Roberta Giallo, ovvero la poetica della vita tra Lucio e l’Arte

Roberta Giallo – Foto Valerio Mengoli

 

Oggi leggerete una bella storia. Ha a che fare con quel geniaccio di Lucio Dalla e con la bravura di un’artista baciata dagli dei della musica. Ritorno al musicista bolognese, visto che settimana scorsa vi avevo presentato Caro Lucio rispondo, l’album di Sergio Rossomalpelo Gaggiotti, un intero disco-risposta a una famosa lettera-canzone di Lucio, L’Anno che verrà.

La protagonista del post è un’artista completa, compone, suona, canta, è attrice di cinema e teatro, scrittrice, pittrice, una di quelle persone con cui parlare è sempre una bella, grande avventura: Roberta Giallo. Marchigiana di nascita, bolognese d’adozione, ha pubblicato, lo stesso giorno di Rossomalpelo, il 4 marzo scorso, un brano dedicato a Lucio e alla sua Bologna dal titolo La città di Lucio Dalla (Tgcom24.it, la testata che ospita il sottoscritto e Musicabile, ha pubblicato in anteprima il video che potete vedere qui).

Su Dalla e su quello che aveva consegnato alla mia generazione avevo scritto uno dei miei primi post un paio d’anni fa. Intervistare, anzi, chiacchierare con Roberta, una di quelle sane “parlate” che sono possibili solo quando ci si sente a proprio agio, mi ha confermato quanto il lascito di Lucio sia stato importante. Una conversazione fitta, dove è emersa un’artista dotata di grande creatività ma anche di altri mille interessi, una mente mai ferma, una donna che non ha mai smesso di sognare che canalizza nella musica, nella scrittura, nella pittura, nel teatro, nel cinema e chissà in cos’altro ancora, tutte le sue energie. La creatività viene dalla fantasia, dall’esercitare ogni giorno quella parte ribelle di noi che vuole vivere i propri sogni.

Artista di grande esperienza, usa la voce con una naturalezza disarmante. Se la ascoltate in Anidride Solforosa, bellissimo pezzo firmato Dalla/Roversi, incluso in un disco – dal titolo Vicina Vicina – registrato in presa diretta e pubblicato sotto lockdown nel 2020, Roberta riesce a rendere la sensazione di quella nube tossica che soffoca la società, che poi è lo smarrimento dell’uomo, raspando la melodia, grattandola, scalfendola, seghettandola.

Se, poi, non avete ancora ascoltato Canzoni da Museo, album dello scorso anno dove ha musicato nove poesie di Giovanni Gastel, Roberto Roversi e Davide Rondoni, fatelo! Fossi stato allevato dalle scimmie di Gastel è l’ironico brano che introduce un percorso poetico e sonoro di grande delicatezza e attualità…

Roberta, non possiamo non iniziare da Lucio Dalla…
«È stato una persona e un artista straordinario che la vita ha messo sulla mia strada. Un po’ per destino, un po’ perché si finisce per incontrare sempre ciò che si ama. Arrivata a Bologna avevo conosciuto Mauro Malavasi (musicista, produttore, amico e collaboratore di Dalla, ndr). Con lui avevo avviato un percorso professionale, sfociato poi in una grande amicizia. Avevo in testa un progetto composito (disco, romanzo e spettacolo teatrale) che riguardava una mia storia personale (lo scoprirete tra un po’, ndr). Malavasi mi disse: “L’unico artista che può capirti è Lucio Dalla”. Gliene parlò e Lucio volle conoscermi, così mi invitò a cena. Da quella sera è iniziato un bellissimo viaggio di conoscenza, sia umana sia artistica. Il nostro rapporto non si limitava a una mera collaborazione professionale, il mentore affermatissimo che consigliava una giovane artista, ma era diventato un… legame familiare. Ero spesso a casa sua e lui a casa mia… A volte, semplificando, dico che Lucio per me è stato un po’ il mago di Oz, mi ha aiutato a realizzare sogni grandi, mi ha dato il coraggio, quel po’ di intraprendenza in più che mi mancava. Mi diceva: “Sbaglia e impara… non aver paura di quello che dicono gli altri”.

Quando hai scoperto la musica?
«Dacchè ho memoria di me stessa, ho sempre cantato e suonato. La mia prima lezione di pianoforte l’ho fatta a quattro anni e mezzo. A tre cantavo con mio papà, con in mano una specie di microfonino, La Casetta in Canadà! Ho iniziato a studiare piano in modo rigoroso con un’insegnante polacca che seguiva il metodo russo. Nonostante ciò, riuscivo a ritagliare sempre uno spazio per improvvisare. Dopo sette anni di piano ho capito che il conservatorio a cui ero destinata, non era la mia strada. Volevo sperimentare cose mie. Ed è proprio quello che sono diventata: una cantautrice aperta a tanto altro, mi sento bene così, perché trovo stimolo da più arti».

Prima di attrice, scrittrice, pittrice sei una musicista…
«Sono definizioni che uso per semplificare. Mi definisco, scherzando, cantautrice italiena, perché diversa e trasversale. Sono cantautrice ma anche interprete. Ho le mie canzoni, percorsi da interprete, percorsi in teatro dove divento performer. Anche il teatro-canzone è una formula che in qualche modo ben mi si accosta. Nella canzone porto sempre un racconto come chiave, una dimensione dove mi ritrovo…».

I tuoi lavori contengono narrazioni compiute, vedi Vicina Vicina: hai scelto tre cantautori a te affini, Dalla, De Andrè e Tenco diventati un filo conduttore…
«Credo che, ancor prima di me stessa, venga l’opera. Noi artisti siamo solo un veicolo, qualunque cosa facciamo. Dobbiamo promuovere la nostra immagine per far conoscere ciò che abbiamo creato, ovviamente solo se speriamo e pensiamo che stiamo lavorando per cose grandi. Lo stesso vale per gli album: non ho mai pensato a un greatest hits, piuttosto a un concept album. Ciò viene dal mio amore per l’arte figurativa, un viaggio compiuto che fai dall’inizio alla fine, per dare valore all’opera, sia esso un disco o una pièce teatrale».

La Città di Lucio Dalla farà parte di un nuovo album?
«Domanda interessante. Questa canzone è nata veramente per i fatti suoi. Quando Lucio ci lasciò, provai un grande dolore. Fu una botta incredibile, persi un amico e un mentore. Sprofondai nel silenzio. Scrissi la canzone un paio di giorni dopo la sua morte, per lui e per Bologna che mi aveva permesso di ospitarmi e di farmelo conoscere. L’ho ritirata fuori dopo tanti anni dallo scrigno della memoria, l’avevo tenuta lì per pudore. La ferita era troppo fresca, ne stavano parlando già in tanti… Oggi che questa si è chiusa, posso ricordarlo come si merita. Quando ho deciso di pubblicarla, per l’arrangiamento ho pensato, e ne ho parlato con il produttore (Enrico Dolcetto, ndr), a una chiave che potesse raggiungere anche i più giovani, conservando però qull’aspetto più cantautorale, che è la mia cifra. Creare canzoni fuori dal tempo, attuali ma non così collocabili stilisticamente: la musica che sfugge al tempo. Immagino di inserirla nell’album che sto preparando, anche perché l’utilizzo di sperimentazioni elettroniche unite all’acustico possono far nascere un bel progetto».

La tua musica è classificata in tanti modi, Alternative, WorldWide, Pop… In quale genere la identifichi?
«L’artista, poveraccio, ai giorni nostri deve essere un po’ influencer e un po’ prodotto da supermercato, avere attaccata un’etichetta. Quest’ultima te la devono incollare per forza se tu vuoi esistere nel mercato musicale. Anche se io non mi definissi me la affibbierebbero comunque. “Metti quello che vuoi”, mi dicono. Allora penso: sono pop, mi piace esserlo, sono per chi mi vuole ascoltare non mi considero un’elitaria della musica, cerco di fare cose belle, sentite. Quindi scelgo quelle “non definizioni”, che sono piuttosto larghe. La realtà è che sono molto curiosa, mi dedico a tante cose oltre la musica, quest’anno farò anche due film…».

Davide Rondoni sostiene che “la poesia mette a fuoco la vita”. Lo pensi anche per la musica?
«Il concetto di poesia di origine greca, oltre alle parole include la musica, che è un po’ come una divinità, estesa, non puoi controllarla né definirla fino in fondo. Musica può essere anche un’astrazione, al di là di se stessa, il luogo delle muse. Quindi, sì, può mettere a fuoco la vita! Nel mio caso lo fa, ma con il rimando: la vita mette a fuoco la musica. Finita la fase di me adolescente che già scriveva canzoni attingendo da un universo fantastico (a 15 anni sembravo una donna di 40 anni, già sposata…), una volta diventata adulta ho sentito l’esigenza di mettere a fuoco sempre un mondo fantastico ma soprattutto una “lei” più matura, che ha vissuto la vita. C’è molta vita nei miei brani, prendi La città di Lucio Dalla. La canzone ha questa grande potenzialità è un mondo enorme, vago, dove ognuno ci vede quello che vuole».

Hai pubblicato un disco, Canzoni da Museo (2021), mettendo in musica alcune poesie di Giovanni Gastel, Davide Rondoni e Roberto Roversi. Questo continuo dialogo tra poesia e musica lo intendi nell’accezione ellenica o è una ricerca ulteriore, un immaginare l’arte in un modo più complesso?
«Grazie, domanda molto bella! Posso parlare di poesia almeno in due modi diversi: quella legata a canoni ben definiti, intesa come studio, e l’altra come approccio più poetico alla vita, che non esclude la prima, ma che è un modo di essere. Ci sono persone che trovo estremamente poetiche nel loro relazionarsi con la vita, l’amore, l’amicizia, per come percepiscono la natura e l’ambiente circostante. Fin da bambina avevo questa propensione poetica alla vita, mi vedevo come una donnina dell’Ottocento. Ho una memoria – e probabilmente anche una nostalgia – di un passato che non ho vissuto, o magari l’ho vissuto in un’altra epoca! Quando scrivo musica uso, dunque, un approccio poetico. Comporre un brano per me non è un atto commerciale. Rispetto chi lo considera tale, ma io faccio tutt’altro, sono  due lavori diversi. L’arte non può essere delimitata da troppi paletti. In questo senso mi definisco poetica, riuscire ad arrivare alla cellula primigenia che fa scaturire una canzone, un testo, un quadro, creare legati a un sentimento. Alla fine mi occuperò anche della collocazione sul mercato, dell’etichetta… Gli antichi greci parlavano di Daimon, il demone che ispira l’artista: cerco sempre di rintracciare il mio. Altra cosa se devi scrivere su commissione, allora lì viene fuori il mestiere. La poesia c’è nelle situazioni di decadenza e in quelle pompose, è il nostro occhio che può coglierla».

Questo tuo modo d’essere è stato influenzato dalla famiglia?
«L’ambiente è importante, anche se poi c’è un quid che sfugge: ci sono fratelli educati allo stesso modo che diventano l’opposto uno dell’altro. Sono nata in una famiglia dove mia mamma è stata il viatico perché l’arte diventasse per me importante. Lei è una pittrice, insegnava in una scuola d’arte. Quando era incinta, ascoltava tanta musica classica convinta che mi facesse bene. Mi parlava molto della cultura classica, mi ha preparata ad amare tutto questo. Non lo ha fatto, invece, con il mondo. A scuola sono arrivata con un’educazione da “donnina ottocentesca”. Se non non è stato un problema alle elementari, lo è diventato poi. Ho frequentato il classico e l’università, filosofia. Al liceo ero vista come una giovane “strana”. I ragazzi pensavano a uscire mentre io, già a 11 anni, frequentavo il coro polifonico, dove si cantava musica gregoriana. A parte alcune amicizie della mia età, ho preferito coltivare rapporti con persone più grandi di me: uno dei miei più grandi amici è stato il mio insegnante d’arte del liceo. Oggi posso dire che tutto ciò è stata la mia fortuna, ma ho avuto tante difficoltà nell’integrarmi con gli altri. Sono stata emarginata perché non trovavo coetanei con cui condividere le mie passioni. La musica è stata il mio rifugio. Per me è un modo per stare con gli altri, è ciò che mi permette di incontrare gente, la molla sociale che mi offre la mia professione è ciò che mi muove nel mondo, che mi dà un senso».

Il tuo primo lavoro, L’Oscurità di Guillaume a chi era dedicato? Ad Apollinaire, a de Machaut?
Roberta mostrandomi Web Love Story, un romanzo da lei pubblicato, mi spiega: «Si intitola in un altro modo, ma in realtà è la storia de L’Oscurità di Guillaume (2017). Guillaume era un ragazzo francese bellissimo che conobbi per caso appena finita l’università. La musica non mi dava ancora da vivere per cui lavoravo in un negozio di mobili. Si presentò questo giovane affascinante, ci scambiammo i numeri di telefono perché gli avevo raccontato dei miei sogni, della  mia voglia di fare musica e lui voleva ascoltarmi… Su Myspace avviai una corrispondenza – io da Bologna, lui dalla Francia: finalmente avevo trovato una sintonia, era anche lui un uomo dell’Ottocento! Iniziammo una corrispondenza molto bella, lui da quanto mi raccontava, aveva ancora una relazione aperta ma arrivata agli sgoccioli. Poi, mail dopo mail, sbocciò l’amore, si conversava su Skype per ore. Questa storia ebbe un finale tragico. Mauro Malavasi, a cui avevo raccontato tutta la vicenda, mi spinse a elaborare la tragedia scrivendo una sceneggiatura, raccontandola in musica. Ne fu così entusiasta che mi disse: “Solo Dalla può aiutarti a mettere insieme tutto questo”. Così Lucio ricevette la bozza della mia storia, ne rimase affascinato, ci incontrammo a cena e.. da lì nacque tutto».

Scusa se ritorno sulla tua storia d’amore, ma Guillaume l’ha poi ascoltato il disco?
«Non lo so. Dopo mesi e mesi di fitta corrispondenza Guillaume non si presentò all’incontro stabilito. Dovevamo andare in Francia a trascorrere quindici giorni e lui doveva venire a prendermi. L’ho atteso, invano. Il giorno dopo sono venuta a sapere che era morto in un incidente mentre veniva in Italia da me… A distanza di tempo ho dubitato molto di questa morte. Lui cessa d’esistere, i messaggi che gli avevo inviato in quelle ore non erano stati letti sul suo telefono. Dopo nove giorni, però, improvvisamente Whatsapp me li dava tutti spuntati. Si fece vivo un amico di Guillaume che mi confessò di essere innamorato di lui e che fu lui ad accendere il cellulare per cancellare certi suoi messaggi e a leggere i miei… Il mistero si infittì, tutti facevano le loro congetture, anche Lucio: sospettava che i due fossero già una coppia, lui si era preso una cotta per me e non sapeva come uscirne così avevano inscenato tutto… Dopo anni penso che lui sia ancora vivo, che l’amico innamorato fosse solo una sua invenzione e la morte una messa in scena per scomparire…».

Un libro, un disco: manca una serie crime alla Netflix…
(ride, ndr!) Perché no! Potrei cercare un regista e ampliare questo capitolo della mia vita. Per me continua a rimanere un mistero irrisolto…».

Qual è il filo conduttore del nuovo lavoro?
«Dopo le Canzoni da Museo, tornerò a un progetto al cento per cento cantato, reale. In cantiere ho sempre avuto tantissime canzoni, La città di Lucio Dalla è una di queste. La mia idea è scrivere e recuperare brani dal cassetto per raccontare una nuova storia. Questo è un momento molto stimolante per scrivere e offrire punti di vista, bisogna solo cercare alcune parole chiave. Inoltre, continuo con i miei spettacoli a teatro, Morirete Cinesi con Federico Rampini, e Il mio incontro con Lucio Dalla, con Ernesto Assante. Spero in un tour meglio strutturato, ma è molto difficoltoso, vista ancora la grande incertezza pandemica. A proposito di teatro canzone: alcuni giorni fa mi ha chiamato Francesco Baccini, abbiamo in mente di unire le forze per fare qualcosa insieme. Tanti buoni progetti nascono così…».

Caro Lucio rispondo… la “lettera” di Rossomalpelo a Lucio Dalla

L’altro giorno, con Dan Costa, siamo finiti a discutere di estetica della musica. Per il musicista italo-lusitano la musica non può avere interferenze, vedi il testo, perché questo “rovinerebbe”, anzi, interpreto meglio, “altererebbe” l’armonia e la purezza del suono. Visione più che legittima, se aprissimo un dibattito staremmo giorni a dire la nostra. Non per semplificare, ma c’è musica per ogni momento, un linguaggio che può assorbire altri linguaggi, e sta proprio qui la sua meraviglia! Per questo voglio condurvi, per dirla con i Pink Floyd, on the other side of the moon, per parlare non di melodie ma di parole, testi, poesie, estetica del linguaggio.

Me ne offre l’occasione un artista romano, una bella persona, di gran cultura e altrettanta passione, uno di quelli che usa la scrittura per far suonare la vita. Si chiama Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti. Di professione è musicista, paroliere, scrittore, sceneggiatore di testi teatrali, autore di colonne sonore. Nel suo lungo curriculum è stato pure arrangiatore e direttore artistico per il primo disco dei Presi per caso, gruppo musicale formato nel carcere di Rebibbia, attivo ancora oggi. Proprio questa settimana, Rossomalpelo è stato invitato dall’Instituto Cubano de la Música a esibirsi, in maggio, al festival Cubadisco, ma anche a tenere, con orchestre locali, una tournée sull’isola da cui nascerà un disco.

Mi ha incuriosito il suo ultimo lavoro uscito il 4 marzo: Carlo Lucio rispondo, album che risente fortemente della pandemia e dei lockdown, interpretati come smarrimento dell’oggi, dove in questo etereo benessere, l’arrivo di un virus, seppur bastardissimo, ha fatto saltare i concetti di libertà, condivisione, cultura, democrazia. La guerra di Putin, poi, non ha fatto altro che confermare la deriva di un mondo che ha perso i contatti con la realtà. Mi ha colpito il titolo dell’album, che richiama la frase iniziale de L’anno che Verrà, una delle canzoni più famose di Lucio Dalla, pubblicato nel 1979. Senza essere alla ricerca di facili protagonismi, visto il decennale della morte dell’artista bolognese, Sergio pensando a tutto quello che abbiamo passato e stiamo vivendo, ha trovato il modo per raccontare l’attualità rispondendo alla famosa lettera che Lucio indirizzò 43 anni fa e a cui nessuno, finora, aveva dato ufficialmente risposta.

Uno scambio epistolare, insomma. Dice: «Da piccolo ero rimasto colpito dal brano, uno che “canta una lettera”, ma anche dal fatto che nessuno si fosse pensato di dire: me lo chiedi? Ecco, ti spiego io cos’è successo».

Venendo al disco: sono 24 minuti e 15 secondi ricchi di considerazioni, c’è tristezza, apatia, ironia, allegria. Gaggiotti è riuscito a riassumere due anni di pandemia in nove, concentrati, flash. Un equilibrismo perfetto. In questa narrazione c’è una piccola perla alla Tenco, nel più elegante ermetismo, che ho apprezzato molto, appena 44 secondi dove è racchiuso tutto il senso della solitudine, della lontananza, del desiderio, Il Peso dell’Assenza:

Così è questo
il peso dell’assenza.
Il vuoto, disegnato in frasi articolate,
oggi diventa sostanza
si fa massa.
Lo spazio è occupato dal nulla
e restano pugni chiusi
al termine di queste braccia.

Il “tutti liberi” dal lockdown è descritto in Aprono i bar, ambientato a Roma, in un bar d’angolo, una bella giornata di sole, la gente che cammina, le auto percepite come “un ingorgo diffuso”, mentre Quarantella, la traccia finale, un romanesco spoken word, accompagnato da un riff iniziale alla Calibro 35, ricongiunge il tutto in una forma ironica ma sostanziale…

Hai scritto a Lucio una bella e composta “missiva”, in nove punti…
«Questa mancata risposta è stato un mio cruccio per molti anni. Non capivo perché un cantante, allora, avesse sentito l’esigenza di prendere carta e penna e scriverci. Ho aspettato tanto prima di rispondere e il lockdown mi ha convinto a farlo. Aveva immaginato un futuro migliore, invece…».

Com’è nato il disco?
«Ho fatto tutto da solo, sia per il lockdown sia perché l’ho presa come una cosa personale. E poi sono un “indipendente” non devi rendere conto a nessuno, faccio quello che mi pare. Così ho pensato di pubblicarlo il primo marzo, il giorno che Dalla se ne andò. Caro Lucio rispondo vuol essere una narrazione del nostro presente per ricordare ciò che lui aveva previsto per il futuro».

Veniamo alla musica e al cantautorato, come la vedi?
«La musica si è sempre divisa in due, quella mainstream e “l’altra”. Quest’ultima è sempre stata in opposizione alla cultura dominante. Negli anni di Dalla c’era ancora chi desiderava scoprire musica interessante, c’erano i talent scout che frequentavano i locali, andavano in cerca di artisti validi… infatti sono nati i vari Graziani, De Gregori, Fossati e tutti i cantautori di quella generazione. Oggi non vedo più questo interesse. L’assurdo è che mi chiamano dal Messico per andare a fare una tournée, ma devo declinare perché non ho i mezzi per potermi permettere una serie di date così lontano. Il mercato c’è, c’è chi ha voglia di ascoltarci. Ma è più facile puntare su una musica da consumo».

I tuoi concerti sono un po’ all’antica…
«Vado a suonare raccontando, mi piace partecipare con il pubblico, ridere con lui, parlarci. Non sono io il protagonista della serata ma le persone che hanno scelto di venire ad ascoltarmi. Credo, inoltre, che nella musica ci siano fasi cicliche, come nella storia. La gente ora ha voglia di ascoltare racconti, musica “per adulti”».

Condivido la tua analisi, anche perché c’è molto di più oltre ai dolori egocentrici di tanti giovani Werther…
«Quello che manca, e sarebbe psicologicamente da studiare, è un racconto sociale. Le visioni dei trapper non mi piacciono. La strada diversa esiste: artisti come me non sopravvivono, lavorano! Un mio singolo, Il mare mi salva, ha venduto nel mondo oltre 250mila copie. Quando uscì la playlist di papa Benedetto XVI e si scoprì che al quarto posto c’era il mio brano, ho iniziato a ricevere telefonate da tutto il mondo, richieste di concerti, persino dalle Hawaii. Mi son detto “‘Ammazza che so’, Elvis Presley?”… Un artista non ha bisogno di essere mainstream per guadagnare. Credo nel successo personale, la fama è un’altra cosa. Per questo vado avanti a raccontare la mia realtà da indipendente. Il mercato batte altre strade, deve occuparsi di persone che fanno vendere».

Come hai iniziato a suonare?
«Da autodidatta. A 16 anni ho preso in mano la mia prima chitarra, mi riusciva facile imparare, avevo orecchio, vedevo chi sapeva suonare e imparavo. A 20 anni ho saputo che c’era un’orchestra in cerca di musicisti. Così, da incosciente, mi ci sono fiondato. Durante le prove per ottenere il posto, finché s’è trattato di eseguire un brano tutti insieme è andato liscio, fingevo di leggere lo spartito invece andavo a orecchio. Il problema s’è manifestato quando è arrivato il momento di fare la mia parte, non sapendo leggere la musica non lo avevo capito. Ho fatto una figura così brutta che mi sono vergognato di me stesso, mi sono imbarazzato da solo!  Il direttore mi ha guardato e mi ha detto: “Impara a leggere e poi torna”»…

L’hai fatto?
«Certo, mi sono impegnato, mi sono iscritto al conservatorio, ho frequentato i primi tre anni di chitarra. Poi ho capito che la mia vera passione era la composizione. Mi piace scrivere per tutte le parti, chitarra, basso, pianoforte, batteria… Comunque sì, il direttore poi mi prese a suonare nell’orchestra. Avevo imparato la lezione».

Quando componi scrivi prima i testi o la musica?
«Ho l’esigenza di raccontare quello che sento e che vedo. Lavoro tanto sui testi fino a quando il mio “io” ipercritico non è soddisfatto. Poi adatto la musica al testo. Se sono in 4/4 e le parole non ci stanno, passo ai 9/4. Detto questo, la musica deve avere comunque un buon livello qualitativo».

La scrittura ti coinvolge molto…
«L’unica cosa che non oso affrontare è il romanzo. Scrivo racconti, ci sono narrazioni per le quali non basta una canzone. Il teatro mi piace molto, anche quello moderno, amo l’attore che non mi fa più sentire che sono a teatro, mi piacciono molto i monologhi. Scrivevo molto per il teatro e il cinema, ma i due anni di pandemia hanno bloccato questo flusso».

Curiosità personale, ma scrivi a penna o a computer?
«Le canzoni che le scrivo a mano, mentre i racconti al computer, altrimenti, conoscendomi, mi perderei tutti i fogli».

Domanda alla Marzullo e chiudo: c’è qualcosa che porti sempre con te?
«La mia chitarra, non esco senza! Mio padre me ne regalò una a 16 anni e dopo due mesi morì. Non osavo tirarla fuori dalla custodia. Ci sono voluti un paio d’anni perché mi decidessi a prenderla tra le mani. Per l’amore di quel gesto, ora la porto sempre con me. Non è la stessa, ne uso una, più piccola, una Parlor, ha un gran bel suono!».

Tanto per ricordare la lettera di speranza del grande Lucio e la risposta di Rossomalpelo, vi allego i testi…

L’Anno che verrà

Caro amico, ti scrivo, così mi distraggo un po’
E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò
Da quando sei partito c’è una grande novità
L’anno vecchio è finito, ormai
Ma qualcosa ancora qui non va
Si esce poco la sera, compreso quando è festa
E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra
E si sta senza parlare per intere settimane
E a quelli che hanno niente da dire
Del tempo ne rimane
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Porterà una trasformazione
E tutti quanti stiamo già aspettando
Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno
Ogni Cristo scenderà dalla croce
Anche gli uccelli faranno ritorno
Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno
Anche i muti potranno parlare
Mentre i sordi già lo fanno
E si farà l’amore, ognuno come gli va
Anche i preti potranno sposarsi
Ma soltanto a una certa età
E senza grandi disturbi qualcuno sparirà
Saranno forse i troppo furbi
E i cretini di ogni età
Vedi, caro amico, cosa ti scrivo e ti dico
E come sono contento
Di essere qui in questo momento
Vedi, vedi, vedi, vedi
Vedi caro amico cosa si deve inventare
Per poter riderci sopra
Per continuare a sperare
E se quest’anno poi passasse in un istante
Vedi amico mio
Come diventa importante
Che in questo istante ci sia anch’io
L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
Io mi sto preparando, è questa la novità

 

Caro Lucio rispondo
Caro Lucio rispondo, con molto ritardo
Ma qui le cose non vanno, stiamo ancora lottando
Aspettiamo che il mondo rinasca nel vuoto di giorni in cui non si esce
E non è più stato Natale
è soltanto un lunghissimo tempo sospeso nel vuoto
Al quale gli uccelli però, fanno ancora ritorno
Ma non ci sono preti che si sposano
E qualcuno crede ancora che ammazzare
Sia naturale conclusione di un amore
E non ci son più santi né uomini, che i capitani
fuggono e non si riesce a fermarli.

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso (x2)

Caro Lucio comunque qualcosa è cambiata davvero
Bergamo ha un Marzo rubato,
le sedie dei vecchi son vuote
E Rosso è di nuovo l’esatto contrario del bene
Ma è solo un lunghissimo tempo sospeso nel vuoto
Al quale gli uccelli, sicuro, fanno ancora ritorno
E anche se non ci sono preti che si sposano
Crediamo ancora nell’amore che non distingue generi
Ma si fa cogliere
E non ci son più santi né uomini, che i capitani
fingono e non si riesce a fermarli.

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso (x2)

Ecco, caro Lucio, non ho scritto forte come hai fatto tu
Che non son mai stato lontano
Ma ho ricordi, di vetri appannati e disegni e pomeriggi di capelli da contare
Con lo sguardo fino in fondo al buio di quel mare
Dove in fondo, nessuno, è mai solo davvero

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso

Sanremo 2021 e il Gioco dell’Oca…

Scrivo questo post mentre sto ascoltando l’ultimo lavoro di Paolo Simoni, Anima, uscito il 5 febbraio scorso, giorno del 36esimo compleanno del musicista di Comacchio. Simoni non pubblicava un album dal 2016. S’era dato da fare componendo per Gianni Morandi e Loredana Bertè e anche con la letteratura, pubblicando Un pesce rosso, due lesbiche e un camper per la Compagnia Editoriale Aliberti (2018), e facendo l’ospite dell’Infinito Tour di Roberto Vecchioni, due anni fa.

Lui e il pianoforte per dieci canzoni, la prima L’Anima Vuole, con un intervento proprio di Vecchioni, che raccontano speranze, sogni, amori, ansie, con ironia e una vena di drammatica verità. Paolo Simoni è uno dei tanti cantanti che ha visto il palco dell’Ariston a Sanremo, nel suo caso, nel 2013, con Le Parole.

Ieri sera, uno dei tanti, mi sono visto la prima serata del Festival edizione 2021. Sala per forza vuota, varietà allo stato puro – e non poteva essere altro – con il gran mattatore Fiorello, con Amadeus “soggiogato” da Ibrahimovic, con la brava Matilde De Angelis. Format impeccabile. La musica? Sonnolenta, fatta eccezione per pochi casi. Insomma niente di nuovo, nonostante i critici si affrettino a dare voti, fare classifiche, raccontare le esibizioni, sempre freddine per assenza di pubblico, cercando di tirar fuori il meglio anche dove il meglio non c’è.

È curioso come Sanremo sia da sempre un gioco di società, una sorta di Gioco dell’Oca, dove vai avanti e indietro ma sempre su un percorso ben definito. Disprezzato, amato, criticato, forzato, per certi versi innaturale, ma evidentemente in sintonia con il Paese.

A maggior ragione in questo momento, tra nuovi Decreti della Presidenza del Consiglio, scandalo mascherine, persone sollevate dagli incarichi, nuovo governo, chiusure e mezze chiusure, vaccini chissàquando, smart working, scuole chiuse, aperte, dipende dai contagi, Dad a manetta…

Sanremo è il buonismo, un mix dove trovano posto la denuncia per i femminicidi, le violenze contro le donne e la liberazione di Patrick Zaki, con l’esibizione della Bertè, che a 70 anni ha ancora una grinta da rocker mai in pensione, e le mise di Achille Lauro che a forza di stupire, non stupisce più. Cose talmente preoccupanti e dure passano tra un applauso, una canzone e un sorriso, lampi di vita reale citati in pochi secondi ma necessari allo spettacolo. Il tanto abusato The show must go on qui è d’obbligo.

«Non sono altro che un artista, un giocoliere di altre vite, con un fiato da centravanti e un cuore a dinamite…» canta Paolo Simoni in Non sono altro che un artista. L’Ariston è un palco difficile, lo dicono tutti quelli che lo hanno calcato. Eppure anche Laura Pausini, recente vincitrice di un Golden Globe come Miglior Canzone Originale per Io sì (Seen), brano tratto dal film La vita davanti a sé di Edoardo Ponti con protagonista Sofia Loren, ha fatto carriera grazie a Sanremo, edizione 1993 cantando La Solitudine. E prima di lei, Vasco Rossi, nel 1983 con Vita Spericolata: arrivò penultimo, brano non da Sanremo, che però contribuì a fare la fortuna del rocker di Zocca. O, ancora prima, nel 1971, un ventottenne Lucio Dalla cantò 4 marzo 1943: Lucio si classificò al terzo posto con un testo “ammorbidito” perché troppo audace… A dirla tutta, Dalla si trovava a suo agio a Sanremo: aveva partecipato giovanissimo all’edizione del 1966 con Pafff…Bum, brano troppo avanti per il tempo, all’edizione maledetta (quella della morte di Tenco) del 1967 con Bisogna saper perdere, e nel 1972 con la splendida Piazza Grande.

Ci sono anch’io dentro questo Gioco dell’Oca, visto che ne scrivo. Avrei potuto evitarlo? Può darsi. Ma il Festival è notizia e la notizia va data, nel mio caso, commentata. Guarderò anche stasera? Sì. Come diceva Francesco De Gregori – che non ha mai voluto partecipare come concorrente al Festival (anche se scrisse come autore Mariù, su musica di Ron, per Gianni Morandi, 1980) – nella sua La Leva Calcistica del ’68: Ma Nino non aver paura/ di sbagliare un calcio di rigore/ Non è mica da questi particolari/ che si giudica un giocatore… Andrò fino in fondo. In fin dei conti mi voglio vedere tutta la partita!

1980, l’anno del terremoto in Irpinia ma anche…

Il ricordo fa sempre presa. Ricordare fa bene, ti costringe a scavare nelle tue memorie, a ritrovare fatti accaduti che avevi messo in stand by. Oggi tocca al terremoto dell’Irpinia, quei 90 secondi di terrore che nella serata di quella domenica novembrina di calcio, castagne e copertina sul divano, fecero precipitare all’inferno il sud del Paese: 2914 morti, 8848 feriti, 350mila case crollate o seriamente danneggiate.

Sono quarant’anni che è successo. Il 1980 – si potrebbe dire per quasi tutti gli anni, ma in questo caso è più vero che mai – è stato uno spartiacque, un anno dove nel mondo sono successe tante cose importanti. A partire dal terremoto irpino, certo, ma anche in politica estera, nello sport, e soprattutto nella musica.

Mi sono sforzato di ricordare cosa stessi facendo nell’esatto istante della brutale scossa tellurica (è una mia mania-ossessione cercare di ricordare dove mi trovavo in un momento topico, fatto male, lo so…). L’unica ricordo che ho, a parte una colazione silenziosa con i miei amici dell’università la mattina dopo, era il mio walkman regalatomi da pochi mesi che stavo sfruttando al massimo. In quel periodo mi ero fissato con Nero a Metà, disco fondamentale di Pino Daniele (ascoltate A me me piace ‘o Blues), uscito il primo giorno di primavera di quell’anno. Avevo anche la cassetta di Dalla – qui Il Parco della Luna – altro album bellissimo dell’immenso Lucio uscito, se non ricordo male, il 1 gennaio (ai tempi giravo con una coppolina in lana che avevo costretto mia madre, santa donna, a “confezionarmela all’uncinetto” su misura, identica a quella fotografata nella cover dell’album, quest’ultima un bellissimo colpo di genio: Lucio a tutta coppola, con gli occhialini rotondi appoggiati sopra  e quegli occhi che spuntano, interrogativi e vivaci, all’insù).

Ritorniamo al 1980. Sempre il primo di gennaio usciva Seventeen Seconds dei Cure, disco da molti considerato uno dei migliori  della band di Robert Smith, se la gioca con Disintegration del 1989, (qui A Forest). Mentre il 3 vedeva la luce il primo LP dei Pretenders, che portava semplicemente il nome della band, ancora in attività. Vi ricordate la strasuonata Brass in Pocket?. Della formazione originale rimane solo la chitarrista e cantante Chrissie Hynde. I Peetenders hanno publicato un Ep dal titolo 2000 Miles proprio tre giorni fa.

E mentre la band angloamericana scalava le classifiche, Björn Borg furoreggiava a New York vincendo il suo primo ATP Masters Grand Prix di tennis. Salirà sul podio anche in Francia al Roland Garros a giugno e il mese successivo, a Wimbledon, dove disputerà una delle più belle partite della storia del tennis contro John McEnroe. L’americano si rifarà contro Borg agli US Open qualche mese dopo.

Rimbalziamo indietro a gennaio per un attimo: il 16, Paul McCartney, appena atterrato in Giappone, viene arrestato perché trovato in possesso di marijuana. Le cronache narrano che Sir Paul si fece nove giorni di galera, dove suonò per i poliziotti, cancellando – e risarcendo il pubblico – la tournée degli Wings nel Sol Levante…

Intanto la visionaria opera di Roger Water e dei Pink Floyd, The Wall, uscita a fine 1979, scala di prepotenza le classifiche di tutto il mondo (era uno dei nastri che ho consumato a forza d’ascoltarlo!), anche se in Sud Africa, sotto il regime dell’apartheid, a maggio, la seconda parte dell’album, quella che conteneva Comfortably Numb, per intenderci, viene bandita perché incitava alla rivolta.

E mentre Egitto e Israele si scambiavano gli ambasciatori iniziando per la prima volta le relazioni diplomatiche il 26 febbraio, dopo la firma del trattato di pace avvenuta 11 mesi prima, il 27 Billy Joel vince il Grammy Award per 52nd Street, album del 1978, vi ricordate Honesty, Rosalinda’s Eyes, My Life, Big Shot…?

In Italia, il 9 marzo Edoardo Bennato riempiva gli scaffali dei negozi con Sono solo Canzonette, uno dei suoi lavori più fortunati. La storia di Peter Pan fa presa. Come dimenticare L’Isola che non c’è?

Volando oltremanica, il 14 aprile usciva il primo album di un gruppo che diventerà leggenda per i metallari di tutto il mondo, quello degli inglesi Iron Maiden che si conquisteranno a suon di riff estremi e generosi il trono dell’heavy metal. Copertina d’effetto dell’illustratore inglese Derek Riggs, che seguirà la band fino al 1990 creando una sorta di storia a fumetti dark che farà la fortuna commerciale della band. Ascoltate Phantom of the Opera.

Il 1980 è anche l’anno della morte di Josip Broz, il maresciallo Tito, avvenuta il 4 maggio: l’uomo che aveva tenuto insieme la Jugoslavia dal 1953 spariva lasciando un paese che nel giro di pochi anni si farà a pezzi, un’autodistruzione programmata. Sempre per la cronaca, il 24 giugno un  DC-9 della Itavia in servizio tra Bologna a Palermo con 81 persone a bordo cade nelle acque vicino a Ustica. Tutti morti. Dopo anni e anni di indagini, nessun colpevole ma una certezza quasi acclarata: il DC-9 si era trovato nel mezzo di una battaglia tra aerei libici e Nato. Per l’Italia non finisce qui: il 2 agosto scoppierà la bomba alla stazione di Bologna. Un’altra strage: 85 persone rimangono uccise e duecento ferite. L’incubo dell’eversione nera collegata a elementi deviati dello Stato si ripresenta dopo la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano (1969), quella di piazza della Loggia a Brescia e l’altra sul treno Italicus (entrambi 1974).

Rimanendo tra chitarre “cattive”, bassi e batterie, il 25 luglio segna l’uscita di un altro incredibile disco rock, uno dei più famosi – venderà oltre 50 milioni di copie: è Back in Black degli AC/DC (ne ho parlato in un recentissimo post scritto in occasione dell’uscita di Power Up, il nuovo disco).

E veniamo a settembre. Il 20 Ozzy Osbourne pubblica il suo primo album da solista, Blizzard Of Ozz, quest’anno, manco a dirlo, è uscita una “Expanded Edition”. Quel disco, dopo lo scazzo con i Black Sabbath e la sua profonda depressione, è il lavoro della rinascita del “morsicatore di pippistrelli”, in gran vena creativa grazie anche a una band di tutto rispetto: il chitarrista Randy Rhoads (ex Quiet Riot), il batterista Lee Kerslake (ex Uriah Heep) e il bassista e paroliere Bob Kerslake (ex Rainbow). Una per tutte, certamente autobiografica: Crazy Train.

Il 23 è un’altra data da ricordare per chi ha vissuto un certo tipo di eroi epici: Bob Marley tiene con gli Wailers il suo ultimo concerto dal vivo allo Stanley Theater di Pittsburg, in Pennsylvania, dopo aver pubblicato, il 10 giugno, il suo ultimo album, Uprising. Morirà l’11 maggio del 1981.

Il 25 un lutto scuote e getta nella disperazione il mondo della musica: muore John Bonzo Bonham, il formidabile batterista dei Led Zeppelin, un’overdose alcolica, soffocato nel suo vomito. Tre mesi più tardi, il 4 dicembre, la band annuncia che si ritirerà dalle scene…

Passiamo a ottobre: il 17 i Dire Straits pubblicano Making Movies, album romantico e geniale, che permette a Mark di esprimere al meglio la sua creatività e bravura. Contiene alcune tra le canzoni più fortunate di Knopfler e soci, da Tunnel of Love a Romeo and Juliet. In Inghilterra rimane in classifica per 252 settimane consecutive, mentre nel nostro Paese fa il botto: oltre un milione di copie vendute, sarà l’album più gettonato del 1981.

Invece, il 24 John Lennon pubblica la sua (Just Like) Starting Over, primo singolo in preparazione dell’album Double Fantasy in uscita a firma anche di Yoko Ono il 17 novembre. Il 4 dello stesso mese si terranno le elezioni americane. Il mondo vedrà arrivare alla Casa Bianca un ex attore hollywoodiano: inizia l’era di Ronald Reagan che vincerà surclassando Jimmy Carter (in carica). Il mondo si avvia verso una nuova fase… ma qui è tutta un’altra storia…

Interviste/ Claudio Sanfilippo e la sua canzone d’Arte

Claudio Sanfilippo – Foto Lorenzo De Simone

Provenendo dagli anni Settanta, oltre a bigoi in salsa, birramedia e rock, da adolescente sono cresciuto anche a soppressa, vinrosso e cantautori, quel particolare e molto personale genere che noi italiani abbiamo esercitato in maniera egregia per oltre un ventennio. Forse, meglio ancora dei nostri cugini francesi, concentrati su storie malinconiche, chansonnier dalla voce profonda e impostata, come Jacques Brel e Leo Ferré, che raccontavano di passioni e nostalgie, mettendo in musica veri e propri romanzi.

«Noi cantautori italiani siamo da sempre più inclini alla poesia, una questione culturale». Incontro via whatsapp – per esigenze di tempi e lavoro – Claudio Sanfilippo, milanese, 60 anni, cantautore, scrittore, poeta, comunicatore… Insomma, personaggio eclettico che di musica e versi non può proprio farne a meno.

Ascoltatevi l’ultimo suo lavoro, nato e stimolato dal lockdown, dal titolo Contemporaneo. Quattordici brani, alcuni scritti di getto, altri tenuti nel cassetto e rielaborati, un paio presi a prestito da due mostri sacri della musica e rivisti… «Mi sono fermato a 14 perché me lo sono imposto, ma avrei continuato a scrivere e comporre», precisa rollandosi una sigaretta e guardandomi dritto in camera.

Claudio ti ho cercato perché, parlando di musica, non posso tralasciare il capitolo “cantautori”, genere che ha plasmato più di una generazione. Come definiresti oggi la canzone d’autore?
«Difficile e lunga risposta. Ho iniziato ad avvicinarmi alla musica e a suonare negli anni Settanta quando la canzone d’autore era nella sua massima espressione. C’erano grandi protagonisti, c’era una scuola importante. Lucio Dalla e Francesco De Gregori riempivano gli stadi, c’erano Pino Daniele e Francesco Guccini. Artisti molto diversi tra loro per musica e testi, ma che, comunque, stavano tutti sotto lo stesso cappello, quello della canzone d’autore, appunto. Le cose sono radicalmente cambiate con l’avvento dell’Mp3 e la conseguente fine dei dischi e dei Cd, supporti fisici. Il valore che davi prima lo testimoniavi con l’acquisto del disco, dal desiderarlo perché, di fatto, premiavi il lavoro e il percorso di un artista. Con l’Mp3 la musica è stata sdoganata come un prodotto praticamente gratuito».

Si è passati anche a una musica di più facile presa
«La canzone d’autore non è mai stata musica di consumo. Detto ciò, abbiamo assistito a un progressivo scadimento della proposta musicale, di quei generi che puntavano alla qualità e all’autenticità».

Claudio Sanfilippo – Foto Lorenzo De Simone

Più che canzone d’autore ami definirla canzone d’Arte…
«Non vorrei apparire un “trombone”, ma sì, credo che sia la definizione più corretta di quello che faccio. Nel senso più semplice del termine, una musica d’artigianato, dove tutto è fatto e pensato dall’artista, come un dipinto o una scultura. Canzone d’Arte perché – e qui sta la differenza con gli altri generi – si scrive e si compone senza avere un legame con il mercato, perché cerca una cifra stilistica che piaccia, innanzitutto, all’autore. Con Contemporaneo ho ricevuto recensioni molto buone dai critici musicali, mi ha fatto molto piacere, ma queste, oggi, non valgono granché se non per una soddisfazione professionale».

Anche la critica musicale è in crisi?
«Sì, perché non è più il baricentro, quel filtro che guardava all’effettivo valore del lavoro e dell’artista, nel bene e nel male. I critici facevano sì che certe proposte non potessero avere accesso al mondo della musica ascoltata, guardavano alla sostanza. Oggi succede l’opposto».

Capita anche nell’editoria… tu ne sai qualcosa, visto che sei anche uno scrittore, e hai pubblicato diversi libri.
«Il discorso qui è un po’ diverso: i libri, forti delle esperienze musicali, hanno tenuto botta. Nel mondo dell’editoria c’è ancora gente più competente rispetto a quello discografico, dove il livello è sceso in una decrescita costante. Non si richiedono più competenze musicali ma di marketing. Pensa solo al concetto di “radio libera”. Oggi fa sinceramente sorridere…».

Tornando alla canzone d’autore…
«È l’espressione migliore della musica italiana dopo la canzone napoletana. Da Modugno in poi, passando per Tenco, De Andrè e via elencando. Una scuola valida quanto quella degli chansonnier francesi. L’Italia è un Paese di poeti, la Francia, di romanzieri, qui sta la vera differenza tra le due anime».

Veniamo a Contemporaneo: dentro c’è bossa nova, americana, cantautorato più puro. E poi… c’è la bella El Pepe. Insomma, oltre che musicista, poeta e scrittore tu sei anche un grande esperto di calcio e un tifoso del Milan…
« (Ride, n.d.r.). Con El Pepe, il mitico uruguaiano di origini italiane Juan Alberto Schiaffino, uno dei calciatori più dotati di tutti i tempi, volevo celebrare il calcio ma soprattutto ricordare mio padre. Per lui El Pepe era il più grande, quando lo si nominava gli si illuminavano gli occhi. Il testo l’ho scritto a quattro mani con il mio amico Gino Cervi».

Il lockdown è stato il “responsabile” del tuo disco?
« (Finisce di rollarsi l’ennesima sigaretta, n.d.r.) In quei giorni mi aggiravo per casa facendo telefonate di lavoro, poi mi è caduto l’occhio su un testo che avevo scritto lo scorso anno e di cui me ne ero completamente scordato. Era Contemporaneo, brano che poi ha dato il titolo al disco uscito a metà maggio. Parlava di un mondo “post tutto”, molto attuale per la situazione che stiamo vivendo. Per la prima volta ho scritto una canzone “politica”. L’ho pubblicata in aprile. Doveva essere parte di una sorta di Q-disc (oggi si chiamerebbe EP, n.d.r.). Ho cominciato a incidere tre, quattro brani, chiedendo l’aiuto, ognuno a casa propria, di amici musicisti (Danilo Boggini, Max De Bernardi, Claudio Farinone, Rino Garzia, Massimo Gatti, Domenico Lopez, Danilo Minotti, Cesare Picco, Francesco Saverio Porciello, Marco Ricci, Val Bonetti, Umberto Tenaglia, oltre ai figli di Claudio, Emma e Giacomo, quest’ultimo autore anche della bella copertina, n.d.r.). Ero entrato in una specie di bolla, una “fregola” durata una quindicina di giorni. Alla fine mi son fermato a 14 brani, ma ne avrei scritti molti altri. Tutto è stato registrato a casa, da me».

Ci sono anche due pezzi tratti da canzoni di due mostri sacri, Nick Drake e Bob Dylan…
«Un paio d’anni fa avevo adattato Northern Sky di Nick Drake in italiano (Cieli del Nord), costruendo un arrangiamento per chitarra in accordatura aperta. Ho chiamato Cesare Picco, musicista che conosco da una vita, fin da quando, lui ventenne, io trentenne, suonava il pianoforte (già allora, meravigliosamente bene) di casa mia, nelle serate indimenticabili del “tempo dell’adunanza”. Trattasi di “pianoforte visionario”. Quanto a Dylan il discorso è diverso. Nel cassetto ho 26 sue canzoni che ho tradotto in italiano. Nessuna, è pura coincidenza, appartiene a quelle che Francesco De Gregori ha usato per il suo album (De Gregori canta Bob Dylan – Amore e Furto, 2015, n.d.r.). Ho un progetto: realizzare un doppio album scegliendo canzoni poco conosciute. Oltre la montagna è la rivisitazione di Cross the Green Mountain, brano scritto per il film Gods and Generals sulla guerra civile americana, del 2003».

L’anno scorso hai confezionato anche un altro gran bel disco, molto intimista, chitarra e voce, Boxe. E qui c’è anche lo zampino di un altro straordinario musicista e producer, Rinaldo Donati, artista che ho intervistato qualche mese fa…
«Tutto è nato proprio dalle serate che s’era inventato Rinaldo nel suo studio, i “Maxine Live”. La puntata numero zero l’ha fatta con me. Doveva servire a provare una chitarra classica baritono fatta apposta per me da Fabio Zontini, liutaio di Gorra (Savona). Le canzoni, 14, le avevo scelte tra quelle composte tra il 1981 e il 2017. Da lì è nato il tutto, registrato in due pomeriggi alla Maxine Production. Un instant album registrato in poche ore, un mio piccolo manifesto personale, nella più pura canzone d’autore – che sta in piedi con voce e chitarra – completamente fuori tempo, doveva essere pubblicato 30, 40 anni fa. È una testimonianza, e per questo l’ho voluta incidere solo su cd e, da qualche settimana, su vinile. Non esiste in streaming, la voglio preservare in “dimensione pura”».

Claudio Sanfilippo – Foto Lorenzo De Simone

Se non sbaglio hai altri progetti oltre al “Dylan Album”.
«Sì altri due. Il primo è ILZENDELSWING, progetto che sto portando avanti con amici musicisti da alcuni anni (brani swing cantati in milanese, n.d.r.) che dovrebbe vedere un album nel 2021 dal titolo Americana. Il secondo, ispirato da un libro di Giorgio Terruzzi pubblicato nel 2004, Fondocorsa. Mille Miglia, una vita e un gatto, un episodio romanzato nella vita di Alberto Ascari, grande pilota. Ho scritto otto canzoni, tutte intorno a questo mondo, dove si parla di velocità, morte e scaramanzia. Tre concetti fondamentali. Se l’album Automobili di Lucio Dalla (1976, n.d.r.) narrava storie ed emozioni vissute dall’esterno, quello che sto cercando di fare è trasmettere le stesse emozioni viste dai protagonisti. Lui estroverso, io introverso».

Canti anche in milanese. In Contemporaneo c’è Viandant
«Le mie produzioni musicali sono sempre state in italiano e in milanese, mi sono sempre diviso tra blues acustico e swing. Sono sempre stato bipolare (ride, n.d.r.). I dischi che mi porterei nella famosa isola deserta sono Amoroso di João Gilberto e Blood on the Tracks di Bob Dylan. Due lavori che non hanno nulla a che vedere uno con l’altro. Bipolare, appunto!».

Ultima domanda, giuro! Cosa ascolta Claudio Sanfilippo?
«Sono sempre stato onnivoro. Da giovane sono stato travolto dalle passioni, jazz e Bossa Nova, da Chico Buarque e Tom Jobim. Ascoltavo anche rock e musica classica, avevo l’abbonamento ai pomeriggi musicali del Conservatorio di Milano. Ultimamente sto tornando ad ascoltare musica classica, le mie vecchi passioni, Chopin e Mahler. Mi piace il jazz del chitarrista norvegese Terje Rypdal, un grande, e il bluegrass – swing del chitarrista Tony Rice».

Interviste/ Fabrizio Sotti, l’italiano che ha avuto la fortuna di fare la storia della musica americana

Prima di mettermi a scrivere questa lunga intervista, un’ora di collegamento via Skype a New York, mi sono dedicato a un doveroso “ripasso”, andando a recuperare album che non ascoltavo da parecchio tempo. Nell’ordine, Money Jungle, anno d’uscita 1962, disco gigantesco, il blues in jazz inteso da Duke Ellington, al pianoforte, Charlie Mingus al contrabbasso e Max Roach alla batteria. Quindi, anno 1965, Smokin’ at the Half Note, registrazione live di un concerto del chitarrista Wes Montgomery & Winton Kelly Trio. E qui già stiamo entrando nel personaggio. Il suono della chitarra di Wes è vellutato, di una romantica, voluta opacità (ascoltate Impressions). Infine, ancora in cuffia, anno d’uscita 1968, Electric Ladyland, terzo e ultimo disco (doppio) inciso da Jimi Hendrix nella formazione The Jimi Hendrix Experience con Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Ricordate – e come non ricordarle! – Voodoo Chile e Crosstown Traffic?

Fabrizio Sotti – Foto Marco Glaviano

Bene, ora sono pronto! Con l’inconfondibile dialogo di Hendrix e la sua Fender Strat vi presento Fabrizio Sotti, 45 anni, padovano di origine e newyorkese d’adozione. È un musicista e compositore, jazz di predilezione. Ma è anche un producer, ha fondato e gestito etichette discografiche, ed è un autore. È un chitarrista, uno straordinario chitarrista, che non disdegna altri generi musicali, dal rock al pop all’urban. I personaggi con cui ho iniziato questo post non sono stati scelti a caso, sono una piccola, ma sostanziosa parte della sua formazione, le ragioni per cui Fabrizio ha iniziato a suonare giovanissimo la chitarra, ad amare il jazz e a colorare la sua musica con la maestosa psichedelica bravura di Hendrix. Così sono pronto a “sbobinare” la lunga chiacchierata con questo artista che ha rotto i canoni del classico musicista: la storia della sua vita, la musica, le contaminazioni musicali, la Ferrari (capirete…) ma anche il lockdown negli States, le ansie e il mondo che verrà…

Partiamo dall’inizio: come ti è venuta la passione per la musica e per il jazz?
«È stata mia nonna paterna che suonava il pianoforte, musica classica, a iniziarmi e a  insegnarmi i fondamentali. Avevo cinque anni. A nove sono stato attratto dalla chitarra, amore a prima vista, e ho iniziato a studiarla seriamente. Crescendo mi sono appassionato ai grandi del jazz, Wes Montgomery ma anche John Coltrane, Duke Ellington, Miles Davis. E poi Jimi Hendrix. Erano gli anni Ottanta e a Padova non c’erano scuole che insegnassero seriamente il jazz, al di fuori di qualche maestro privato. Andavo da “Ricordi” a comprare i manuali di jazz della Berklee College of Music. A 14-15 anni ho iniziato a suonare (e lavorare) come professionista, facevo il turnista, con Leandro Barsotti, Angela Baraldi, Samuele Bersani. Ho avuto la fortuna di avere un trio con con Ares Tavolazzi e Mauro Beggio, bassista e batterista grandissimi, con i quali ho imparato molto. Poi il Fabrizio Sotti Mob Group jazz/fusion con Francesco Lomagistro alla batteria e Christian Lisi al basso…

Insomma, una carriera iniziata bene…
«Sì, ma presto mi son reso conto che, se volevo crescere, diventare davvero bravo, coltivare la mia passione, dovevo andarmene dall’Italia. La scena musicale italiana, a parte poche eccezioni, anzi, l’Italia in sé, non aveva grandi maestri, anche di vita…

Quindi?
«Quindi a 16 anni ho avuto il coraggio di andarmene a New York, avevo qualche contatto di musicisti… ma sono ripartito da zero per la lingua e la musica. Avevo le nozioni di base, però avevo capito che al di là delle ore di studio dello strumento, per imparare davvero dovevo suonare con bravi musicisti. Il bello del circuito jazz newyorkese è che, se sei serio e bravo, ti accolgono, sei uno di loro. Così mi sono trovato a suonare con grandi nomi, con il bassista Steve LaSpina, i batteristi Victor Jones e Al Foster, i bassisti John Patitucci, Mark Egan e Jeff Andrews, il trombettista Randy Brecker… Suonare con dei grandi musicisti è la migliore scuola. Ho 45 anni ma non si smette mai di imparare, ancora oggi studio e sono sempre alla ricerca della mia voce più profonda».

Sei poi tornato in Italia?
«Sì, nel ’95 per fare il militare. Sono finito alla base Nato di Aviano, proprio nel periodo delle guerre in Jugoslavia e degli interventi americani i cui aerei partivano da lì. Un momento della mia vita di cui non amo parlare, una brutta esperienza».

Poi sei ripartito per gli Usa…
«Sì, a settembre del ’96 sono ritornato in America e lì son rimasto. Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza difficile, la musica mi ha salvato».

Tu non sei “solo” un chitarrista jazz, sei anche molto altro…
«Sono sempre stato uno curioso. Mi piace tutta la musica, o meglio, per citare Duke Ellington, “Ci sono due tipi di musica: la buona e… tutto il resto”. Ascolto di tutto, basta sia valido, abbia qualcosa da dire. Per questo mi sono avventurato da sempre anche fuori dal jazz, mi incuriosiva molto la parte di produzione della musica e scrivere canzoni. Al mio rientro a New York ho creato un piccolo studio e ho intrapreso centinaia di collaborazioni con musicisti urban, hip hop, R&B. Oggi sono musicista, produttore e scrittore. Sai, dell’ambiente del jazz, soprattutto europeo, non sopporto lo snobismo verso gli altri generi, che qui non esiste. Michael Brecker, grande sassofonista, aveva un’attitudine rilassata verso la musica, quando sai chi sei e cosa fai non devi temere nulla…».

Una vena polemica?
«Non tollero gli opinionisti, quelli che sanno tutto e giudicano. Io mi faccio gli affari miei. Questa è una delle ragioni per cui me ne sono andato. Negli States nessuno ti dice nulla e vale un principio: se suoni bene esisti sennò non esisti. Punto».

Per questo in Italia hai fatto poche collaborazioni?
«Ne ho fatte alcune di cui vado fiero. La prima con Zucchero, contenuta nell’album A Fiew Possibilities del 2014, Someone Else’s Tears (bonus track contenuto nell’album Chocabeck del 2010, il cui testo è stato scritto da Bono Vox, n.d.r.). La seconda, del 2017, con Clementino per il brano La cosa più bella che ho (dall’album Vulcano, n.d.r.), dove ho suonato la chitarra e curato la produzione. Lo stesso per la terza, Angeli e Demoni, canzone uscita nel febbraio dello scorso anno, con il rapper Mondo Marcio (Gian Marco Marcello, contenuta nell’album UOMO!, n.d.r.) e Mina… Hai notato la chitarra com’è predominante? Un Il testo di quest’ultima canzone fa riflettere molto, la musica ti può dare emozioni positive e riflessioni utili».

Per il discorso di cui sopra, qui sono in molti a criticare Zucchero…
«Zucchero è sempre stato innovativo, ha un suo sound ed è uno dei più grandi artisti che abbiamo in Italia»·

Gli altri chi sono?
«Chi erano: Pino Daniele, con cui coltivavo una grande amicizia, e Lucio Dalla con il quale avevo suonato quando ero un ragazzino. A questo proposito ti do un’anteprima, non l’ho detto ancora a nessun giornalista: prima che scoppiasse il problema del virus e si chiudesse tutto, con Rachel Z., pianista che ha suonato in molte tournée di Pino, e con suo marito, il batterista Omar Hakim, abbiamo deciso di preparare un omaggio a Pino. Rachel l’ho conosciuta negli anni Novanta, perché avevo preso in affitto il suo appartamento per alcuni mesi proprio mentre lei era in concerto con Pino in Italia. Poi ha sposato Omar. Quindi siamo tre amici che hanno preparato un tributo a un amico che non c’è più, un disco con sue canzone rivisitate da noi con special guests, cantanti e rapper, grossi nomi, ti basti sapere questo, non posso dirti di più. Dovevamo presentarlo anche in Italia, con una serie di concerti, ma s’è dovuto rinviare tutto al prossimo anno…».

Fabrizio Sotti – Foto Marco Glaviano

Passiamo a un altro capitolo della tua vita: hai firmato la riedizione di una chitarra mitica per un jazzista, costruita negli anni Trenta, la D’Angelico Premier Fabrizio Sotti SS…
«È una storia curiosa, John D’Angelico era un liutaio aveva aperto un negozio in Little Italy a New York nel 1932. Figlio di italiani, ha creato delle chitarre favolose diventando il punto di riferimento dei musicisti dell’epoca. Lui è morto negli anni Sessanta e via via l’azienda, passata per varie esperienze, aveva finito per chiudere. Sei, sette anni fa una cordata di investitori americani l’ha riaperta e, per riportarla alla vecchia gloria, ha chiamato alcuni chitarristi a rappresentarla (oltre a Fabrizio c’è Bob Weir, dei Grateful Dead, e Kurt Rosenwinkel, n.d.r.). Sono molto orgoglioso di essere un italo-americano di “nuova generazione”, è il traguardo di tanto lavoro fatto. Ho avuto fortuna di fare la storia della musica americana lavorando assieme a Cassandra Wilson, Dead Prez, Whitney Houston, Jennifer Lopez, Ice-T, Shaggy… Sono soddisfatto, ma sempre alla ricerca di nuovo. A 45 anni inizio a tirare le somme, anche se sono ancora a meno della metà dell’opera!».

Apriamo un altro di capitolo: la tua passione per le Ferrari…
«È uno di quei desideri che ti vengono fin da bambino. È un brand che racchiude in sé un’essenza mistica per il sogno che rappresenta. Con i miei primi soldi veri guadagnati, non avevo nemmeno comprato casa, ho acquistato una F355. Da allora ne ho avuto molte, sono stato “usato” anche come testimonial dalla casa di Maranello. Ti confesso che preferisco i modelli più “vecchi”, dove l’uomo può mettere la sua tecnica di guida, oggi vanno da sole! Andavo anche in pista. Ora non lo faccio più, sono sposato e ho una bambina, altre responsabilità…».

Velocità e musica che connessione hanno?
«La stessa sensazione: quando sono alla guida e quando suono, è un’emozione. Una grande, forte emozione».

Fabrizio veniamo al Covid19 e al lockdown: niente concerti niente produzioni, niente dischi, niente…
«È tutto sospeso. Pubblichi dischi per andare poi in giro per il mondo a fare concerti, è così che puoi guadagnare. Penso che per un anno non si suonerà più nei club per mantenere il “social distancing”. Sai, credo che non torneremo più alla normalità come eravamo abituati a viverla. Dovrò riorganizzarmi. Io, che per fortuna ho diversificato le mie attività, avendo scritto e prodotto canzoni di successo resisto ancora, ma penso a come faranno a sopravvivere i musicisti che suonano soltanto. E quello che ci sta succedendo oggi è un fallimento dell’umanità. Così perdiamo musica, libri, cultura, l’arte…».

Sarà brutale…
«Lo dico consapevole di pronunciare parole “tragiche”: tra un anno ci saranno meno della metà dei musicisti attivi oggi. Sarà un dura selezione naturale, soprattutto per il jazz. La “classe media della musica» – e nel jazz è praticamente tutta classe media – rischia di venire cancellata. Sono un positivo di natura, non mi sono mai fermato davanti niente, ma questa situazione mi fa sentire impotente».

Memento/ Lucio Dalla, una canzone e un ricordo…

4/3/20. Sono bastati 12 giorni a Ozzy Osbourne per scalare le classifiche mondiali e posizionare il suo Ordinary Man al top di vendite e ascolti. Come lui, sulla cresta dei 70 e oltre ci sono altri ex-ragazzi ribelli in piena attività, Mick Jagger, Keith Richards, Elton John, Paul McCartney… Lucio Dalla: oggi avrebbe compiuto 77 anni, la stessa età del baronetto Paul, un anno in meno di Charlie Watts, impenetrabile batterista dei Rolling Stones.

Non ricordo questi nomi a caso. Tutti, incluso Dalla, erano e sono animali da palcoscenico. Artisti che si alimentano dell’energia del pubblico, caricano la loro creatività e “istrionicità” per restituirla, attraverso emozioni, a quello stesso pubblico. Oggi è il compleanno di Lucio Dalla e la musica italiana – ma anche quella internazionale – a otto anni dalla sua morte ne avverte sempre di più la sua mancanza.

Non voglio ricordare quanto grande sia stato il piccolo e peloso bolognese che della sua statura e irsutezza era riuscito a trarne punti di forza e tipicità, e della sua straordinaria dote di combinare con eleganza e ironia parole e note, la sua profonda bellezza. Oggi tutti i giornali lo stanno facendo. Voglio, invece, raccontarlo attraverso un mio piccolo ricordo.

Profondo Veneto, adolescenti. Mattina al liceo classico tra Kant, Dante e lettura di giornali (obbligatoria), pomeriggi, dopo lo studio, ad arrangiarsi sulla tastiera di un pianoforte o sulle corde della chitarra. Ragazzi di provincia. Nella seconda metà degli anni Settanta alle pendici del Monte Grappa si vivevano gli anni della contestazione e del terrorismo cercando di canalizzare la nostra giovane e vigorosa dose di insoddisfazione contro un establishment logoro e decadente con parole e musica.

I nostri strumenti? Un foglietto ciclostilato che chiamavamo giornale, diventato poi un giornale, e una stanza dove ci si trovava a suonare. Tra le prime cover, tra Dylan, Santana, Beatles e Cat Stevens, c’era anche Dalla con il suo omonimo disco pubblicato nel 1979. Si suonava e cantava come se non ci fosse un domani L’anno che verrà, ma anche Anna e Marco, a dire il vero era il brano più richiesto nelle nostre “uscite” iperlocal.

A oltre quarant’anni di distanza mi chiedo perché, tra le tante canzoni che si strimpellavano con chitarratastierabassobatteria, proprio Anna e Marco, che iniziava con un piano elettrico sommesso, era quella che colpiva di più: in una canzone, che in realtà è una breve, completa e cruda storia con un inizio e una fine, quella di due giovani di provincia, ci si rispecchiava tutti.

Era esattamente così: le domeniche oziose, il ritrovo al bar, quella malinconia costante e la voglia di fare qualcosa di diverso, i sogni, il desiderio di volare e di conquistare la luna, infranti sempre dal semplice “abbaiare di un cane”, e l’inevitabile ritorno alle proprie giovani vite. Un circuito “eterno”, un limbo che in tanti abbiamo cercato di rompere, riuscendoci?, in anni dove Internet, cellulari e social erano realtà inimmaginabili e la provincia era… provincia, punto.

Eravamo tanti Anna e Marco, da Nord a Sud. Grazie anche a Lucio Dalla ne abbiamo preso coscienza, scegliendo le nostre future vite.

Due marzo, quattro compleanni per altrettanti rocker

Sono solo coincidenze, ma… oggi, 2 marzo, sono nati quattro artisti che, in modo diverso, hanno dato e stanno dando, un contributo determinante alla declinazione del genere rock. Sto parlando di Lou Reed (andatosene, purtroppo 7 anni fa), Mark Evans, Jon Bon Jovi e Chris Martin. Tutti venuti al mondo lo stesso giorno, il primo nel ’42, il secondo nel ’56, il terzo nel ’62 e il quarto nel ’77. Tra due giorni, il 4 marzo (era il 1943), ricorre anche l’anniversario della nascita del nostro mitico Lucio Dalla, morto a Montreux il 1 marzo del 2012, otto anni fa. La vita dell’artista bolognese s’è accesa e spenta a marzo. Marzo, dal latino Martius, era il mese dedicato a Marte, il dio della guerra, padre di Romolo e Remo, dunque protettore di Roma e dell’Impero romano. Marzo è sinonimo anche di pazzia, “essere nato a marzo” significa avere un carattere tosto, irrequieto, volubile. E gli artisti in questione, incluso Lucio, rispettano in pieno lo spirito di questo mese.

Lou Reed, nato, cresciuto e spentosi nella sua New York, una giovinezza difficile – a causa della sua bisessualità a metà degli anni ’50 fu sottoposto ad elettroshock – cantore dei bassifondi della Grande Mela è colui che ha dato una sterzata al rock com’era concepito in quel periodo. Per molti versi è um precursore del punk per il suo modo graffiante di suonare la chitarra, la voce volutamente monocorde, il suo modo di apparire sul palco, giubbotto di pelle nera e occhiali Rayban. Con i Velvet Underground & Nico, nel loro primo disco, regala al rock uno dei suoi “anthem”: I’m Waiting for The Man. Nella sua turbolenta e creativa vita Lou conosce e collabora con John Cale, Andy Wharol, Iggy Pop, David Bowie, l’Underground è il suo nido e lo sarà sempre in cerca di nuove forme d’arte, mai cristallizzarsi in un genere. L’incontro sentimentale e musicale con Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia, speculare a lui in tutto e per tutto, lo porterà a percorrere strade complesse nella musica e a produrre pezzi marcanti, come In Our Sleep (1994), dove Lou e Laurie raccontano la loro storia d’amore, coinvolgente intesa in un brano minimal, essenziale nella musica e nelle parole: In our sleep as we speak, Listen to the drums beat, As we speak, In our sleep as we speak, Listen to the drums beat, In our sleep, In our sleep where we meet, In our sleep where we meet.

Il nome di Mark Evans potrà non dire molto a qualcuno, ma il sessantaquattrenne signore di Melbourne è stato per due anni, dal 1975 al 1977, il bassista degli AC/DC. Fu licenziato da Angus per divergenze sullo stile della musica dopo la tournée in Europa, in Germania fu l’ultimo concerto con la band, ma anche perché il suo successore, Cliff Williams, oltre a suonare il basso, sapeva anche cantare. Mark, che nel 2011 ha pubblicato un libro autobiografico sulla sua storia inclusi gli anni passati nella famosa band, Dirty Deeds: My Life Inside & Outside of AC/DC, continua a suonare; dal 2017 è entrato nei Rose Tattoo, storico gruppo australiano di hard rock capitanato da Angry Anderson. Ascoltiamo qui gli AC/DC con Mark in Let There be Rock.

E arriviamo a Jon Bon Jovi, vero nome, John Francis Bongiovi Jr. Di lui le cronache hanno parlato proprio un paio di giorni fa, quando il rocker, nato nel New Jersey da padre di origini italiane (i nonni erano siciliani), s’è incontrato negli studi di Abbey Road a Londra con il principe Harry per registrare un brano a scopo di beneficenza. Jon, 57 anni, è da sempre uomo impegnato politicamente e socialmente. Con i Bon Jovi, suo storico gruppo, Jon rilascerà il 16esimo album in studio della band dal titolo Bon Jovi 2020 il prossimo 15 maggio. Per ora ascoltiamo Limitless.

L’ultimo in ordine di anno di nascita è Chris Martin, il frontman dei Coldplay. Che dire di Chris e della sua band? Navigano in acque alterne, dal pop rock alla disco, al rock. Il loro ultimo lavoro, Everyday Life mi è piaciuto molto. Chris tuttofare, gioca con la musica e con i generi, è maturato e si sente. Come dimostra anche lo spin off di Everyday Life rilasciato il 21 febbraio assieme a Jonny Buckland, chitarrista del gruppo. Si tratta di una versione “acustica” di tre brani del disco, BrokEn, Champion of the World e Cry Cry Cry (quest’ultimo brano, in versione originale, è stato anche “tradotto” in video con la regia di Dakota Johnson e Coirey Bailey). Tutti e tre “reimagined” con due membri in meno della band, un gruppo di archi e tre coristi in più.  Ascoltiamo insieme BrokEn.