiamo ampliato e modificato».

Ritorno sul vostro repertorio: ma avete pubblicato tutto, davvero?
«Abbiamo voluto fare gli Africa Unite dalla A alla Z. Ma non è ancora tutto! Per esempio manca un disco di dub version pubblicato solo in Germania che aggiungeremo presto. Non sono escluse anche alcune ristampe in vinile e in cd…».

Ascolti d’agosto: Brian May e il suo Back To The Light

Brian May, 74 anni, ha pubblicato il 6 agosto un corposo box set contente la ristampa di Back To The Light, album che uscì nell’aprile del 1992, cinque mesi dopo la scomparsa dell’amico e frontman dei Queen, Freddie Mercury. Quest’anno, il 24 novembre, saranno i trent’anni dalla morte del mitico performer.

May è un grandissimo nell’arte della chitarra, un ottimo compositore, una mente geniale (è un astrofisico), ma anche una persona fragile, portatore di un romanticismo che traspare dalle sue partiture orchestrali, iniziate con le sovraincisioni di assoli fatti con la sua Red Special, chitarra costruita assieme al padre ingegnere, tuttora la sua preferita. Una replica dello strumento – dopo le molte tentate durante gli anni – la si può acquistare dal sito commerciale di May. Lui stesso ha supervisionato la fattura della nuova “Old Lady”, come la chiama, molto verosimile all’originale e a un prezzo accessibile a tutti, tiene a precisare.

Ma veniamo al disco. Riascoltare la splendida Too Much Love Will Kill You, probabilmente la composizione più famosa di May, è sempre un bell’impatto. Il brano fu inserito nel 15esimo album dei Queen, uscito quattro anni dopo la morte di Mercury, il 7 novembre del 1995 dal titolo Made in Heaven. La voce di Freddie venne presa da una vecchia demo del 1988. Per inciso, quello fu un album fortunato. La versione di May è più “catartica”, intima. La ristampa ne contiene un’altra, solo strumentale, guitar version

Resurrection è potente (la incise con Cozy Powell alla batteria nel 1992) multistrati di assoli, chitarra imperiosa, un rock spettacolare e galoppante che non ti stanchi di ascoltare. Non annoia nemmeno Nothin’ but Blue, brano scritto la notte prima della morte di Mercury insieme al batterista Cozy Powell, con cui Brian ha avuto un legame di amicizia e proficuo lavoro fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1998 a causa di un incidente stradale. O ancora Driven by You, brano che viene eseguito in quattro diverse versioni, inclusa quella che May elaborò per la pubblicità della Ford. Godibile Rollin’ Over, brano del 1968 degli Small Faces, che suona come un divertissement, in chiusura del primo disco.

SI tratta di un album doppio, dove nella prima parte c’è Back To The Light original, mentre, nella seconda, varie revisioni dei brani presenti, dal titolo Out Of The Light, oltre a una serie di composizioni suonate dal vivo in concerti tenuti da May nel 1993. Ad esempio Tie Your Mother Down, eseguito con Slash al Live on the Tonight Show with Jay Leno, il 5 aprile, o We Will Rock You presentata nel Live at the Brixton Academy, del 15 giugno.

Un album da avere nella propria raccolta. Per gli amanti del genere a disposizione un box set (come scrivevo all’inizio) contente un LP in vinile bianco (sofisticatezza!), due Cd, un libro di 32 pagine, una stampa artistica da 12″…

Astor Piazzolla, oggi il centenario della nascita

Giusto cento anni fa nasceva a Mar de Plata (Argentina) Astor Piazzolla, il musicista che ha trasformato il tango, rendendolo oltre alla danza, una musica complessa, ricca di sfumature, figlia delle sue esperienze. Figlio di italiani (il padre Vicente era originario di Trani, la madre Assunta di Massa Sassorosso, borgo toscano in Garfagnana), Astor studiò musica a New York dove la famiglia si trasferì quando lui aveva appena tre anni. Nella Grande Mela, dopo gli studi classici, fu catturato dalla libertà contagiosa ed espressiva del jazz. Il suo strumento era il bandoneón, quella strana fisarmonica importata in Argentina a metà Ottocento da un  tedesco che è diventata l’anima di un’orchestra di tango. Narrano le cronache che, ad appena 12 anni, incontrò il re del tango dei primi anni del Novecento, Carlos Gardel, che lo volle al suo fianco in una tournée. Era il 1934. Il padre Vicente, probabilmente intimorito per l’a giovane età, non glielo permise. Gardel morì l’anno successivo a Medellin in Colombia.

Ma torniamo alla musica di Piazzolla: con lui, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, il tango da musica romantica alla Gardel, appunto, diventa più ritmico, complesso. Piazzolla introduce chitarre elettriche, i primi sintetizzatori, suonati dal figlio Daniel nel periodo dell’Octeto Electronico, formazione che durò appena quattro anni. Per questo si attirò le ire dei conservatori del tango e persino da Borges che lasciò sdegnato la sala durante un suo concerto. Ma lui credeva nella sua musica. Non a caso le contaminazioni con il jazz con il mitico sassofonista Gerry Mulligan o il vibrafonista Gary Burton diedero vita a quel tango nuevo di gran successo negli States e in Europa ma non nel suo Paese. Ascoltatevi Close Your Eyes and Listen con Gerry Mulligan, alla batteria il nostro grande Tullio De Piscopo, brano del 1974, dall’album Summit, o Vipraphonissimo dall’album The New Tango registrato dal vivo nell’88 al Mountreux Jazz Festival.

Dei tanti lavori prodotti in vita (poi sono usciti un sacco di dischi postumi… e qui sapete come la penso, una sorta di “esplorazione” di artisti che non avevano, per ovvie ragioni, più motivo decisionale su brani, sequenze, arrangiamenti) c’è Adiòs Nonino (1969), Libertango (1974), Tango: Zero Hour (1988), quest’ultimo l’album preferito dallo stesso musicista… Astor scrisse anche colonne sonore: per Sur di Fernando Solanas con la mitica canzone Vuelvo al Sur, le parole (qui sotto) sono dello stesso Solanas, brano interpretato anche da uno strepitoso Caetano Veloso. Per il film Solanas vinse la miglior regia al quarantunesimo Festival di Cannes. Compose anche le musiche per l’Enrico IV di Marco Bellocchio (1984).

Vuelvo al Sur, como se vuelve siempre al amor

vuelvo a vos con mi deseo, con mi temor

Llego al Sur como un destino del corazón

soy del Sur como los aires del bandoneón

Sueño el Sur, inmensa luna, cielo al revés

busco el Sur el tiempo abierto, y su después.

Quiero el Sur, su buena gente, su dignidad,

siento el Sur, como tu cuerpo en la intimidad.

Vuelvo al Sur, llego al sur te quiero

Dunque, se volete approfondire il tema, oggi a Trani, città d’origine dei Piazzolla, ci sarà un collegamento con Mar de Plata, per ricordare il grande bandeonista e artista. Diretta streaming alle 14 sulle pagine Facebook Festival del Tango Trani del Centenario Piazzolla e sulla pagina ufficiale della Città di Trani. Ovviamente, festeggiamenti anche a Massa Sassorosso in Garfagnana con l’arrivo dei consoli e dell’ambasciatore argentino in Italia.

Auguri a David Gilmour, 75 anni!

Marzo è un mese di ricorrenze per i Pink Floyd. Oggi David Gilmour, il mitico chitarrista della band, festeggia i suoi magnifici 75 anni. Per chi non lo avesse ancora visto, andatevi a cercare il docufilm del 2015 David Gilmour: Wider Horizons, un intimo ritratto del Gilmour artista, della sua storia, della sua infinita passione per la musica…

Il primo di marzo del 1973, 48 anni fa, la band inglese pubblicava negli States, e dopo tre settimane nel Regno Unito, The Dark Side of the Moon, uno dei capolavori assoluti del rock, nono album in studio, 943 settimane di permanenza in classifica, oltre 50 milioni di copie vendute, rientrato nella Billboard Top 200 nel 2019, a 46 anni dall’uscita.

Lloyd Grossman, nella sua recensione di The Dark Side, scriveva nel 1973 su Rolling Stone: «Più che un album di canzoni appare come un singolo pezzo esteso, che sembra parlare della fugacità e della depravazione della vita umana, argomento non proprio tipico del rock». Unica critica, proprio per trovare il pelo nell’uovo, Grossman la rivolge proprio alla voce di Gilmour in The Great Gig in the Sky (traccia che chiudeva il primo lato del vinile) secondo lui troppo debole e spenta.

In realtà questo brano resta uno dei più famosi della band, grazie anche all’intervento di Clare Torry, vocalist chiamata da Alan Parsons, producer e tecnico del suono agli Abbey Road Studios di Londra, dove venne registrato l’album. Il suo assolo intrigante e forte, che sembrava provenire da un’altra dimensione, è impresso nella mente di intere generazioni. Come il sax di Dick Perry in Money e nella spettacolare Us and Them.

In marzo, rispettivamente il 21 del 1983 e il 28 del 1994 i Pink Floyd pubblicarono The Final Cut e The Division Bell. Quest’ultimo è l’album che in un certo modo ratifica la rottura con Roger Waters, avvenuta sette anni prima: qui Gilmour, Wright e Mason costruiscono un nuovo capitolo della storia musicale del gruppo, senza l’influenza del geniale bassista e compositore.

Comunque sia, per chi ne avesse voglia, tutti questi anniversari sono l’occasione per riascoltare nel fine settimana una band leggendaria. Una full immersion nella psichedelia di Gilmour e soci, al di là del tempo e dello spazio.

10 febbraio 1971: Carole King fa la storia del pop

Mentre l’America piange la scomparsa di Mary Wilson, 76 anni, l’ex The Supremes (gruppo fondato insieme a Flo Ballard, che morì a 32 anni nel 1976, e a Diana Ross), oggi la musica festeggia il cinquantesimo anniversario dell’uscita di un disco dirimente nella storia del rock/pop. Sto parlando di Tapestry. L’autrice è Carole King. Il disco va nei negozi il 10 febbraio 1971: il giorno prima Carole compiva 29 anni ed era già considerata una delle artiste più influenti del panorama musicale americano, sulla scia di Joni Mitchell. Un album di successo, che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo, 10 milioni solo negli States, ed è stato in vetta alle classifiche per mesi. Insomma, il disco perfetto, che ogni artista vorrebbe scrivere e pubblicare.

Tapestry è il suo secondo album. Il giorno dell’uscita, dalle pagine di Rolling Stone, il mitico Jon Landau attaccava così il suo lungo pezzo di recensione al disco: «Il secondo album di Carole King, Tapestry, ha mantenuto la promessa del suo primo (Writer, pubblicato nel maggio del 1970, ndr) e ha confermato che lei è una delle figure più creative di tutta la musica pop. È un album di incredibile intimità personale e fattura musicale e un lavoro proteso a uno scopo artistico. È anche facile da ascoltare e altrettanto facile da godere».

Chi non ricorda I Feel The Earth Move, brano che apre l’album, con quell’attacco al piano pulito, deciso, ritmico molto R&B? Il dialogo tra piano e chitarra elettrica è da manuale. E poi, a scendere, It’s To Late, o la struggente Way Over Yonder e, subito dopo, You’ve got a Friend, uno dei brani più famosi di sempre. Carole la regalò all’amico James Taylor che la rese immortale. E ancora, Where you Lead, brano che, molti anni dopo, ha fatto da colonna sonora a una fortunata serie tv,  Gilmore Girls, in Italia Una mamma per amica, dove la stessa musicista è apparsa in qualche puntata. Continuando, anche il brano che dà il titolo all’album, Tapestry, è uno dei pezzi “storici” del pop, per chiudere con (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, canzone che la King scrisse per Aretha Franklin e che diventò uno dei cavalli di battaglia di Lady Soul.

Una creatività incredibile quella di Carole King, newyorkese, figlia di una insegnante di pianoforte e di un vigile del fuoco, merito anche del suo legame con Gerry Goffin, suo ex marito, con il quale, oltre a due figlie, fecero nascere brani indimenticabili per molti artisti. La ditta King&Goffin scrisse anche per i The Animals Don’t Bring Me Down, grande successo del 1966, per i The Herman’s Hermits, I’m Into Something Good, del 1964 (Carole aveva 22 anni), per i The Righteous Brothers, For Once In My Life, (1965), per i The Byrds, I Wasn’t Born To Follow

Oggi, in questa giornata piovosa (almeno a Milano), grigia e triste riandare indietro nel tempo e ascoltare l’intero album, è un esercizio di memoria e ricordi, di nostalgie e buona musica. Già, una gran buona musica…

Giornata della memoria: Francesco Lotoro e la musica “concentrazionaria”

Delle poche cose che mia madre ricordava, ragazzina in Friuli negli anni del secondo conflitto mondiale, a parte la fame, il nulla imposto dalla guerra, il terrore del rombo degli aerei che venivano a bombardare (trauma che l’ha convinta a non salire mai a bordo di un aereo e che si è portata sino alla morte), c’era il ricordo dei treni dei deportati diretti ai campi di concentramento, che facevano sosta nella stazione del paese dove viveva. Era un ricordo meticoloso, quasi un’imposizione per non dimenticare, così vivido da materializzarsi. L’ho immaginato tante volte, prima con la mente di un bimbo e poi con quella di un adulto, come se fossi lì anch’io. Ancora oggi che mia mamma non c’è più, rivedo quelle scene, le urla di richiamo e aiuto dei prigionieri rinchiusi nei carri bestiame, perché questo erano, le mani che si allungavano oltre le strette ferritoie poste in alto, mani affusolate, mani piccole, mani callose, mani che chiedevano cibo, acqua, o anche solo una carezza. E il paese si mobilitava con generi di conforto, quel poco che c’era nel niente assoluto.

Sono passati quasi 80 anni da quegli eventi, i sopravvissuti dei lager sono ormai pochissimi, il tempo fa il suo corso. L’orrore dell’olocausto è diventato un’ansia mentale intorpidita; il racconto serve a tenere vive le putrefazioni a cui l’uomo può arrivare, poiché ce ne dimentichiamo troppo spesso.

A questo serve la giornata della memoria. Almeno un giorno all’anno ci viene imposto di pensare che, nemmeno un secolo fa, sono state commesse atrocità senza fine, sono state cancellate milioni di vite, famiglie, amori, passioni, storie…

E arrivo al punto di oggi: sì, anche questa volta c’entra la musica. Anzi, la musica è la protagonista. Perché lo è stata nei campi di detenzione, di sterminio, di rieducazione – e non solo nazisti. C’è un musicista italiano, che certamente molti di voi conosceranno, che da oltre trent’anni sta dedicando la sua vita e la sua professione alla causa: raccogliere opere, canzoni, spartiti, brani, partiture scritte su fogli musicali, altre annotate su carta igienica o pezzi di tessuto, altre tramandate oralmente. Musica come resilienza, musica come anelito di libertà, musica come scansione delle attività giornaliere nei campi, anche quelle terribili, musica per salvare la propria mente e la vita.

Parigi. Wally Lowenthal Karveno e Francesco Lotoro con in mano l’autografo del “Concertino per pianoforte e orchestra da camera” scritto a Gurs – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

Ho trovato la “missione” di Francesco Lotoro, classe 1964, musicista di Barletta, pianista, compositore e direttore d’orchestra, docente di pianoforte presso il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, un enorme atto d’amore, verso chi è stato privato della libertà, torturato e massacrato ma anche verso la musica stessa.

Avere la possibilità di riascoltare quello che è stato scritto nei campi, una musica che potremmo definire sicuramente nuova, “concentrazionaria” come è stata battezzata, è una delle concrete possibilità per non dimenticare, testimonianza diretta e reale delle atrocità commesse. Francesco Lotoro lavora per questo, perché le prossime generazioni possano “ascoltare” la cruda realtà di quello che l’essere umano è riuscito a concepire ma anche cogliere la creatività e la necessità di vedere la propria esistenza oltre i confini di un lager nazista. Musica per evadere, per volare, per fissare momenti “resistenti”. Nel 2017 il regista franco-argentino Alexandre Valenti ha dedicato a Francesco un docufilmMaestro, una coproduzione italo-francese.

Gli ho scritto se potevo intervistarlo, mi ha risposto immediatamente. Ne è nata una lunga e intensa chiacchierata…

Francesco come è iniziato tutto ciò?
«Ho cominciato nel 1988, spinto da molti elementi giovanili, passioni, curiosità. Mi mancava la visione d’insieme di ciò a cui stavo andando incontro… I primi quattro anni cercavo solo musiche composte da musicisti ebrei. Mano a mano che contattavo persone, le incontravo, mi documentavo, lavoravo con l’aiuto di tutor perché trovavo manoscritti scritti in diverse lingue, catalogavo, suonano, eseguivo le partiture, sono passati gli anni e mi sono accorto che questa ricerca si era mangiata un po’ tutto della mia vita. Non era prevedibile. Sono arrivato a migliaia di opere catalogate e non è ancora finita…CI vogliono tante risorse ancora per finire il lungo lavoro».

Come musicista che idea ti sei fatto?
«Sono un pianista e ciò mi ha aiutato a cercare un repertorio pianistico denso di linguaggi molto avanzati, che andavano persino oltre Arnold Schönberg (il compositore austriaco naturalizzato americano, considerato dirimente per aver scritto musica al di fuori dalle regole del sistema tonale, ndr).

Charles Abeles, prima pagina del Valzer Rondo Felicità op.282 – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

Negli anni hai contribuito a creare un’orchestra, l’Orchestra di Musica Concentrationaria, con la quale hai inciso un’enciclopedia in 24 volumi CD KZ Musik, contenente 407 opere scritte da prigionieri civili e militari in quel periodo…
«L’ossigeno della ricerca e la sua bellezza estetica è suonare molta di questa musica. Sai, ho sempre pensato che eseguirla sia un gesto magico, liberarla dai campi, in una sorta di redenzione».

Quando pensiamo ai campi di concentramento spesso ci facciamo dei “film” errati…
«I campi di concentramento, internamento, sterminio erano realtà metropolitane zippate, con elementi di eterogeneità. L’elemento artistico ha fatto scattare connessioni tra gruppi sociali e linguistici. Nel campo di Birkenau (Auschwitz II), per esempio, è impossibile distinguere tra musica ebraica e musica rom. La promiscuità nel gergo artistico è illuminante, fertile. Capitava anche che i musicisti prestassero i loro strumenti ad altri musicisti, come è successo nel campo di Sandbostel quando i francesi che stavano nello Stalag XB dettero più volte il violoncello a Giuseppe Selmi, grande violoncellista, compositore e didatta italiano (Selmi ha scritto in prigionia molte partiture per violoncello e il meraviglioso Concerto Spirituale per violoncello e orchestra, ndr) che stava nell’attiguo Stalag XA» (Selmi, come scrive lo stesso Francesco, «si esibì per i prigionieri italiani in un intero concerto imbracciando un violino a mo’ di violoncello…»).

Ci sono stati anche sodalizi gloriosi e proficui nei campi, come quello di Giovannino Guareschi e Arturo Coppola…
«Sono nati brani bellissimi. Prendi La favola di Natale che Guareschi scrisse nel 1944 nel campo di Sandbostel e Coppola mise in musica, è un’opera straordinaria e così poco rappresentata oggi. Coppola scrisse molti altri brani, come Treviso (la città in cui passò maggior parte della sua vita, ndr) quando seppe del bombardamento sulla città, molti mesi dopo l’avvenimento. Da ricordare anche Dai Dai Bepin, un’esortazione a Stalin che si muovesse in fretta per liberarli dalla prigionia…».

Gerusalemme. Francesco Lotoro con il pianista e compositore Alex Tamir, sopravvissuto al Ghetto di Vilnius – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

Quanto ha influito la privazione della libertà sui musicisti e sulle partiture composte?
«Il musicista in prigionia componeva per esorcizzare il campo, l’ambiente non influiva, dunque, più del necessario sui criteri architettonici della composizione. Il campo c’è, attraversa la musica, ma il musicista è ancorato alle proprie visioni, alla propria storia. Il dramma esiste, ma in chiaroscuro, il musicista in questo modo vuole annichilire il campo. Spesso, sono stati gli stessi musicisti prigionieri a costringere i loro carcerieri ad acquistare strumenti musicali, fogli per scrivere partiture, a farsi esentare dal lavoro per dedicarsi alla composizione».

La musica faceva vedere la prigionia in un altro modo…
«Hai presente l’orchestra del Titanic che non smetteva di suonare mentre il transatlantico affondava? O Pau Casals il grande violoncellista catalano, che si esibiva anche durante il regime franchista perché mai come in quei momenti la gente aveva bisogno della musica? Così era nei campi. Ogni musicista ha portato nella prigionia la propria esperienza, che è rimasta patrimonio del luogo. L’elemento campo ha modificato, evoluto, deteriorato, agito da drenante, intaccato certe corde, certe sensibilità. Gli artisti sopravvissuti alla prigionia, una volta liberi, sono diventati fondamentalmente diversi, hanno voluto cancellare completamente la detenzione. Ci sono dolori che vengono redenti in maniera diversa. Di per sé nei campi abbiamo avuto lo sviluppo, l’estremizzazione, la radicalizzazione di certi linguaggi, forme brecktiane possibili solo perché, appunto, nate all’interno del campo».

Quindi la musica è stata tante cose: un atto di liberazione, una forma di rigore mentale e pure la summa di colonne sonore della vita quotidiana nei campi…
«A Buchenwald c’era un’orchestra di 80 elementi. Auschwitz, nelle sue tre declinazioni, il campo principale (I), Birchenau (II) e Monowitz (III) contava ben sette orchestre. D’opposto, Hans Gál (musicista viennese che fuggì dall’Austria nazista rifugiandosi in Gran Bretagna dove, per ironia della sorte venne recluso dagli inglesi che arrestarono gran parte dei profughi tedeschi scampati al regime, tra questi anche numerosi ebrei, ndr) nel campo di detenzione di Douglas, sull’isola di Man compose la Huyton Suite op.92 con gli strumenti che aveva a disposizione, un flauto e due violini».

Ma nella musica concentrazioanria c’era anche altro…
«È una musica sessista, divisa per genere. Orchestre maschili e orchestre femminili. Solo nel campo di Theresienstadt c’era un’orchestra mista. È stata poi usata per il più sublime e il più perverso degli scopi. Si suonava quando arrivavano i treni con i nuovi prigionieri e i nazisti facevano una selezione veloce delle persone: vecchi, malati, bambini venivano soppressi, gli altri in salute andavano ai lavori forzati. L’orchestra suonava quando il gruppo di deportati partiva e arrivava dal lavoro coatto. Suonava la domenica nei villaggi dei militari per rallegrare le passeggiate pomeridiane dei nazisti con le loro famiglie, ma suonava anche per i deportati…».

Berto Boccosi, prima pagina del quaderno di Saida (abbozzo dell’opera La Lettera Scarlatta) – courtesy Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, Barletta

La musica era dunque sempre concessa?
«Nei campi di detenzione dove c’erano ebrei si poteva scrivere musica, in quelli dove c’erano i prigionieri politici, no. In questo caso gli artisti memorizzavano ciò che componevano, o scrivevano le partiture sulla carta igienica o sui teli di juta, addirittura sulla terra, quando andavano a lavorare nei campi di patate. Ognuno dei detenuti imparava a memoria quattro battute e poi la sera venivano trascritte su mezzi di fortuna. Ma non dobbiamo pensare a gesti di magnanimità da parte dei carcerieri. Il polacco Artur Gold, per esempio, famosissimo musicista, una delle star del tempo, venne arrestato e deportato a Treblinka. Fu ricevuto dal comandante del campo con tutti gli onori, gli venne concessa un’orchestra con cui allietò i militari, poi venne messo a morte. La negazione di ogni logica. Al musicista non poteva che rimanere la sua musica, poteva contare solo su quella».

Venendo a oggi, dopo trent’anni di lavoro, qualcuno ti ha chiamato lo Sherlock Holmes della musica, che valore ha questo enorme patrimonio che stai raccogliendo?
«Sono convinto che questa sia una musica di portata universale. Per completare il quadro ci vorranno ancora 15, 20 anni. Siamo ben oltre gli ottomila brani raccolti e catalogati e ogni settimana arrivano partiture, segnalazioni, note all’ILMC, l’Istituto di Letteratura Musicale Concentrationaria. Con il lockdown ho smesso di viaggiare ma presto spero di ritornare a intervistare, raccogliere, ascoltare. Dovrei andare in Francia dove c’è una testimone che mi aspetta, appena il virus lo permetterà volerò a Parigi. Questa musica è come se fosse stata chiusa in una capsula del tempo. Ti ricordi il film con Nicolas Cage Segnali dal Futuro? Ecco, la musica concentrazionaria è chiusa lì dentro, non si è mai interfacciata con la musica a lei contemporanea, è tanto simile quanto differente. Credo che abbia molto da darci. Però, ne usufruiranno con quotidianità le generazioni future, tra venti o trent’anni».

E la capsula del tempo dovrebbe trovare posto a Barletta in un’ex distilleria, giusto? Sono anni che se ne parla…
«Nel 2016 partecipammo a un bando per la riqualificazione delle periferie, indetto dal governo Renzi. Barletta si candidò e sposò in pieno il progetto di una cittadella della musica concetrazionaria. Considero questo genere di musica in un periodo che va dal 1933 al 1953 includendo anche i gulag sovietici, praticamente fino alla morte di Stalin. Il nostro progetto arrivò dodicesimo. I primi 24 avrebbero avuto una sovvenzione statale. Che però è stata insufficiente. Quindi abbiamo atteso ancora e, se tutto andrà per il meglio, dovremmo inaugurarla nel 2024. Sarà un campus con biblioteca, museo, libreria, teatro, ristorante, due laboratori, un polo di studio della musica ebraica… allora sì, potremo finire la ricerca, ci vogliono altri fondi, è un lavoro enorme, ma che dobbiamo portare a termine».

Finisce qui la nostra lunga intervista. Non mi resta che darvi appuntamento a questa sera: in occasione del 76° anniversario della liberazione del Campo di sterminio di Auschwitz, vi consiglio il concerto registrato e trasmesso in streaming alle 19:30 sulla pagina Facebook della Città Metropolitana di Bari: una selezione di brani di musica concentrazionaria intitolata La B rovesciata – Il Testamento dell’universo concentrazionario, eseguito dall’Orchestra Sinfonica di Bari diretta da Francesco Lotoro. Le voci: Anna Maria Stella Pansini (soprano), Nico Sette (tenore), Angelo De Leonardis (baritono e voce narrante), Paolo Candido (voce maschile).

In memoria di Stevie Ray Vaughan…

Tra una decina di giorni, esattamente il 27 agosto, ricorreranno i trent’anni dalla morte di Stevie Ray Vaughan. Ebbene sì, dedico un post a questo mitico, dirimente e assolutamente incredibile chitarrista texano con il blues nel sangue, bianco di nascita ma nero tra i neri nell’arte del blues, come lo ricordava B.B. King, uno che è praticamente nato con la chitarra in mano e che, di questo strumento, ne ha fatto la sua vita, la sua professione e la sua arte.

Prima la cronaca: 27 agosto 1990, dopo appena tre album in studio di successo più uno live e il quarto in studio in divenire (verrà pubblicato l’anno dopo la sua morte, nel 1991, dieci tracce inedite incise tra il 1984 e il 1989, dal titolo The Sky is Crying), Stevie Ray partecipa a un concerto all’Alpine Valley Music Theater nel Wisconsin. Con lui si erano appena esibiti Mr. Eric Clapton, Buddy Guy, Robert Cray e il fratello Jimmie Vaughan, altro incredibile chitarrista blues – è stato grazie a lui, più anziano di alcuni anni, che il giovanissimo Stephen si era innamorato della chitarra elettrica. A fine spettacolo, Stevie insiste per prendere il posto di Clapton sull’elicottero che lo deve portare a Chicago. Era stanco, aveva sostenuto, voleva riposarsi. “Slowhand” acconsente, aspettando un passaggio successivo. Assieme al texano un paio di tecnici dello staff di Clapton. Colpa della nebbia e anche di un pilota non molto esperto in viaggi in simili condizioni atmosferiche, l’elicottero precipita e muoiono tutti. Della tragedia si saprà solo il mattino seguente.

Fine della carriera di Stevie Ray, il ragazzo del blues. Chissà cosa avrebbe fatto di bello e grande se il dio della musica gli avesse concesso ancora un po’ di tempo sulla terra. Lui e la sua Fender Strato, modello che si era adattato e che la casa americana fondata da Leo Fender stava studiando come special edition firmata SRV (uscirà nel 1992). Blues, ma anche rock, una mano felice, un modo tutto suo di pizzicare quelle corde da cui uscivano fraseggi ipnotizzanti. Con lui la chitarra piangeva, si straziava, diventava improvvisamente allegra, cavalcava le onde su centinaia di note che il virtuoso suonava con una facilità senza precedenti. Chissà cosa sarebbe diventato SRV: avrebbe ceduto alle mode o sarebbe rimasto quel texano tutto di un pezzo, cappello a larghe tese e stivaloni tirati a lucido d’ordinanza?

Lui, scoperto per puro caso da Mick Jagger che lo segnalò al produttore Jerry Wexler. Quest’ultimo nel 1982 lo porta al festival di Montreaux assieme ai suoi Double Trouble, al secolo, Tommy Shannon al basso, Chris Layton alla batteria e Reese Wynans alle tastiere, ultimo arrivato e membro di diritto aggiunto al forsennato trio chitarra-basso-batteria con cui Stevie aveva dato inizio alla sua fortunata quanto veloce carriera da star. In Svizzera la band si prende sonore fischiate, troppo fuori dal coro per un festival d’essai.

Quella sera, ad ascoltarlo, c’era anche David Bowie che lo coinvolse nel suo album Let’s Dance (collaborazione che non finì molto bene…). Ma torniamo al texano: Stevie Ray nella sua breve e intensa carriera ha “violato” un altro tempio del jazz, molto più aperto del precedente, Umbria Jazz. E lì io c’ero. Era il 14 luglio 1985, una domenica sera. Ero andato apposta con alcuni amici per vedere l’asso del blues esibirsi dal vivo. Quell’edizione è stata davvero straordinaria. Il 7 luglio aveva suonato Miles Davis, allo stadio Renato Curi (saranno quattro le partecipazioni del trombettista a UJ). Con lui il grande John Scofield alla chitarra.

Quella domenica Perugia ha visto e ascoltato grande musica. Prima della star che doveva chiudere la serata, Stevie Ray, appunto, aveva suonato Art Blakey con i suoi Jazz Messengers. Sia Stevie Ray sia Art se ne andranno lo stesso anno, il 1990, il primo ad agosto, il secondo a ottobre. Miles Davis, invece, morirà l’anno successivo, il 28 settembre. Un paio di mesi prima aveva tenuto il suo ultimo concerto in Italia, a Castelfranco Veneto.

Tornando in piazza IV novembre a Perugia, ricordo che Stevie Ray e i suoi Double Trouble iniziarono il concerto tradissimo, problemi di check sound. I muri di amplificatori, non ricordo, ma probabilmente erano dei Marshall, non rispondevano come il texano desiderava. Alla fine, quasi all’una del mattino il suono acuto della sua Fender s’è alzato nel cielo stellato di Perugia. Dopo un paio di pezzi i puristi del jazz avevano lasciato sdegnosamente la piazza. Noi siamo rimasti lì, incollati e ipnotizzati a quei fraseggi blues dove, nella tecnica di assoli si intravvedeva anche il jazz ma usciva prepotente molto il rock. Musica tirata fino alle tre del mattino. Grande concerto e onore agli organizzatori che avevano scelto la strada delle contaminazioni, poi rivelatasi vincente. Non so se Vaughan fosse ubriaco o fatto – sinceramente, erano affari suoi! –  so che quella lunga notte è stata un’immersione di note e stili, un turbinio continuo, ricco, opulento, sontuoso, culminato nella sua personale versione di Voodoo Child (Slight Return) di Hendrix, lui con l’inseparabile cappello da cow boy e gli stivaloni a punta stretta, bianchi, e quella chitarra che maneggiava a volte come una piuma altre come una scure. Sono quelle cose che ti porti scolpite nel cuore e che, quando affiorano ti provocano nostalgia, passione, tristezza, felicità. Anche dopo trenta lunghi anni. Per questo vi ho parlato di Stephen Ray Vaughan, il virtuoso del blues. Un atto dovuto.

Breaknotes/ Due compleanni e un necrologio…

Ci sono momenti in cui ricordare, nella felicità e nella tristezza, è un obbligo. E oggi è uno di quei momenti. Un capitolo tutto rock, dedicato a tre personaggi che hanno contribuito a creare quelle leggende, quella musica, quelle perfette imperfezioni che genericamente riassumiamo nella categoria “Rock”.

Ma qui c’entra anche il blues, la sperimentazione, l’estro, il carattere e sì, anche le malattie. Ieri, 25 luglio, nel tardo pomeriggio è arrivata la notizia di un addio: Peter Green (Greenbaum il suo vero cognome), mitica chitarra dei Bluesbreakers di John Mayall dopo che Eric Clapton aveva lasciato la band per fondare i Cream, se n’è andato nel sonno a 73 anni. Così ha dichiarato la sua famiglia. Con Mick Fleetwood, John McVie e Jeremy Spencer nel 1967 ha dato vita ai Fleetwood Mac, per lasciarli nel 1970. Lo stesso anno ha pubblicato il suo primo album da solista, The End of the Game, una cavalcata di blues psichedelico, musica d’avanguardia, molto ben confezionata (ascoltate Descending Scale per capirlo). Quindi scompare per quasi dieci anni durante i quali viene ricoverato per la sua schizofrenia e si sbarazza di tutto, persino della sua chitarra, donata a Gary Moore, altro asso del blues inglese.

Lo ha ricordato Cat Stevens/Yousuf in un tweet ieri: «God bless the ineffable Peter Green, one of the unsung heroes of musical integrity, innovation and spirit. When I heard he left Fleetwood Mac in 1970 to get a real life and donate his wealth to charity, he became something of a model for me».

A Rolling Stones Mick Fleetwood ha affidato un ricordo: “Per me e per ogni singolo membro che ha fatto parte dei Fleetwood Mac perdere Peter Green è “monumental”, un evento enorme». E ha continuato: «Nessuno è mai entrato nei Fleetwood Mac senza portare il rispetto dovuto a Peter Green e al suo talento».

Veniamo alle notizie più felici. Oggi 26 luglio, compiono gli anni due rockstar, entrambe determinanti nel loro ruolo per le rispettive band – e anche per la musica. Nel 1943 nasceva a Dartford nella contea di Kent, UK, Sir Michael Philip Jagger, per tutti Mick. Il frontman di una delle band più famose nella storia del rock compie 77 anni. E di questi, ben 57 li ha passati nei Rolling Stones, con le eccezioni delle esperienze soliste. Rolling Stone, il magazine di musica rock, maniaco di classifiche, lo ha posto nei primi venti più famosi cantanti rock di sempre, al 16esimo per essere esatti.

L’altra mitica rockstar a spegnere le candeline è Roger Taylor, classe 1949. Il batterista dei Queen festeggia i suoi 71 anni. Due figure per certi versi simili: maniacali nel loro modo di lavorare, creativi, il primo estremamente appariscente, sempre primadonna, il secondo ingranaggio perfetto nella sua band, complemento essenziale al servizio di uno dei gruppi più longevi e conosciuti al mondo.

Mi bastava ricordarli. Mi sono soffermato di più su Peter Green, lo meritava. Di Mick e Roger tutti sanno tutto, leggende incluse. Se ne avete voglia  – e a me è venuta – e non avete di meglio da fare in spiaggia o in montagna, andate sul vostro “hub” preferito ed ascoltatevi i tre monumenti del rock in azione. Una domenica all’insegna del rock, del blues e della psichedelia. Buon pomeriggio a tutti!