Esce Let me Play, Let me Pray, disco in solo di Nico Morelli

Oggi esce su tutti gli scaffali, fisici e digitali, Let me Play, Let me Pray, il nuovo lavoro di Nico Morelli, pianista di Taranto da anni residente a Parigi. Di lui e della sua musica vi avevo parlato in un post uscito nel maggio di due anni fa. La casa discografica è la Tǔk Music, sempre attenta a proporre artisti mai banali né tantomeno scontati. Un disco in piano solo è un’arma a doppio taglio, così almeno la pensa lo stesso Morelli, momento importante per la carriera di un musicista ma anche piuttosto rischioso, visto che un intero album suonato sempre dallo stesso strumento può stancare l’ascoltatore.

Per evitare la noia Nico ha tirato fuori il meglio del suo sapere far arte: un lavoro di 56 minuti per 16 brani, inciso rigorosamente live, senza post produzioni, dove il protagonista è il pianoforte, in questo caso uno Steinway and Sons della serie D, a coda, con un suono potente, caldo e ricco di sfumature. Unito, però, a una loop station, una diamonica (strumento ad ance con tastiera), un tamburello e la cassa del piano usata come percussione. Oltre agli strumenti estemporanei che usa regolarmente durante i suoi concerti solisti, Morelli si è avvalso anche dell’aiuto di due sound designer che hanno modificato il suono in presa diretta, trasformando il pianoforte, come un camaleonte, in cascate di suoni eterei, chitarre elettriche, campanelle.

Continua a leggere

Tre dischi “latini” tra impegno e storie

Nella musica latina, dopo un’orgia di brani commerciali si iniziano a vedere prodotti di qualità. Sempre di cumbia, rumba, bolero, samba si tratta ma presentati con un gusto “di ritorno” che riporta a un uso meno mainstream e più profondo, soprattutto nell’uso dei testi, nell’impegno, nella volontà di proporre buona musica dove ormai si credeva di aver detto tutto. 

Oggi vi propongo tre lavori diversi tra loro di matrice “latina”. Il primo in ordine di uscita è di Caxtrinho, un giovane  fluminense cresciuto nella periferia di Rio de Janeiro che fa una moderna reinterpretazione dei classici samba e bossa con una chitarra elettrica per nulla accomodante, i secondi vengono da San Francisco, sono un duo, Los Yesterdays di matrice Chicano-Soul, come loro stessi si definiscono, e la terza arriva da Los Angeles, si fa chiamare La Doña. Ha dato alle stampe un disco impegnato e duro nonostante i ritmi siano quelli morbidi latini, sinuosi e accattivanti. Aspetto i vostri commenti, il feedback è gradito!

Continua a leggere

Palladio a Palla! Arriva il jazz dei GOGODUCKS

I GOGODUCKS. Da sinistra, Luca Zennaro, Sergio Zacco, Francesca Remigi, Paolo Peruzzi – Foto Elisa Caldana

Titolo e nome della band sono sufficienti ad attirare l’attenzione: Palladio a Palla!, firmato GOGODUCKS (tutto maiuscolo). Sulla cover del disco che esce domani, 6 settembre, la pianta di Villa Almerico Capra a Vicenza, conosciuta come La Rotonda, uno degli edifici iconici dell’architetto Andrea Palladio, che la disegnò 458 anni fa. 

Il progetto, intrigante e ambizioso, di traslare in musica l’architettura neoclassica palladiana ma anche di renderla emozionalmente viva attraverso un jazz contemporaneo di ricerca è venuto a tre giovani musicisti italiani, Francesca Remigi, 27 anni, batterista particolarmente dotata (di cui vi ho parlato spesso su questo blog, per esempio qui e qui), Luca Zennaro, 27 anni, chitarrista e Paolo Peruzzi, 30 anni, vibrafonista. La prima bergamasca, gli altri due veneti. Paolo e Francesca si sono conosciuti a Boston al Berklee School of Jazz, Luca e Paolo, invece, alla Fenice di Venezia. Al trio si aggiunge il creative coder veronese Stefano Zacco che ha lavorato in alcune tracce del disco.

Fatte le presentazioni veniamo al disco: 9 brani per 43 minuti d’ascolto, che corrispondono ad altrettante ville palladiane. Un lavoro che il trio si è equamente diviso, «33,33 periodico», mi ricorda Paolo Peruzzi, componendo tre brani per tre ville scelte da ciascuno. Ne è nato un lavoro fortemente individuale dal punto di vista compositivo ma altrettanto fortemente corale, dove le creatività di Francesca, Paolo e Luca sono confluite in una sessione di lavoro in residenza e hanno trovato l’equilibrio in sala d’incisione, nello studio Artesuono del mitico Stefano Amerio in quel di Tavagnacco, una decina di chilometri a nord di Udine.

Continua a leggere

Tre dischi per cinque musiciste tra jazz e roots

Per il fine settimana ho deciso di proporvi tre nuove uscite tutte al femminile. Artiste diversissime tra loro, che spaziano dal Blues al samba-jazz passando per il bluegrass, la roots music americana, collegata a quella cinese. A mio modo d’ascoltare sono tutte molto interessanti, soprattutto l’ultima in puro Worldwide. Quindi, mettetevi comodi e volate tra ritmi e paesi che riescono ancora ad emozionare…

Continua a leggere

Tre dischi da ascoltare… from Brazil!

Ritorno da voi dopo una settimana di relax con tre dischi di recente uscita. Tutti e tre arrivano dalla cultura musicale brasiliana, una delle mie passioni, lavori legati alle armonie “classiche” della bossa, del samba e della musica popolare latino americana, un terzo tra bossa, jazz e psichedelia che vede protagonisti due musicisti incredibili, Milton Nascimento ed Esperanza Spalding. 

Continua a leggere

Antonio Faraò, con Tributes emozioni in jazz

La parola “tributo” porta in sé il concetto di corresponsione. In senso affettivo, più che un’azione materiale è un’offerta per qualcosa di bello e di positivo che si ha ricevuto nella vita e che merita, dunque, un atto di riconoscenza. Proprio in questa direzione va Tributes, lavoro firmato da Antonio Faraò, uscito il 14 giugno scorso, pubblicato dalla prestigiosa etichetta jazz olandese Criss Cross. Dieci brani per un’ora e quattro minuti di ascolto, otto originali e due standard, I Love You e Matrix, con i quali il pianista e compositore romano ha voluto ringraziare tutti quei musicisti (e luoghi) che hanno segnato la sua formazione artistica e umana.

Un lavoro complesso, d’altronde Faraò da sempre ci ha abituati a esperienze emotive e musicali mai banali, grazie a quel suo sicuro incedere jazz, dove il linguaggio conta, le dita volano e le note esplodono in mille fuochi d’artificio. Jazz da ascoltare, jazz fatto per emozionare, jazz usato per raccontare. 

Suoi compagni di viaggio, riuniti nel classico trio, sono due nomi “pesanti” del jazz mondiale, John Patitucci al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria. I tre si conoscono da tempo, sono praticamente coetanei, John classe 1959, Jeff 1963 e Antonio 1965, hanno suonato con il gotha del jazz internazionale del Novecento, hanno ascolti comuni e tra loro un rapporto comunicativo profondo che li porta a narrare storie che conoscono bene, in alcuni casi hanno contribuito addirittura a  scriverle, e che sanno raccontare con il cuore e con l’esperienza.

Continua a leggere

Moreno Conficconi e Romagna 2.0: con gli E-Wired Empathy rinascerà il Liscio

Moreno Il Biondo Conficconi – Foto Elisa Magnoni

Si appassiona mano a mano che racconta, è un fiume in piena. Aperto, solare, curioso. Moreno Conficconi, conosciuto come Il Biondo, 66 anni, calca i palchi da quando di anni ne aveva 14. Clarinettista dell’orchestra Casadei «abbiamo fatto 330 serate all’anno per 15 anni», mi racconta, sta vivendo una seconda vita artistica. Dopo l’esperienza con gli Extraliscio s’è imbarcato in un progetto in cui crede fortemente. 

Ne va della salvezza e della nobilitazione del Liscio, musica da ballo, fieramente da sagra paesana e poco d’ascolto. Una tradizione radicata soprattutto nella sua Romagna. Il liscio ha un’anima musicale forte, basta saperla scoprire e aprirsi al dialogo con musicisti di altra estrazione. Con questo spirito esce proprio oggi Romagna 2.0, album che Il Biondo firma con gli E-Wired Empathy, una vecchia conoscenza di Musicabile. Apparentemente due realtà incomunicabili. Apparentemente… In realtà il disco che vi consiglio di ascoltare attentamente e senza pregiudizi dà il via a una nuova rilettura di una musica folclorica che ha un peso nel nostro Paese. Come è stato per la Taranta Salentina, quando Stewart Copeland, storico batterista dei Police, si innamorò a tal punto da farne uno spettacolo che ha portato in giro per il mondo. Continua a leggere



Luciana Morelli, il canto e le parole affidate al vento

para reconocer en la sed mi emblema 
para significar el único sueño
para no sustentarme nunca de nuevo en el amor
he sido toda ofrenda
un puro errar 
de loba en el bosque
en la noche de los cuerpos
para decir la palabra inocente

(Los Trabajos y Las Noches, Alejandra Pizarnik)

Words of the Wind è il titolo del terzo album di Luciana Morelli, musicista, cantante e compositrice argentina residente a Basilea, uscito il 7 giugno scorso per Habitable Records, etichetta nata tre anni fa grazie all’intraprendenza e alla scommessa di otto giovani musicisti capitanati dall’argentino Javier Subatin. Tra questi “saggi” c’è anche c’è anche una preziosa conoscenza di Musicabile, Francesca Remigi. 

Un album bello, ricco di chiaroscuri a pennellare un progetto che parte dalle poesie di quattro autrici di epoche diverse: l’inglese Emily Brontë, vissuta nell’Ottocento, l’argentina Alejandra Pizarnik, una delle voci controcorrente del Novecento latinoamericano, suicidatasi ad appena 36 anni, nel 1972, la newyorkese trentaseienne Robin Myers, appassionata di letteratura iberoamericana, e la settantaquattrenne canadese, poetessa e saggista Anne Carson.  Su queste solide basi Norelli ha basato le sue composizione, andando ad armonizzare versi e armonie. Continua a leggere



Gli Wes Or No Trio ritrovano Montgomery con “Watch What Happens”

Da sinistra, Simone Basile, Giovanni Paolo Liguori e Manrico Seghi

Il 19 luglio prossimo uscirà sugli scaffali digitali e fisici Watch What Happens, secondo lavoro del Wes Or No Trio, giovane formazione jazz composta Simone Basile alla chitarra, Manrico Seghi all’Hammond e Giovanni Paolo Liguori alla batteria. 

Wes, chitarra, Hammond… gli indizi non possono che portare in un’unica direzione. Wes è il grande Wes Montgomery, colui che rivoluzionò la chitarra jazz negli anni Cinquanta e Sessanta, e gli strumenti usati dal trio di cui sopra, si rifanno al modo di concepire la band del musicista di Indianapolis: si può fare buon jazz anche abbandonando il contrabbasso, elemento dirimente in un trio, sostituendolo con un organista (nonostante le critiche feroci ricevute dai puristi del jazz di allora che tacciarono l’artista d’essere troppo commerciale).  Continua a leggere



Petrigno, blues e rumore per parlare la Lingua del Santo

A fine aprile è uscito il primo disco di Marco Petrigno, cantautore, bluesman e pittore palermitano. Il titolo incuriosice, La lingua del Santo (via Vina Records), otto tracce che trasudano dolore, sofferenza, visioni apocalittiche. In effetti di un’apocalisse si tratta. Un’apocalisse personale dove il roots blues ci calza alla battuta. Chitarre stridule, resofonica metallica fino all’asprezza, synth che creano tappeti profondamente cupi, disegnando oscurità nel pentagramma. 

Può sembrare un ossimoro uscire con un lavoro così in un momento, come la primavera che prelude all’estate e alla voglia di sole e fancazzismo. Una risposta la dà lo stesso artista, consapevole di questa forzatura: «La lingua del Santo è un disco che principalmente serviva a me. Che mi mancava. È come se senza dolore fossi nulla. A volte mi sento come se ci siano dei posti dentro la mia testa dove non posso andare neanche io. Malessere ed irrequietezza. Sentirsi fuori posto, inesatti. Scomodi. Il disco è uno sfogo del mio malessere, la mia musica lo è solitamente», spiega Marco. Continua a leggere