Changüí: storia degli autostoppisti musicali. Parola di Gianluca Tramontana

Il 30 luglio scorso è uscito un box set, tre compact disc più un libro di 124 pagine, dedicato alla musica Changüí, dal titolo, Changüí – The Sound of Guantánamo. Molti si staranno chiedendo che tipo di musica sia. Riassumendo in poche parole, una musica folk, nata nell’Oriente di Cuba, nel distretto di Guantánamo, nella seconda metà dell’Ottocento. Musica contadina, musica delle piantagioni, qualche etnomusicologo sostiene sia l’antesignano del son cubano, quello dei Buena Vista Social Club, per intenderci, di cui vi ho parlato qui. Una rarità, se si considera che, dopo oltre un secolo, è una musica che si suona ancora – e in modo effervescente – nei centri rurali del distretto. Per chi ha conosciuto Cuba, la sua storia, i suoi abitanti, e se ne è innamorato, il Changüí è un capitolo che vale la pena leggere e ascoltare. È nato a Baracoa, la Ciudad Primada, qui sbarcò Cristoforo Colombo e con lui, la forza bruta della colonizzazione spagnola, che almeno ha lasciato una bella cittadina coloniale, dall’aria decadente, di grande attrazione, e un popolo formato a forza tra indios, europei e africani, portati in schiavitù sull’isola. Culture che si sono fuse, ritmi e suoni che hanno cambiato per sempre il cuore musicale degli abitanti.

Storie già viste in altri luoghi dell’America Latina, a partire dal Brasile. Permettetemi una breve digressione: sono stato a Cuba nei primi anni Novanta (allora lavoravo in un giornale che era una sorta di bibbia del viaggiatore, Weekend Viaggi, finito poi miseramente). Era il cosiddetto Periodo Especial, la grande crisi che colse l’isola dopo la dissoluzione dell’Impero Sovietico. Tutti stavano male, nessuno aveva più nulla e ciascuno si arrangiava come poteva. Con il mitico Marco Casiraghi, fotografo di grande abilità ed esperienza, andammo a Baracoa. Un posto meraviglioso, e poi a Guantánamo, dove fummo portati nella base dell’esercito cubano che aveva il compito di controllare la base americana. Qui, davanti a un plastico che riproduceva l’”angolo Usa” ci spiegarono con dovizie di particolari cosa stessero facendo gli yankee in quel momento. C’era persino un mirador, un belvedere, con tanto di binocolo e bar, dove sorseggiando una birra si potevano osservare “da vicino” portaerei, corazzate, sommergibili all’ancora nella base. Altri tempi. In quei giorni frequentammo quasi tutte le sere la Casa de La Trova, un locale aperto a tutti i musicisti, dove chi voleva entrava, saliva su un palchetto malconcio e suonava. La gente, ascoltava, cantava, ballava. Serate indimenticabili. La più bella e organizzata era la Trova di Santiago de Cuba. Però Baracoa aveva un che di assolutamente magico che mi porterò per sempre nel cuore.

Gianluca Tramontana intervistato alla BBC – Foto Jack Howson

Torniamo a questo capitolo: a scriverlo e a registrarlo in presa diretta in due anni di ricerca, dal 2017 al 2019, è stato un italiano, milanese, da oltre trent’anni a New York, Gianluca Tramontana. Classe 1966, musicista, giornalista, appassionato di roots music, sia americana sia latino-americana, Gianluca è stato collaboratore di testate musicali storiche, come Rolling Stone, e lavora tutt’ora per l’inglese Mojo. Ha un programma radiofonico molto seguito su Radio Free Brooklyn, Sitting With Gianluca, dove, tutte le settimane, tiene conversazioni legate alla musica con artisti famosi e meno famosi purché abbiano qualcosa di interessante da raccontare. L’ho contattato e, settimana scorsa, abbiamo fatto una lunga e bella chiacchierata via Skype.

Gianluca, roots music, amore a prima vista…
«Sono un appassionato, e il Changüí ne è uno straordinario esempio. È come il primo blues del Mississippi. D’altronde, Guantánamo è un po’ come il Sud degli Stati Uniti, tradizionalmente povero, una zona agricola. Anche il periodo in cui è comparso si avvicina a quello del Blues americano e, se vogliamo, dello Choro brasiliano, nella seconda metà dell’Ottocento».

Dunque, ha poco a che vedere con il son cubano che conosciamo…
«Il Changüí non è la musica cubana che siamo abituati ad ascoltare, quella che potremmo definire straight time, dove il ritmo è lineare, non sincopato. Mi ha catturato proprio perché ha swing, inizia in un modo ma non sai mai dove va a parare, prende direzioni diverse, ha cambi improvvisi di ritmo. La sua origine, per ritornare alla storia, è più o meno coincidente con le guerre indipendentiste cubane che poi hanno generato la nascita di Cuba come stato indipendente, avvenuto nel 1902. Riflette lo stato d’animo, la cultura, dei lavoratori delle piantagioni, le loro provenienze. C’è l’Africa, l’indigeno nelle maracas (il Changüí di Baracoa, per esempio, è molto più indio di quello di Guantánamo), quindi ci sono elementi francesi provenienti dalla vicina Haiti…».

Bello il paragone con Blues e Choro. Sono tutti generi che implicano improvvisazione. Come quello con la storia americana e quella brasiliana. A Cuba le guerre indipendentiste contro la Spagna, le pulsioni americane di conquista dell’isola già a quei tempi, l’avvento di José Martí, considerato il padre della Patria, morto combattendo nella Guerra Necesaria…
«La musica delle radici è quella della propria storia. Gli storici normalmente partono, nelle loro esposizioni dei fatti, dall’alto verso il basso, dalla situazione generale, dai governi e mai dalla gente. La testimonianza storica di questi agricoltori, lavoratori delle piantagioni è riposta nel Changüí. Nelle loro canzoni si trova tutta la narrazione della loro vita, delle gioie, dei dolori, dei problemi di tutti i giorni. Come esiste il terroir nel vino, esiste anche il terroir di Guantánamo, che è questa musica. La storia del distretto è raccontata nei minimi particolari, giorno dopo giorno, da questi artisti, tutte persone che, per vivere, fanno due o tre lavori. Come giornalista mi attraggono le storie non ancora scritte. Benjamin Lapidus (musicista ed etnomusicologo newyorkese, ndr) ha scritto un libro sul Changüí, Origins of Cuban Music and Dance: Changüí (2008). Non sono un etnomusicologo, non ho gli strumenti per elaborare certe teorie. Ti dico solo che il Changüí tradizionale non è molto conosciuto fuori da Guantánamo e che, per questo, conserva tutto il suo potenziale espressivo».

Come ne sei venuto a conoscenza?
«Quindici anni fa mi trovavo a Manzanillo (città sul golfo di Guacanayabo, nel distretto di Granma, ndr), inviato da NPR (National Public Radio, una delle maggiori emittenti americane, ndr). Dovevo andare in onda, c’era Fidel Castro che parlava. Qualcuno aveva una cassetta di Changüí tradizionale che faceva suonare in un registratore. Incuriosito, ho chiesto in giro che tipo di musica fosse e tutti mi risposero che il Changüí erano Elio Revé e suo figlio Elito. Invece non era quella la musica che mi aveva incuriosito, era come se avessi ascoltato Robert Johnson e mi fosse stato detto degli Allman Brothers o di Eric Clapton. Per anni ho continuato a chiedere informazioni sulla tradizione Changüí, ma nessuno mi ha potuto dire altro se non che gli esponenti del genere erano Los Van Van e Revé, tutti musicisti che fanno ottima musica, ma moderna e urbana. Questa è considerata Changüí dalla maggior parte dei cubani e dai fan della musica cubana in tutto il mondo, ma non era quella che avevo sentito, un suono “rustico”, acustico come dire, loose but tight. L’unico modo per saperne di più era andare direttamente a Guantánamo e scoprirlo da solo. La mia intenzione originale era confezionare un pezzo per NPR di cinque minuti su quella musica, ma nessuno aveva dei Cd, quindi ho dovuto registrarli mentre suonavano. Il progetto originale s’è sviluppato in un altro e sono caduto in un vortice di due mesi durante il mio primo viaggio, che poi è diventato un’odissea di registrazione di due anni e mezzo».

Dovevi fare un semplice servizio e invece…
«…Invece sono stato coinvolto in un mondo incredibile. Dal “semplice” lavoro che dovevo preparare mi sono ritrovato a viaggiare per due anni nei paesi del distretto di Guantánamo, ascoltando vari gruppi e registrando oltre 250 brani. Nel box set ne ho selezionati 51 (qui il video promo del lavoro, ndr). Come avrai potuto sentire, c’è una caratteristica fusione di culture che trovi solo in questo luogo. Ti consiglio di leggere Cuba and Its Music: From the First Drums to the Mambo di Ned Sublette, quasi settecento pagine, un libro scintillante, dove capisci come il rock’n’roll proviene da Cuba, passando prima da New Orleans con il Rhythm&Blues. È una collisione di ritmi africani, melodie spagnole che portano con sé un bagaglio di influenze arabe. Insomma questi musicisti sono degli autostoppisti musicali!».

Finora abbiamo parlato della musica, ma, come ho letto in alcune altre interviste che hai rilasciato negli Usa e in Francia, il Changúí è molto altro…
«È danza, la musica senza ballo non esiste, ma è soprattutto comunità. Non si suona per farsi ascoltare, ma per stare insieme. Tutti possono intervenire, è un sistema aperto dove ognuno può interagire. È questa la bellezza. Su una struttura di canto fissa, un verso che viene ripetuto più volte, si inizia a inventare, inventa chi interviene nel canto, che però deve essere attinente al tema, inventano i musicisti che si chiamano ai cambi di ritmo con gli strumenti».

Gianluca Tramontana registra Las Flores del Changüí – Fotografo sconosciuto

Quali sono gli strumenti musicali generalmente usati?
«Di base sono tre, il Tres, tipo di chitarra che esiste solo a Cuba, con sei corde raggruppate in tre coppie, la Marímbula (una sorta di cassa acustica con delle linguette di acciaio, un basso ante litteram, ndr) e il bongo, l’equivalente del nostro “chitarra, basso e batteria”! In più ci sono il guayo (strumento idiofono a raschiamento, ndr) e le maracas. Gli strumenti in genere sono costruiti in casa, sono “rustici”. Quando se lo possono permettere, i musicisti si comprano anche ottime chitarre. C’è un gruppo che mi è rimasto nel cuore, Las Flores del Changüí, composto da sole donne. Floridia Hernández Daudinot, la fondatrice, suonava un Tres ridotto male. Quando le ho registrate e portate a mixare, non si potevano ascoltare. Quindi, sono ritornato a Cuba, con un Tres nuovo che le ho regalato e abbiamo inciso nuovamente». Ascoltate Guarijira.

Il suono di Tres, Marímbula e bongo creano quell’atmosfera festosa…
«I tre strumenti si connettono e si chiamano tra loro, improvvisando uno sull’altro. Il Changüí è come un brano pop. C’è un verso, che poi nessuno ricorda, poi c’è un coro che va e va e va e non finisce più. Un brano può durare pochi minuti come mezz’ora o più, dipende dalla situazione in cui ci si trova. Ci sono feste che continuano un intero weekend. Alcuni brani esistono come canzoni, con musica e parole codificate, ma in genere è tutto una “chiamata e risposta”. È musica per la comunità dove tutta la comunità può collaborare. Il circolo è aperto, si canta, si balla, il Tres chiama il bongo che a sua volta chiama la Marímbula. Quando lo ascolti dal vivo cadi in questa spirale, è una sensazione indescrivibile. Nelle registrazioni ho cercato di farla percepire. Ho lasciato che i musicisti si disponessero nel modo migliore, normalmente in cerchio, e ho registrato. In alcuni brani si sentono in lontananza gli uccelli che cantano e i maiali che grufolano. Ho fatto il giornalista, non il produttore. Volevo testimoniare un’esperienza e una storia».

Gianluca Tramontana – Foto di Kate Peila

Il box set è uscito il 30 luglio: com’è stato recepito negli Stati Uniti?
«Molto bene, sono soddisfatto! Nelle classifiche del circuito NACC (North American College and Community Radio Chart, ndr), è stato al primo posto per il genere Latin otto settimane consecutive, nella top assieme a Yola e Billie Eilish… L’ascolto delle radio dei college è molto importante, perché vuol dire che i ragazzi hanno trovato nel Changüí una ragione di divertimento, musica e ballo, significa che è un genere che ha colpito il cuore! Quando fai un progetto non sai se piacerà o meno. Volevo presentare la musica per quello che è, tradizionale ma anche moderna. L’ho proposta come se fosse una collezione pop, perché è accessibile e importante visto che ti racconta una storia».

Gianluca tu hai una teoria sulla musica, giusto?
«Per me la musica senza ballo non esiste. Mi spingo a dire che non è un’arte ma un’esigenza primaria per l’uomo, come bere, mangiare, dormire. Era così mille, duemila, diecimila anni fa, e la musica e il ballo viaggiano insieme. Volendo fare una distinzione, secondo me esiste la “Musica Arte”, che si fa in privato, vene scritta, prodotta a casa propria e, magari, un disco nato quattro anni prima, vede la luce senza un’attualizzazione perché si decide di proporlo al mercato. E poi c’è la “Musica folclorica”. Non è un genere, è musica che si suona all’aperto, dove la gente può partecipare. Una musica che si crea lì e che rimane irripetibile, perché è stata eseguita in quel preciso momento. Nel box set, c’è un brano, De aqui pa’ Italia, di Mikiki and his Brothers, che racconta proprio di me. Se la sono inventata al momento e l’ho cristallizzata nella mia registrazione».

Avrei potuto restare a parlare con Gianluca per ore. Con questo box set è riuscito a costruire un piccolo capolavoro in nome del valore sociale e artistico della musica, ad aprire uno spaccato su una piccola regione cubana e su una delle più belle e interessanti storie dell’isola. Come scrive nella presentazione Arturo O’Farrill, musicista, compositore e fondatore della Afro Latin Jazz Orchestra: «Gianluca Tramontana ha scoperto che l’essenza della vita può essere ridotta (o amplificata) alla semplice pratica di suonare il tres, pizzicare la marímbula, percuotere il bongo o “grattare” il guayo. Ha scoperto che nel pantheon degli eventi della vita niente – e sottolineo, niente – è più importante di afferrare la nostra vita e usare la musica del changüí per prendere in mano e plasmare i nostri cuori in modo da averne sempre il controllo, non importa quale sia il nostro quotidiano».

Interviste/ Fabrizio Sotti, l’italiano che ha avuto la fortuna di fare la storia della musica americana

Prima di mettermi a scrivere questa lunga intervista, un’ora di collegamento via Skype a New York, mi sono dedicato a un doveroso “ripasso”, andando a recuperare album che non ascoltavo da parecchio tempo. Nell’ordine, Money Jungle, anno d’uscita 1962, disco gigantesco, il blues in jazz inteso da Duke Ellington, al pianoforte, Charlie Mingus al contrabbasso e Max Roach alla batteria. Quindi, anno 1965, Smokin’ at the Half Note, registrazione live di un concerto del chitarrista Wes Montgomery & Winton Kelly Trio. E qui già stiamo entrando nel personaggio. Il suono della chitarra di Wes è vellutato, di una romantica, voluta opacità (ascoltate Impressions). Infine, ancora in cuffia, anno d’uscita 1968, Electric Ladyland, terzo e ultimo disco (doppio) inciso da Jimi Hendrix nella formazione The Jimi Hendrix Experience con Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Ricordate – e come non ricordarle! – Voodoo Chile e Crosstown Traffic?

Fabrizio Sotti – Foto Marco Glaviano

Bene, ora sono pronto! Con l’inconfondibile dialogo di Hendrix e la sua Fender Strat vi presento Fabrizio Sotti, 45 anni, padovano di origine e newyorkese d’adozione. È un musicista e compositore, jazz di predilezione. Ma è anche un producer, ha fondato e gestito etichette discografiche, ed è un autore. È un chitarrista, uno straordinario chitarrista, che non disdegna altri generi musicali, dal rock al pop all’urban. I personaggi con cui ho iniziato questo post non sono stati scelti a caso, sono una piccola, ma sostanziosa parte della sua formazione, le ragioni per cui Fabrizio ha iniziato a suonare giovanissimo la chitarra, ad amare il jazz e a colorare la sua musica con la maestosa psichedelica bravura di Hendrix. Così sono pronto a “sbobinare” la lunga chiacchierata con questo artista che ha rotto i canoni del classico musicista: la storia della sua vita, la musica, le contaminazioni musicali, la Ferrari (capirete…) ma anche il lockdown negli States, le ansie e il mondo che verrà…

Partiamo dall’inizio: come ti è venuta la passione per la musica e per il jazz?
«È stata mia nonna paterna che suonava il pianoforte, musica classica, a iniziarmi e a  insegnarmi i fondamentali. Avevo cinque anni. A nove sono stato attratto dalla chitarra, amore a prima vista, e ho iniziato a studiarla seriamente. Crescendo mi sono appassionato ai grandi del jazz, Wes Montgomery ma anche John Coltrane, Duke Ellington, Miles Davis. E poi Jimi Hendrix. Erano gli anni Ottanta e a Padova non c’erano scuole che insegnassero seriamente il jazz, al di fuori di qualche maestro privato. Andavo da “Ricordi” a comprare i manuali di jazz della Berklee College of Music. A 14-15 anni ho iniziato a suonare (e lavorare) come professionista, facevo il turnista, con Leandro Barsotti, Angela Baraldi, Samuele Bersani. Ho avuto la fortuna di avere un trio con con Ares Tavolazzi e Mauro Beggio, bassista e batterista grandissimi, con i quali ho imparato molto. Poi il Fabrizio Sotti Mob Group jazz/fusion con Francesco Lomagistro alla batteria e Christian Lisi al basso…

Insomma, una carriera iniziata bene…
«Sì, ma presto mi son reso conto che, se volevo crescere, diventare davvero bravo, coltivare la mia passione, dovevo andarmene dall’Italia. La scena musicale italiana, a parte poche eccezioni, anzi, l’Italia in sé, non aveva grandi maestri, anche di vita…

Quindi?
«Quindi a 16 anni ho avuto il coraggio di andarmene a New York, avevo qualche contatto di musicisti… ma sono ripartito da zero per la lingua e la musica. Avevo le nozioni di base, però avevo capito che al di là delle ore di studio dello strumento, per imparare davvero dovevo suonare con bravi musicisti. Il bello del circuito jazz newyorkese è che, se sei serio e bravo, ti accolgono, sei uno di loro. Così mi sono trovato a suonare con grandi nomi, con il bassista Steve LaSpina, i batteristi Victor Jones e Al Foster, i bassisti John Patitucci, Mark Egan e Jeff Andrews, il trombettista Randy Brecker… Suonare con dei grandi musicisti è la migliore scuola. Ho 45 anni ma non si smette mai di imparare, ancora oggi studio e sono sempre alla ricerca della mia voce più profonda».

Sei poi tornato in Italia?
«Sì, nel ’95 per fare il militare. Sono finito alla base Nato di Aviano, proprio nel periodo delle guerre in Jugoslavia e degli interventi americani i cui aerei partivano da lì. Un momento della mia vita di cui non amo parlare, una brutta esperienza».

Poi sei ripartito per gli Usa…
«Sì, a settembre del ’96 sono ritornato in America e lì son rimasto. Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza difficile, la musica mi ha salvato».

Tu non sei “solo” un chitarrista jazz, sei anche molto altro…
«Sono sempre stato uno curioso. Mi piace tutta la musica, o meglio, per citare Duke Ellington, “Ci sono due tipi di musica: la buona e… tutto il resto”. Ascolto di tutto, basta sia valido, abbia qualcosa da dire. Per questo mi sono avventurato da sempre anche fuori dal jazz, mi incuriosiva molto la parte di produzione della musica e scrivere canzoni. Al mio rientro a New York ho creato un piccolo studio e ho intrapreso centinaia di collaborazioni con musicisti urban, hip hop, R&B. Oggi sono musicista, produttore e scrittore. Sai, dell’ambiente del jazz, soprattutto europeo, non sopporto lo snobismo verso gli altri generi, che qui non esiste. Michael Brecker, grande sassofonista, aveva un’attitudine rilassata verso la musica, quando sai chi sei e cosa fai non devi temere nulla…».

Una vena polemica?
«Non tollero gli opinionisti, quelli che sanno tutto e giudicano. Io mi faccio gli affari miei. Questa è una delle ragioni per cui me ne sono andato. Negli States nessuno ti dice nulla e vale un principio: se suoni bene esisti sennò non esisti. Punto».

Per questo in Italia hai fatto poche collaborazioni?
«Ne ho fatte alcune di cui vado fiero. La prima con Zucchero, contenuta nell’album A Fiew Possibilities del 2014, Someone Else’s Tears (bonus track contenuto nell’album Chocabeck del 2010, il cui testo è stato scritto da Bono Vox, n.d.r.). La seconda, del 2017, con Clementino per il brano La cosa più bella che ho (dall’album Vulcano, n.d.r.), dove ho suonato la chitarra e curato la produzione. Lo stesso per la terza, Angeli e Demoni, canzone uscita nel febbraio dello scorso anno, con il rapper Mondo Marcio (Gian Marco Marcello, contenuta nell’album UOMO!, n.d.r.) e Mina… Hai notato la chitarra com’è predominante? Un Il testo di quest’ultima canzone fa riflettere molto, la musica ti può dare emozioni positive e riflessioni utili».

Per il discorso di cui sopra, qui sono in molti a criticare Zucchero…
«Zucchero è sempre stato innovativo, ha un suo sound ed è uno dei più grandi artisti che abbiamo in Italia»·

Gli altri chi sono?
«Chi erano: Pino Daniele, con cui coltivavo una grande amicizia, e Lucio Dalla con il quale avevo suonato quando ero un ragazzino. A questo proposito ti do un’anteprima, non l’ho detto ancora a nessun giornalista: prima che scoppiasse il problema del virus e si chiudesse tutto, con Rachel Z., pianista che ha suonato in molte tournée di Pino, e con suo marito, il batterista Omar Hakim, abbiamo deciso di preparare un omaggio a Pino. Rachel l’ho conosciuta negli anni Novanta, perché avevo preso in affitto il suo appartamento per alcuni mesi proprio mentre lei era in concerto con Pino in Italia. Poi ha sposato Omar. Quindi siamo tre amici che hanno preparato un tributo a un amico che non c’è più, un disco con sue canzone rivisitate da noi con special guests, cantanti e rapper, grossi nomi, ti basti sapere questo, non posso dirti di più. Dovevamo presentarlo anche in Italia, con una serie di concerti, ma s’è dovuto rinviare tutto al prossimo anno…».

Fabrizio Sotti – Foto Marco Glaviano

Passiamo a un altro capitolo della tua vita: hai firmato la riedizione di una chitarra mitica per un jazzista, costruita negli anni Trenta, la D’Angelico Premier Fabrizio Sotti SS…
«È una storia curiosa, John D’Angelico era un liutaio aveva aperto un negozio in Little Italy a New York nel 1932. Figlio di italiani, ha creato delle chitarre favolose diventando il punto di riferimento dei musicisti dell’epoca. Lui è morto negli anni Sessanta e via via l’azienda, passata per varie esperienze, aveva finito per chiudere. Sei, sette anni fa una cordata di investitori americani l’ha riaperta e, per riportarla alla vecchia gloria, ha chiamato alcuni chitarristi a rappresentarla (oltre a Fabrizio c’è Bob Weir, dei Grateful Dead, e Kurt Rosenwinkel, n.d.r.). Sono molto orgoglioso di essere un italo-americano di “nuova generazione”, è il traguardo di tanto lavoro fatto. Ho avuto fortuna di fare la storia della musica americana lavorando assieme a Cassandra Wilson, Dead Prez, Whitney Houston, Jennifer Lopez, Ice-T, Shaggy… Sono soddisfatto, ma sempre alla ricerca di nuovo. A 45 anni inizio a tirare le somme, anche se sono ancora a meno della metà dell’opera!».

Apriamo un altro di capitolo: la tua passione per le Ferrari…
«È uno di quei desideri che ti vengono fin da bambino. È un brand che racchiude in sé un’essenza mistica per il sogno che rappresenta. Con i miei primi soldi veri guadagnati, non avevo nemmeno comprato casa, ho acquistato una F355. Da allora ne ho avuto molte, sono stato “usato” anche come testimonial dalla casa di Maranello. Ti confesso che preferisco i modelli più “vecchi”, dove l’uomo può mettere la sua tecnica di guida, oggi vanno da sole! Andavo anche in pista. Ora non lo faccio più, sono sposato e ho una bambina, altre responsabilità…».

Velocità e musica che connessione hanno?
«La stessa sensazione: quando sono alla guida e quando suono, è un’emozione. Una grande, forte emozione».

Fabrizio veniamo al Covid19 e al lockdown: niente concerti niente produzioni, niente dischi, niente…
«È tutto sospeso. Pubblichi dischi per andare poi in giro per il mondo a fare concerti, è così che puoi guadagnare. Penso che per un anno non si suonerà più nei club per mantenere il “social distancing”. Sai, credo che non torneremo più alla normalità come eravamo abituati a viverla. Dovrò riorganizzarmi. Io, che per fortuna ho diversificato le mie attività, avendo scritto e prodotto canzoni di successo resisto ancora, ma penso a come faranno a sopravvivere i musicisti che suonano soltanto. E quello che ci sta succedendo oggi è un fallimento dell’umanità. Così perdiamo musica, libri, cultura, l’arte…».

Sarà brutale…
«Lo dico consapevole di pronunciare parole “tragiche”: tra un anno ci saranno meno della metà dei musicisti attivi oggi. Sarà un dura selezione naturale, soprattutto per il jazz. La “classe media della musica» – e nel jazz è praticamente tutta classe media – rischia di venire cancellata. Sono un positivo di natura, non mi sono mai fermato davanti niente, ma questa situazione mi fa sentire impotente».

Memento/ I Beatles cantano sul tetto, i Kiss salgono sul palco

L’ultima esibizione all’aperto dei Beatles risale a 51 anni fa, sul tetto della Apple Records, la loro casa discografica. Quel mattino freddo e umido, il classico grigio-Londra, i Fab Four con il tastierista Billy Preston, si esibiscono davanti a una quindicina di persone, tra cui due impettiti e imbarazzati poliziotti saliti sul “rooftop” con l’intento di staccare gli amplificatori a causa del volume alto ed evitare ingorghi per la gente che si stava raggruppando sempre più numerosa al 3 di Savile Row. L’esibizione, in realtà, non fu un concerto (vennero suonati 4 pezzi, alcuni registrati più volte, Get Back, Don’t Let Me Down, I’ve Got A Feeling, The One After 909 e Dig A Pony) da inserire nel film Let It Be. L’anno successivo, il 10 aprile del 1970, la band si scioglierà definitivamente. Alla fine delle registrazioni John Lennon, che per ripararsi dal freddo indossava una pelliccia di Yoko Ono (le maniche gli arrivavano a metà avambraccio), ringrazia i presenti con la mitica frase: «I’d like to say ‘Thank you’ on behalf of the group and ourselves and I hope we passed the audition» (grazie a nome del gruppo e di noi tessi, speriamo di aver passato l’audizione).

Lo stesso giorno, ma quattro anni più tardi (1973), quattro giovani rocker in attesa di fama (Gene Simmons, Paul Stanley, Ace Frehley e Peter Criss) salgono sul palco del Popcorn Pub, locale nel Queens a New York (che poi diventerà il Coventry) con i volti dipinti ispirati al teatro giapponese Kabuki, e gli aderenti abiti in pelle. Nasce così la leggenda dei Kiss, band che riceverà in carriera 30 dischi d’oro, 14 di platino e 3 di multiplatino per gli oltre 130 milioni di dischi venduti nel mondo.