Nico Morelli e il suo American Trio per rivivere la pizzica in jazz

Nico Morelli – Foto Pino Mantenuto

Il motivo del post di oggi ha un nome, un cognome e anche un indirizzo. Nico Morelli, di Crispiano, paese del tarantino di 13mila abitanti, parigino d’adozione da oltre 20 anni. Residenza: via del Jazz, angolo vicolo della musica popolare. 

Sono affascinato dalle contaminazioni, come mi racontava l’altro ieri Lorenzo Pasini, perché creano sempre qualcosa di nuovo e di interessante. Nico Morelli, di professione pianista e compositore – lavori che con lui diventano sempre viaggi e incanti – è un contaminatore culturalmente attento e creativo. Il centro del suo studio, che dura da molti anni, è fondere la cultura popolare della sua terra, la Pizzica e la Tarantella, con quella del jazz di tradizione americana. 

Due mondi che hanno più punti di contatto di quanti possiamo immaginare. La prova è la musica di Nico. La ragione per cui ve ne parlo è che il pianista tarantino è in tournée in trio con due musicisti americani, il versatile contrabbassista dell’Indiana Hilliard Greene e l’altrettanto fantastico batterista canadese Karl Jannuska. Partito dalla Francia, il Nico Morelli American Trio sarà in Italia da domani e ci resterà sino al 10 maggio, per una serie di concerti fra Taranto, Torino, Andria e Biella. Ne approfitto: per chi sarà a Milano, il 22 maggio, nella cornice di Piano City, Nico suonerà al Magnete, quartiere Adriano…

Ammetto, sono curioso di ascoltare questo trio. Soprattutto di capire come Greene e Jannuska interpretano il folk pugliese rivisto dagli arrangiamenti jazz di Morelli. Il jazz che sposa la pizzica, è un bel matrimonio, se consideriamo quanto, grazie alla Festa della Taranta, il folk pugliese abbia catalizzato l’attenzione di appassionati e musicisti di tutto il mondo. 

Del connubio ne avevo parlato già quando vi presentai l’Orchestra Popolare del Saltarello e il suo ideatore, Danilo Di Paolonicola. Lì c’era più World Music, qui è più espressamente un linguaggio jazz, la ratio comunque non cambia. Il progetto che i tre musicisti stanno portando in giro lo si può spiegare con un neologismo che l’artista tarantino ha coniato ormai da da anni, Un(folk)ettable (che poi è il titolo di due suoi album, Un(folk)ettable, del 2007 e Un(folk)ettable Two del 2016: vi invito ad ascoltare alcuni brani). E cioè, ridare freschezza e attenzione, attraverso nuovi spunti e sonorità, alle canzoni tradizionali, creando così un qualcosa di nuovo, potente, allegro. C’è festa, danza, canto, poesia in tutto questo. Una carica vitale che non può lasciare indifferenti.

Ho raggiunto telefonicamente Nico in una delle tappe francesi del suo tour…

Jazz e pizzica hanno origini “comuni”?
«Sono due generi che nascono dal popolo. Il jazz si è arricchito di musiche provenienti da tutto il mondo, in un secolo il suo sviluppo è stato enorme. La musica folk del Sud Italia è rimasta pressoché uguale, anche se poi negli anni ha subito delle mutazioni. Unirli non è una forzatura, anzi, con il jazz il folk pugliese si è sviluppato più armonicamente».

Quando hai deciso di dedicare il tuo studio e lavoro al folk-jazz?
«L’idea mi era venuta negli anni Ottanta da una domanda che mi ero posto (sono uno che se le fa per qualsiasi cosa!): che senso ha che un pugliese si appassioni al jazz? Non è più naturale cercare di seguire la mia cultura? Allora non avevo una risposta perché ero acerbissimo, disponevo ancora degli strumenti per poter realizzare la mia idea. E cioè, seguire la mia passione, che era il jazz, mantenendo salde le mie radici culturali. Nel 2006 ho cominciato a scrivere il primo album Un(folk)ettable, solo che era difficile trovare una casa discografica disposta a pubblicarti».

L’hai trovata poi…
«Sì, in Francia, dove sono molto più attenti e aperti a questi generi. Dopo quel lavoro ho capito che potevo e dovevo continuare su quella strada».

Suoni da anni con jazzisti di tutto il mondo, com’è sentita la tua musica?
«Per i jazzisti è sempre qualcosa di estremamente stimolante, son ben felici di uscire dai binari classici del genere e sempre ben disposti ad aprirsi ad altre culture. Il rapporto con la musica deve essere sempre di “scoperta”. I musicisti, soprattuto quelli d’Oltreoceano, quando ascoltano i miei lavori hanno un atteggiamento di estrema curiosità. Vogliono conoscere tutto su pizzica e tarantella, avere più informazioni possibili, che puntualmente fornisco attraverso storie che racconto sempre con piacere».

Il tuo ultimo album pubblicato, Un(folk)ettable Two, risale a sei anni fa…
«Non avverto tutta questa urgenza di produrre dischi. Perché una volta sugli scaffali fisici e virtuali, dopo 15 giorni dall’uscita sono già dimenticati da tutti».

A cosa serve allora fare un album?
«A fissare un percorso e farlo diventare un biglietto da visita del mio lavoro. Da anni ormai il disco ha perso quella funzione che aveva e che lo rendeva unico e cioè essere opera d’arte. Oggi viene prima la visibilità del musicista non la sua musica».

Parliamo del tour: come l’hai costruito?
«Suoniamo arrangiamenti di musiche del folk pugliese e mediterraneo. Ho preso melodie e ritmi di queste canzoni dando loro sonorità da trio che tengono conto delle personalità dei musicisti che mi accompagnano. A volte c’è più jazz e meno folk, altre il contrario».

Dove stai concentrando le tue ricerche folk?
«Soprattutto nel Salento, dove sono nato. Da adolescente sono cresciuto ascoltando Pino Daniele, per me un esempio, una chiave importante: scrivere canzoni su idee tradizionali aggiungendo tocchi di modernità».

Come sei diventato musicista?
«Da bimbo studiavo pianoforte un po’ controvoglia, tanto che a 11 anni l’ho abbandonato. Poi , da adolescente, sono entrato in gruppi di musica leggera. A 18 anni ho avuto la svolta e mi sono messo a studiare pianoforte al conservatorio. Ma il jazz mi piaceva troppo, quindi ho abbandonato la Classica per concentrarmi su questo genere specializzandomi in varie scuole da Siena Jazz alla Berklee School of Jazz di Boston alla Manhattan School of Jazz di New York e diplomarmi, dunque, in jazz al conservatorio di Bari. Nel 1993 ho pubblicato il mio primo disco, Behind the Window; nel ’98, per una coincidenza, il trombettista Flavio Boltro mi invitò a suonare a Parigi. Decisi di rimanere un mese per vedere com’era il mondo degli artisti nella Ville Lumière. Ne ho conosciuto molti, venivano da tutto il mondo, Argentina, Brasile, Nord Africa, paesi dell’Est e del Nord Europa. Tanti mondi diversi con cui ho collaborato, mettendo nella loro musica anche un po’ della mia storia e viceversa. Ho fatto un periodo di spola tra Italia e Francia per poi, 23 anni fa, decidere di vivere a Parigi, dove tuttora risiedo».

Il tuo amore per il jazz è stato un colpo di fulmine?
«No, un processo lento. Mi piaceva il jazz acustico, non riuscivo ad ascoltare gruppi che usavano suoni edulcorati da tastiere. Poi, come ti dicevo, grazie a Pino Daniele è arrivata la svolta, soprattutto quando invitò Wayne Shorter a suonare con lui. Il sassofonista americano mi fulminò perché non aveva un linguaggio canonico. Così comprai un suo disco e scoprii gli Weather Report, Joe Zawinul che ascoltai anche in un album dove suonava il pianoforte, eccezionale! Quindi Oscar Peterson, che all’inizio non mi piacque, avevo bisogno di sentire l’invenzione in tempo reale. Poi, come in una scala, gradino dopo gradino mi sono trovato dentro senza accorgermene. Il jazz funziona un po’ così, come quando bevi un buon whisky, scoprendone a poco a poco i sentori, i profumi, l’intensità, fino ad accorgerti che… sei diventato un alcolizzato! (Ride, ndr)».

Bello (e sano) ubriacarsi di jazz! Cosa ti ha conquistato del genere?
«Il fatto che nella musica popolare ci sia la stessa passionalità che c’è nel jazz. C’è in lui qualcosa di ancestrale come nel folk. Non è musica solo estetica, ma legata allo stomaco, alla terra».

Lorenzo Pasini: Material Fields e Pinguini Tattici Nucleari

Lorenzo Pasini – Foto Mattia Laser

Dopo l’intenso lavoro di Raoul Moretti presentato settimana scorsa, inizio il mese di maggio con un altro disco e un altro artista. La base è sempre la stessa, la pandemia, il lockdown, il blocco forzato degli artisti, il riuscire a comunicare in musica sensazioni, paranoie, speranze, paure.

Quello di Lorenzo Pasini, 28 anni, chitarrista dei Pinguini Tattici Nucleari, al suo primo lavoro da solista, è un racconto in una lingua che l’artista adora da sempre e che parla perfettamente, il progressive rock. Contaminato da molti altri generi, a dimostrazione di quanto Pasini sia onnivoro e affamato di musica. Così è nato Materials Fields, in una pausa tra il successo e i concerti della indie-pop band bergamasca e l’improvviso silenzio causato dal Covid. Un bel colpo nello stomaco, ma anche l’occasione per fermarsi e pensare alla musica, al lavoro fatto e al futuro. 

Diversamente da Raoul, che ha tenuto un diario fedele di quei giorni, quella di Lorenzo è narrazione-reazione. Uno stato d’animo positivo dove alla paura contrappone l’amore, ai “low lights”, i punti d’ombra, una lucente dimensione spirituale. Un disco molto personale, come Le Intermittenze della Vita, ma a differenza del primo, la pandemia è l’occasione per cercare di lavorare su se stesso come essere umano e come musicista.

Il prog è una delle mie passioni da sempre. Ascoltando questo lavoro, si percepiscono nette le trame di Steven Wilson e dei Porcupine Tree, ma anche certe chitarre acide alla Robert Fripp dei King Crimson, con escursioni nell’industrial rock di Trent Reznor e dei suoi Nine Inch Nails, vedi per esempio Someone To Blame o Sane, oppure abili fraseggi metal, lievi accenni, altra passione di Lorenzo come in Dear Walls. Se ascoltate Low Lights, il brano che apre il disco, vi troverete in cuffia un classico del prog. Si inizia con una chitarra acustica per poi partire subito con un’elettrica che ricama una melodia in perfetto stile Wilson con punte di neoprog (di allora!) alla Marillion per poi raggiungere il culmine con un assolo di bella potenza. Approfondendo con attenzione l’ascolto, per sua stessa dichiarazione, arrivano echi di Jeff Buckley e frammenti profondi di James Blake.

Un bel lavoro nel suo complesso, testi non banali, dove traspaiono le emozioni di Lorenzo in quei mesi, accompagnate da melodie che contengono le sue passioni e i suoi ascolti. Di lui mi piace proprio questo suo vivere e concepire un “mondo musicale contaminato”, l’ascoltare e il rielaborare, l’aprirsi alla musica senza preconcetti.  

Lorenzo, sei partito dalla pandemia, ma non c’è solo quella in Material Fields
«Lo spirito della pandemia aleggia, anche perché l’ho scritto, composto e arrangiato nei momenti di lockdown. Ma c’è anche molto amore, una certa critica al purismo musicale, luci e ombre che portano il disco in una dimensione spirituale».

Cosa intendi per purismo musicale?
«Un invito a non vedere alcuni mostri sacri della musica come intoccabili. La contaminazione è importante. Sul purismo con i Pinguini abbiamo avuto un’esperienza che ci ha fatto riflettere. Abbiamo partecipato al disco Faber Nostrum (uscito nel 2019, ndr). Sono stati affidati a giovani musicisti alcuni brani di Fabrizio De Andrè per reinterpretarli, filtrare l’essenza del cantautore. Abbiamo avuto non poche critiche su questo disco corale, anche se la nostra proposta, Fiume Sand Creek, è piaciuta molto. C’è chi sostiene che artisti come Faber non si possano toccare. La ritengo una presa di posizione assurda, un limite che non ha senso».

Sono d’accordo, anche perché Faber Nostrum è un bel disco che mostra De Andrè com’è realmente: un artista che ha inciso profondamente nella cultura della musica italiana…
«La chiave del linguaggio musicale sta proprio qui, creare qualcosa di nuovo contaminando. Con il purismo l’Arte non va da nessuna parte… ne parlo proprio in uno dei brani del disco, Under Crystal Domes».

Material Fields è su questa strada…
«Sì. Mi sono formato ascoltando la musica dei miei genitori, dunque gli ELP (Emerson, Lake & Palmer), Frank Zappa, i Pink Floyd. A 11 anni ho scoperto il rock, l’heavy metal… sono stato un “metallaro”, orgogliosamente Metal!».

Hai abbandonato il genere?
«Il Metal ha i suoi difetti, è molto ripetitivo, ha canoni ancora rigidissimi. Per questo sta subendo un enorme tracollo. Lo ascolto ancora, ma più o meno tutte le band sono rimaste ferme ai primi anni Novanta. Per continuare a vivere dovrebbe evolversi, contaminarsi, ma capisco, è una questione di mentalità».

Beh, il Metal proviene non a caso dalla Classica, quindi è un genere chiuso: se vuoi fare Metal questi sono i canoni… Si può dire lo stesso dei suoi fan.
«Secondo me, nei centri urbani grossi, prendi Milano, dove di musica ne gira tanta e di ogni tipo si è più portati ad accogliere nuove idee, mentre in provincia (Lorenzo viene da Villa d’Ogna paesino dell’alta Val Seriana, ndr) è più facile che si mantengano intatti certi generi musicali».

Questa tua apertura e curiosità trova, dunque, una sintesi nel tuo lavoro…
«Sì, certo. Ascolto e mi piace certo mainstream e il rock progressive. Amo la musica rock ma sono un fan dei Coldplay che sono pop».

A proposito di mainstream, c’è parecchia roba scadente in giro…
«Non sarei così negativo. Penso che nel mainstream ci siano figure molto interessanti, prendi ad esempio Marracash e Tha Supreme (lui per me è un genio!), ma anche Salmo, gli Iside, bergamaschi, una proposta molto nuova, fresca ma estremamente creativa. Mi piace molto anche Blanco…».

Foto Mattia Laser

Cosa stai ascoltando in questi giorni?
«Vangelis, Tangerine Dream, Porcupine Tree, Port Noir…».

Cambio direzione: usi molto i social per il tuo lavoro?
«Quello dei social è un grosso tema. Più passa il tempo e più sono critico verso questi strumenti. Non per il fatto che esistano, ma per come vengono usati. È incredibile che non li utilizziamo nel migliore dei modi. Le vediamo tutti le sacche di disagio e disinformazione e gli effetti negativi conseguenti. Per gli artisti sono necessari, uno strumento di lavoro, anche se li uso pochissimo. Se sfruttati bene potrebbero essere una grande opportunità, non solo nella musica…».

Sono un problema anche le concentrazioni, vedi l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk…
«Mi auspico ci sia un riassetto, che si aprano gli occhi. Il fatto che la comunicazione passi da un numero così ristretto di canali non è per niente positivo. Le grandi concentrazioni sono un problema, ci troviamo in una situazione di “quasi” monopolio».

Come gestisci il tuo lavoro nei Pinguini e la tua carriera da solista…
«Sono due modi di lavorare diversi. Nei Pinguini c’è una coralità, siamo una band! Riccardo (Zanotti, ndr) scrive testi e musiche, gli arrangiamenti sono il frutto del lavoro di tutti, quindi è inevitabile che si debbano lasciare da parte i protagonismi. Quando lavori da solo non hai compromessi, è una bella libertà e anche una valvola di sfogo».

Ai Pinguini è piaciuto Material Fields?
«Ha avuto un’accoglienza positiva, ne sono contento!».

Hai fatto tutto da solo, testi, musiche…
«Sì l’ho scritto e arrangiato interamente. Per il pianoforte, la batteria, il basso e una partitura di sassofono ho chiesto l’aiuto di musicisti, amici, con cui avevo già suonato insieme. Come Paolo Salvi al piano, con lui abbiamo condiviso le esperienze nel progetto prog precedente, i Marsyas; Marco Paganelli alla batteria, Cristiano Marchesi al basso (è stato il primo bassista dei Pinguini Tattici Nucleari) e Marco Gotti Jr. per un assolo al sax, bravo musicista di Bergamo».

Cosa ti aspetti da Material Fields? Lo porterai in tour?
«È un disco che ha dato molto soprattutto a me stesso. Sono contento di aver avuto la possibilità e la fortuna di condividere delle idee. Sto pensando a un tour in autunno, visto che ora, con i Pinguini, riprendiamo ciò che la pandemia ha interrotto e saremo in tour tutta l’estate. Che dire: non mi pongo grossi limiti!». 

Pandemia: Raoul Moretti racconta le Intermittenze della Vita

In questo periodo stanno circolando parecchi lavori di musicisti che, sempre più esplicitamente, raccontano la pandemia e i suoi effetti, lasciando parlare le note. Nonostante la guerra di Putin abbia praticamente cancellato dalle prima pagine dei media l’andamento della pandemia, dando l’impressione che tutto volga al meglio, il Covid non è affatto sparito dalla circolazione, ce lo terremo  molto a lungo, anzi, diventerà un ospite fisso, tutto sommato tollerabile grazie alle cure, come gli altri virus che ci abitano e ci vengono a far visita. 

Rimanendo sempre al Covid, nessuno di voi si sarà perso il comportamento della Cina di questo ultimo mese. L’autoritarismo forsennato del gigante asiatico ha un che di surreale, terribile, osceno. Rinchiudere tutti per salvare non le vite, ma il benessere (si presume) di tutti. Tra qualche anno, a mente fredda, avremo molto di cui parlare.

Visto con questi occhi e con gli avvenimenti di questi giorni il lavoro certosino di Raoul Moretti, gradita conoscenza di Musicabile, è importante. Avevo intervistato Raoul assieme a Beppe Dettori alcuni mesi fa, quando uscì un gran bel disco a loro firma, Animas (ne parlai in questo post).

Il 9 marzo, esattamente il giorno del primo lockdown (lo ricordo benissimo perché quel maledetto lunedì di due anni fa mi salì una febbre da cavallo che mi durò giorni intuendo – già, intuendo perché nessun medico venne a farmi visita – di essermi ammalato di Covid… pessimi ricordi), Raoul ha pubblicato Le Intermittenze della Vita, il diario della pandemia, interpretato con la sua arpa elettronica e alcuni preziosi interventi di tre musicisti, Beppe Dettori e due artisti cinesi. Tutto torna, dunque.

La cadenza dei brani porta alla mente fatti e sensazioni che, dopo due anni, stiamo ancora tentando di seppellire sotto il tappeto della nostra memoria. Ognuno di noi ha il suo bagaglio di ricordi, ferite, ossessioni. Quelle di Raoul sono racchiuse in 37 minuti e 23 secondi. 

Un vero e proprio diario, dove traspaiono incredulità, paura, ansia, riflessioni. Colpisce il brano che apre il disco: porta un titolo semplice quanto terribile, 09 marzo 2020. Il racconto prosegue con Strade deserte, Il Runner solitario (dove Beppe Dettori usa le sue corde vocali per raccontare una “sgambata” autorizzata per decreto della Presidenza della Repubblica), Sars-Cov-2 brano registrato con Wan Xing, una musicista e collega di Hong Kong, esperta di guzheng, cordofono simile a una cetra, pizzicato con unghie metalliche – uno dei più intensi dell’album -, per proseguire con Al di là delle sabbie, Stasi Frenetica (suonato con Chan Schek Ming altro musicista cinese maestro di guqin, strumento, sempre della famiglia dei cordofoni, con un suono più acuto del precedente). 

Il racconto da qui in poi si fa più intimo. L’osservatore che guardava dalla finestra e leggeva i cambiamenti, inizia a riflettere su se stesso, su quello che stava capitando a lui, a fare i conti con la propria vita. Ecco dunque, Di ansie e paure, Di pensieri ossessivi, Di attacchi di panico, per poi affidarsi ai mantra e ricredersi, Andrà tutto…, ripiombare ancora nel buio, Notti di coprifuoco, e vedere, finalmente, Un’alba meravigliosa, speranza infranta dall’invasione russa in Ucraina e dalla risalita dei contagi cinese.

Ciliegina sulla torta di un album decisamente da ascoltare è la cover firmata da Giada Negri: una piazza del Duomo deserta, a Milano, disegnata come una quinta teatrale con Raoul che passa, tenendo la sua arpa in spalla. Nell’idea di Moretti, il disco, per ora solo in digitale, avrà un’altra destinazione, fisica, dove troveranno posto, oltre alla musica, anche la scrittura e le immagini…

Le intermittenze della vita, titolo che trovo bellissimo e che ricorda quel provocatorio romanzo distopico-filosofico di José Saramago, Le intermittenze della morte, è, dunque, un disco ben riuscito, uno di quelli che ti prende a poco a poco e che, per quella virtù della musica di trasformarsi in un linguaggio universale, riesce a diventare la colonna sonora di ciascuno di noi, un piccolo, importante pezzo della nostra vita…

Raoul hai scritto un diario denso…
«Ho costruito il disco come un romanzo, anche se il mio mezzo espressivo è l’arpa elettrica».

In questo romanzo racconti molte cose, la trama la conosciamo più o meno tutti!
«Lo spunto iniziale è stato il primo lockdown durato due mesi. In quei giorni ho approfittato per studiare, approfondire la mia preparazione, ma poi sono stato attratto inesorabilmente dalle immagini forti della pandemia che passavano ovunque. Se per noi uomini era una terribile disgrazia, per la Natura, invece, sembrava essere una rinascita, riprendeva finalmente il suo posto. In ogni caso erano documenti toccanti, che imponevano delle riflessioni. Quei vuoti fisici nelle strade, quei silenzi enormi che rivediamo ancora in questi giorni in Cina…».

Così ti sei messo a comporre…
«Fantasticavo e vivevo quei giorni pensando di scrivere la colonna sonora di un film distopico. Dopo l’illusione estiva (estate 2020), dove credevamo di aver visto già tutto, c’è stato l’altro blocco, più duro del precedente. Lì, ho realizzato che non si trattava di un film ma era tutto terribilmente reale. In quel momento è cresciuto lo sconforto, sono iniziate le reazioni psicologiche e sociali, l’Andrà tutto bene è diventato un Andrà tutto… Poi, nel febbraio del 2021 ho sperato anch’io di vedere finalmente un’Alba Meravigliosa. Il mio lavoro l’avevo finito. A un anno di distanza siamo ancora lì…».

Raoul Moretti – Foto Fabrizio Massidda

L’hai messo nel cassetto!
«Sì, anche perché con Beppe avevamo già iniziato a lavorare su Animas, album uscito a maggio del 2021. Fra l’altro, un brano che avevo scritto per Le Intermittenze della Vita, Continuum, abbiamo deciso di usarlo in Animas. Del lavoro fatto durante la pandemia volevo ragionarci con calma, pensavo di far uscire qualcosa di “fisico”, in un’altra forma, magari un libro. Poi, tra fine dicembre, gennaio e febbraio c’è stato un altro lockdown, blocco che ho sentito di più perché non è stato annunciato chiaramente ma di fatto c’era». 

Così hai deciso…
«Ho sentito la necessità di “fare delle mosse”, la prima è stata l’uscita in digitale del disco il 9 marzo di quest’anno. Non ho perso, però, la mia idea di farne qualcosa di fisico. Sto ragionando su un Lp a tiratura limitata, un libro con scritti corali, sensazioni, fatti accaduti durante la pandemia e un corredo di illustrazioni, sempre opera di Giada Negri, interpretazione visiva di quei giorni. La rielaborazione di ciò che ci è successo non è ancora iniziata, ne dovremo fare i conti. Anche perché in quell’Andrà tutto bene… il bene è stato un’illusione».

A proposito, molto bella la cover di Giada Negri!
«Mi piace dare carta bianca agli artisti per vedere cosa suscita in loro la mia musica. Giada, dalle suggestioni dell’ascolto, ha elaborato una serie di proposte tutte interessanti. Abbiamo scelto quella».

Come definiresti la tua musica ne Le intermittenze della vita?
«Un disco contemporaneo strumentale. C’è molto classico come struttura, ci sono i timbri cinesi che richiamano alla World Music e c’è l’arpa che assomiglia a una chitarra rock distorta».

Un lavoro particolare e le feauturing le hai scelte con cura…
«Volevo solo collaborazioni di corde: corde vocali, arpa mai pizzicata, suonata come una chitarra ritmica, gli strumenti tradizionali cinesi, anch’essi pregni di significato, il respiro di Beppe. È stata una seduta di autocoscienza messa in musica!».

Loris Al Raimondi: l’hip hop, Mike Stern e un disco per raccontare

Seguendo i lunghi sentieri della musica, mi sono imbattuto in un italo svizzero, Loris Al Raimondi. Quarantotto anni, vive nella parte tedesca, a Goldau, nel Canton Svitto. A fine gennaio ha pubblicato un disco interessante per molte ragioni, Passing Through Emotions. Innanzitutto per il sound, una interessante fusion tra jazz, beat hip hop, funk; e poi per il nutrito parterre di partecipazioni che ne hanno fatto un’opera sui generis. Loris viene dall’hip hop, da oltre vent’anni crea basi per artisti (svizzeri e internazionali), ed è la dimostrazione che nel linguaggio musicale, la raffinatezza, quel groove che ti entra lentamente e ti attrae, o ce l’hai o nessun conservatorio te lo insegna.

Collaborazioni illustri, grossi nomi del jazz e della musica in generale, da Mike Stern, a Nir Felder a Fabrizio Sotti (di lui ne parlai un paio d’anni fa…), tutti chitarristi di calibro; Alfredo Paixão, Gary Willis, Massimo Biolcati, bassisti, il primo brasiliano con residenza a Palermo, il secondo assieme a Scott Henderson fondò negli anni Ottanta i Tribal Tech, gruppo fusion d’avanguardia, il terzo, italo-svedese che suona in trio con Lionel Loueke e Ferenc Nemeth nei Gilfema. E ancora Kevin Field, Tom Tennedy, Ettore Carucci, Michel Cusson, Tony Grey, l’armonicista Giuseppe Milici

Passione, tenacia, intraprendenza sono le tre parole che hanno portato alla luce questo lavoro, che ricorda molto i grandi gruppi degli anni Settanta e Ottanta, quando la Fusion diventò un genere preciso, l’incontro “ufficiale” tra jazz, funk e rock. Dunque, tappeti vellutati di synth e  praterie sconfinate dove far decollare assoli di chitarra in congiunzione astrale con spericolate evoluzioni del basso, magie in movimento. Un mondo onirico che si ritrova oggi nei beat hip hop tanto cari a Raimondi. La musica come protagonista assoluta, non fredda compartecipe. E fin qui ci siamo.

Ma l’operazione di Loris non si è fermata a questo. Dalla sua casa di Goldau, seduto sulla sua poltrona di lavoro dove spende notti e notti è riuscito in una magia: coinvolgere i suoi artisti preferiti nel progetto. Un’avventurosa e meticolosa ricerca durata un paio d’anni, senza mai cedere un solo minuto. Conosciuti a un concerto da spettatore o attraverso occasioni fortunate via mail, ha inviato a tutti le basi del suo progetto chiedendo di lasciare il loro apporto esattamente dove lui aveva previsto ci fosse. Ecco il perché dei vari chitarristi, bassisti, pianisti e di un armonicista, Giuseppe Milici, messo insieme al bassista Gary Willis, due generazioni, due mondi distanti che hanno trovato una sintesi in The First Emotion 273. O come, in No One Dies Forever, brano che chiude il disco, dove Mike Stern alla chitarra, Alfredo Paixão al basso e Kevin Field al piano riescono a produrre una vera magia. Loris come un direttore d’orchestra, anzi, lui specifica, come un «allenatore di calcio!», ha messo in campo i suoi campioni giocando una finale di coppa del mondo…

È un racconto che vale la pena di leggere. Mettetevi comodi…

Un disco davvero interessante, per la qualità musicale ma anche anche per i musicisti che vi hanno partecipato. Fabrizio Sotti l’avevo intervistato un paio d’anni fa…
«Proprio Fabrizio mi ha dato una grande spinta. Mi ha fatto capire che, se hai la passione e la pazienza, arrivi dove vuoi, non importa quando!».

Lo conosci da molto?
«Come artista sì, lo ascoltavo da tempo. Per questo l’ho contattato spiegandogli il progetto. Mi ha chiesto di inviargli alcune demo. Dopo avermi studiato per bene ha aderito al progetto con entusiasmo. Con lui oggi è nata un’amicizia, ci sentiamo tutte le settimane. Abbiamo scoperto di avere passioni musicali in comune, come l’hip hop…».

Raccontami di te e del tuo amore incondizionato per la musica…
«Sono nato nel 1973. Da bambino, fino a sette anni circa, sono rimasto in Italia con i miei nonni, mi sento abruzzese (la mamma lo è), mentre papà è lucano. Poi ho raggiunto i miei genitori in Svizzera dove erano emigrati per lavoro. Ho resettato tutto quello che avevo imparato in Italia e ho iniziato a frequentare le scuole, la mia lingua madre è diventata il tedesco, anche se l’italiano lo parlo, non benisssimo, da uno che non l’ha studiato! Mi ricordo che da bambino, in Abruzzo, passavo le ore ad ascoltare musica su un mangiadischi, seduto in strada. In Svizzera, mio fratello di cinque anni più vecchio di me, anche lui appassionato di musica, aveva ricevuto una chitarra elettrica in dono da un insegnante, un rockettaro. Lui non sapeva come suonarla e nemmeno io…».

I tuoi genitori si erano resi conto del vostro amore per la musica?
«In casa c’erano delle priorità: i miei erano emigrati con il solo pensiero di lavorare, risparmiare, costruire una casa, darci un futuro, dunque non hanno capito davvero la nostra passione. Così, ci siamo arrangiati iniziando a mixare con vinili e cassette gli artisti che ascoltavamo, Matt Bianco, Shade, Bronski Beat, Depeche Mode. Da bambino e adolescente vivevo di calcio e musica. Sentivo, forte, il desiderio di creare qualcosa ma mi rendevo conto che non avevo nessuna possibilità, perché di musica non sapevo nulla. Sono andato avanti così per anni».

Poi cos’è successo?
«A fine anni Ottanta, dopo la morte di mio fratello (aveva 17 anni quando se ne andò), in Italia su Raidue una sera a D.O.C. Club, il programma presentato da Renzo Arbore, Gegè Telesforo e Monica Nannini, sono rimasto letteralmente colpito da Toots Thielemans con la sua armonica a bocca, in quartetto con Bruno Castellucci alla batteria, Michel Herr al piano Fender e Michel Hatzigeorgiou al basso. Che musica pazzesca, meravigliosa! Ho, dunque, deciso di ampliare i miei ascolti e dedicarmi alla scoperta del jazz iniziando con Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Billie Holiday, il Modern Jazz Quartet. All’inizio ho fatto fatica a capire, ma poi, quando trovi il codice per ascoltare, vai avanti. Quindi, sono passato al jazz rock: Mike Stern, mi faceva impazzire».

Quindi hai deciso di studiare musica?
«Una volta finiti i miei studi di tipografo, avrei voluto dedicarmi alla chitarra jazz, ma papà mi disse: “Loris, con la musica non si guadagna, devi lavorare, fare quello per cui hai studiato”. Così, per aiutare papà ho lasciato perdere, ma per sopperire a questo desiderio, ho cercato di fare musica arrangiandomi: poco per volta mi sono comprato il materiale necessario, qualche drum machine…  Nei primi anni Duemila sono riuscito a produrre dei release per i miei MC fino a quando non m’è venuta la crisi di mezza età e ho deciso che dovevo fare i conti con la musica e la mia vita».

Come?
«Facendo un disco!».

Dunque l’album raccoglie tutto quello che è stato il tuo percorso artistico e di vita? Paura d’invecchiare?
«No, è nato tutto con il Covid: a casa in quarantena correvo sul tapis roulant, di fronte, appeso alla parete, fissavo un quadro di Jon Van Zyle, raffigurante tre lupi in un paesaggio invernale dell’Alaska, vicino a una casa riscaldata. L’artista l’aveva chiamato Passing Through. Ho iniziato a pensare alla mia vita. Cosa mi rimane di tutto quello che ho fatto finora?, riflettevo. La musica mi ha sempre aiutato nei momenti belli e tristi, lo ha fatto anche quando è morto mio fratello… mi passavano per la testa tante emozioni che, in qualche modo volevo mettere insieme. Così è nata l’idea di racchiudere in un disco tutto quello che avevo vissuto, chiedendo l’aiuto ai musicisti che  erano una parte di me perché li ascoltavo da anni».

Come hai contattato Mike Stern?
«(ride, ndr). L’ho visto nel 2017 a Zurigo in concerto. Con lui suonava il bassista Tom Kennedy. Mike Stern era una leggenda, Tom Kennedy, invece, non l’avevo mai visto suonare dal vivo. Non sono riuscito a staccargli occhi di dosso. Pensavo: “Ma come cavolo può suonare in quel modo, fare cose così incredibili e stare sul palco con una faccia così tranquilla, serena, come se non fosse lui lì, al basso». Volevo a tutti i costi che Tom partecipasse al mio lavoro, Mike per me era irraggiungibile. Quando sono riuscito a coinvolgere Tom inviandogli il materiale, vista la confidenza, gli ho chiesto: “Tom, che chance ci sono di coinvolgere nel progetto anche Mike Stern?”. La sua risposta è stata una mail con l’indirizzo di posta elettronica di Stern. Non c’era scritto nient’altro!”».

Così non ti è rimasto che scrivere al mitico chitarrista…
«Esatto, una mail in cui mi presentavo, spiegavo il progetto e chi stava partecipando, con allegate le demo. Sono andato a dormire. All’una e mezza del mattino mi vibra il cellulare. Era un messaggio di Stern che iniziava così: Hi Loris I would love to do this! Mi spiegava che aveva bisogno di un ingegnere per fare il tutto, più altre cose tecniche. La notte successiva alle due mi suona il cellulare: era lui. Non ho avuto il coraggio di prendere la telefonata, sono andato in ansia. Mi sono dato del deficiente, gli ho inviato subito un messaggio e lui mi ha richiamato immediatamente. Voleva sapere come creavo i beat, gli interessava molto, gli ho parlato del brano No One Dies Forever, raccontandogli che era dedicato a mio fratello ma che voleva essere anche un messaggio di speranza, doveva celebrare la vita. Mi ha mandato un assolo da brividi».

Con quale criterio hai messo insieme i musicisti?
«Sono andato in base all’emozione che volevo comunicare. Li ho disposti come un allenatore di calcio. Dentro c’è anche il pianista Kevin Field, mi sono innamorato di un suo album Soundtology, del 2020 dove suonavano Nir Felder e Mike Moreno. Bellissimo, ogni brano è un capolavoro. È interessante far uscire, soprattutto i jazzisti, dal loro mondo, stanarli. È difficile per loro stare su quei beat molto hip hop. In After All There’s A Star, Mike Stern mi ha chiamato chiedendomi se la sua chitarra mi fosse piaciuta, altrimenti cambiava… Mettere Giuseppe Milici e Gary Willis insieme in The First Emotion 273 è stata una pazzia. Ma la sfida è proprio questa. E tutti i musicisti hanno capito le mie intenzioni e apprezzato il lavoro».

Componi usando vari strumenti?
«Sì ho sintetizzatori, chitarre…».

Quindi hai imparato a suonare?
«Non so suonare, non so leggere la musica, mi arrangio, parto dagli accordi, imbastisco la melodia, faccio le progressioni, creo gli arrangiamenti. Ma solo perché li ho tutti in testa non perché abbia studiato.  Quello che so fare è creare musica. Mi succede, forse, per la passione che ho coltivato fin da bambino. Così, prendo la chitarra o la tastiera e penso a cosa voglio comunicare. Poi butto delle base line, sintetizzatori o plug in, e compongo. In questo caso ho inviato il tutto agli artisti dicendo: tu intervieni qui, tu fai questo assolo, cercando di trasmettere quelle determinate sensazioni. Così è successo con Fabrizio Sotti, ma anche con Nir Felder, e con tutti gli altri».

Nessuno ti ha mandato a quel paese! Vuol dire che il progetto era interessante. Una curiosità, Felder lo conoscevi già?
«No, a Zurigo avevo invece conosciuto Massimo Biolcati durante il concerto dei Gilfema, il trio di Loueke, e siamo diventati amici. Con la famiglia sono andato a trovarlo a New York e lui mi ha invitato la sera ad ascoltare un suo concerto: suonava con Nir Felder. A Nir allora feci solo i complimenti… Poi ci siamo scritti, ha giudicato positivamente il mio progetto, ma essendo sempre occupatissimo, è stato difficile, i tempi si sono dilatati, comunque ha voluto esserci. Quella sera al concerto incontrai anche Matthew Garrison (il bassista americano che suonò con Pino Daniele, ndr). Mi avvicinai, gli feci i miei complimenti in inglese e lui mi rispose in italiano con un accento romanesco, ma perché me parli in inglese, Parliamo italiano, dai! Poi scoprì, dal braccialetto che portavo, che ero come lui un tifoso della Roma… finimmo la serata a bere chiacchierare di calcio, musica, Pino Daniele…».

Torniamo a Passing Through Emotions: l’hai mixato tutto tu?
«Sì è stata un’altra grande sfida. In alcuni brani mi ha aiutato Alfredo Paixão. Alfredo è una persona pazzesca, è talmente diretto… Mi ero appassionato a un suo album, Iris. Parlando del disco gli dissi che era un gran bel lavoro, almeno per me, anche se non ero al suo livello musicale. Mi rispose: “se hai capito quello che volevo trasmettere, allora siamo allo stesso livello!”».

Tutto fatto da casa tua?
«Sì, incredibile vero?»

Quanto tempo hai impiegato?
«Quasi due anni, perché non vivo di musica. Ho passato tante notti insonni, a lavorare».

Cosa ti aspetti dall’album?
«Premetto: voglio fare musica fino all’ultimo giorno della mia vita. Ho un’opportunità di farla anche attraverso BeatClub, sito che gestisce la produzione di beat in tutto il mondo. Sono entrato da poco come member, bella opportunità. Sto lavorando da un anno con Fabrizio Sotti per produzioni hip hop negli States. Questo disco è il mio manifesto, come intendo la musica, il mio biglietto da visita».

La tua famiglia cosa dice?
«I miei genitori hanno cominciato a capire che non era uno scherzo, quando hanno visto che mi chiamavano per interviste, interventi, ecc. Mia moglie mi ha sempre sostenuto, stiamo insieme da ragazzini, sono contenti».

E al lavoro?
«Sono nel mondo della grafica, hanno capito che è una faccenda seria per me, così il mio capo mi permette di prendere qualche giornata libera in più per dedicarmi alla musica».

Franz Campi, il teatro-canzone e quel Sentimento prevalente

Oggi voglio tornare sul teatro-canzone. Genere che ha un suo perché: musica, creatività e recitazione sono una delle classiche forme di intrattenimento, probabilmente la più antica. Vi ho  già parlato di alcuni artisti che – vedi Roberta Giallo, Sergio Malpelo Gaggiotti, Rossella Seno, o anche Paolo Fresu – lo propongono in modo intelligente. C’è anche un altro musicista che ne ha fatto lo scopo della propria vita creativa. È un bolognese, 60 anni freschi di festeggiamenti, una verve da ragazzino e un’ironia schietta, contagiosa. Il suo nome? Franz Campi.

Un artista “regionale” come si definisce, visto che per lo più lavora nella sua terra, l’Emilia Romagna. Uno che è tante cose, comunicatore, organizzatore di eventi, attore, conduttore radiofonico e televisivo e, soprattutto, musicista. È riuscito a portare il suo spettacolo su Fred Buscaglione persino in Galles, ha partecipato nel ’93 alle selezioni di Sanremo Giovani (che passò) e nel ’94 al festival («che esperienza…»); tra le tante operazioni culturali messe a punto, s’è inventato pure la Premiata Palestra Atlas per muscoli del cervello, concorso per nuovi poeti… «visto il successo, alcuni concorrenti si montarono la testa e finì a schiaffi e pugni… alla faccia delle anime gentili…», scherza.

Il 19 novembre del 2021 è uscito un suo album dal titolo Il Sentimento Prevalente, 12 canzoni  firmate con Davide Belviso, che parlano della complessità del mondo, della pandemia, della violenza, dello scordarsi del passato, del ripetersi inutile della storia. Brani caustici, Venda l’Oro, appassionati, Lettera di un condannato a morte della Resistenza, ironici, Ridateci Fellini, o Stammi bene… In mezzo a tutto questo caos organizzato c’è un inguaribile ottimista che guarda il vorticar delle cose, le annota con la precisione di un notaio e la consapevolezza di essere altro da questo modo di vivere.

Eccoci qua, Franz! Come ti definisci: artista, cantautore, attore di teatro-canzone, organizzatore, conduttore, hai un programma televisivo, che parla di Green, Zorba, arrivato alla terza stagione…
«Sono fondamentalmente un comunicatore, mi piace raccontare, coinvolgere la gente, se riesco, con un sorriso e un filo di ironia. È la mia cifra stilistica principale. Lo faccio attraverso diversi canali, quello che mi affascina di più è certamente la musica, essere un musicista».

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E il teatro-canzone?
«Se vuoi vivere di dischi, o vai in cima alle classifiche o devi lasciar perdere! Quindi, una quindicina di anni fa ho deciso di dedicarmi al teatro-canzone. Ho iniziato con un tributo a Giorgio Gaber (Ciao Signor G.!), poi sono passato a Fred Buscaglione (Sono Fred, dal whisky facile): pensa, quest’anno sono undici anni di repliche…».

A proposito come sei finito in Galles con Fred?
«L’ho portato un po’ ovunque, in Svizzera e, sì, anche in Galles, dove nessuno lo conosceva! È stato uno di quei cortocircuiti della vita: un gallese che stava aprendo uno studio di registrazione e che aveva fatto l’Erasmus a Torino, s’era innamorato di Buscaglione a tal punto da cercare artisti italiani che lo facessero molto bene. Mi scoprì via Internet e mi chiamò là a suonare. Una bella esperienza!».

Nel tuo repertorio di teatro-canzone non ci sono solo le vite dei musicisti…
«L’ho declinato attraverso tanti altri temi, che poi coincidono con i miei interessi. C’è il cibo, ovviamente, con uno spettacolo chiamato Canzoni da Mangiare. A proposito: sono anche il portavoce della storia della Mortadella per il Consorzio della Mortadella di Bologna Igp… Ho raccontato la storia dell’Arte con Intonati a regole d’arte, e quella del manouche Django Reinhardt (Lo zingaro miracoloso – l’incredibile storia di Django Reinhardt) e ora quella di Alberto Rabagliati (Quando canta Rabagliati!)Grazie a lui mi sono innamorato dello swing!».

Immagino che la pandemia abbia fermato anche i tuoi spettacoli…
«Beh, sì, con i teatri chiusi s’è smesso di recitare e guadagnare! Però non sono riuscito a star fermo, così mi sono ritrovato a fare i concerti… da casa mia, gratuitamente! Appuntamenti fissi, sei settimane, sei sabati di seguito… socc’mel, era diventato un gran lavoro! Mio figlio (Andrea, uno bravo davvero, ha 24 anni ma è un bravo musicista!) faceva qualche pezzo con me, c’erano le dirette su Facebook, 1000, 1500 persone alla volta che mi seguivano. La gente mi mandava continue richieste di brani da suonare. Era diventato un bell’impegno!».

Avevi i tuoi fan…
«Ti racconto questa: c’era una signora che viveva con la badante proprio sotto di me, al terzo piano. Era molto anziana e malata, poi è mancata, poverina. Nei miei concerti casalinghi mettevo le casse fuori in terrazza, e suonavo. Un giorno la signora, non potendo venire da me, causa lockdown, è scesa aiutata dalla badante all’ingresso del palazzo e mi ha citofonato (immaginate il dialogo con inflessione bolognese, ndr): “Senta signor Campi, sono la Wanda, la Rizzoli… Volevo ringraziarla, che lei ci ha dato tanta felicità in questi momenti! Avrei una richiesta da farle…”. Eccola là ho pensato, chissà che canzone vuole che le canti, invece: “Potrebbe spostare di più le casse verso la mia terrazza, così sento meglio, grazie sa!».

Franz, veniamo a Il Sentimento Prevalente
«Come già detto, non riuscivo a star fermo in casa. Avevo canzoni nel cassetto, altre idee in testa, altrettante cose da dire, così, con Davide Belviso, polistrumentista, abbiamo messo su il disco. Ci siamo ingegnati, come tutti, a farlo da lontano: mandavamo le canzoni ai vari musicisti perché suonassero la loro parte, per il bandoneon a Udine, il piano in Puglia il sax a Guastalla… Poi Davide ha mixato il tutto. C’è una canzone che avevo scritto anni prima con Daniele Furlati, lo stesso che aveva composto le musiche con Marco Biscarini del film L’Uomo che verrà, sulla strage di Marzabotto, Lettera di un condannato a morte della Resistenza. Volevo ricordare a quelli che parlavano e parlano tanto di dittatura sanitaria e paragonavano il governo ai fascisti e ai nazisti, quello che era successo davvero durante una feroce dittatura. Certi paragoni sono inappropriati, offensivi. Avevo letto le lettere di saluti che i condannati a morte facevano recapitare alle loro famiglie, e lì mi sono ispirato. Alla pandemia s’è aggiunta la guerra: mi attacco alla musica cercando di portare positività di pensiero a chi ascolta».

Qual è il sentimento prevalente…
«Ogni giorno ci sentiamo oppressi, schiacciati verso terra. Lo pensavamo anche prima della pandemia, soprattutto noi della nostra generazione, triturata tra le responsabilità verso i figli, il lavoro stressante, i genitori anziani da gestire. Quando arriva sera, dopo una giornata intensa dove succede di tutto, si finisce per credere che le emozioni prevalenti della nostra vita siano solo quelle negative. L’ho vissuto anch’io: faccio uno sforzo per salvare me stesso, sennò mi butto dalla finestra. E poi rifletti: se hai la finestra hai anche una casa, un tetto dove vivere, una famiglia a cui vuoi bene, gli amici con cui incontrarti e parlare, molti interessi, un lavoro… sei un privilegiato, in una società ricca come la nostra! La morale è che il sentimento prevalente deve essere positivo. In questo disco, costruito a capitoli come un libro, ho cercato di spiegare tutto questo. Spero di esserci riuscito».

Che genere di musica ascolti?
«A essere onesti ne ascolto sempre meno. Mi piacciono le canzoni del passato, più che altro mi piace leggere. Penso con tenerezza al periodo in cui la gente andava ad ascoltare le orchestre. Qui a Bologna, a metà Ottocento, c’erano i venerdì dell’Antonelli, la prima banda della città. Tutti andavano in piazza Galvani ad ascoltarla, c’erano le belle da marito e i maschi che le scrutavano. Erano momenti di grande socialità. Venendo alla mia giovinezza: con i miei amici facevamo tutto insieme, compravamo i dischi a turno, andavamo a casa di uno o dell’altro, aprivamo gli album insieme, con attenzione per non rovinarli, insieme leggevamo le note, i nomi dei musicisti, guarda! C’è lui, ma no! C’è anche quell’altro, deve essere bellissimo… Poi, si mettevano i dischi sul piatto e si ascoltavano, condividendone le emozioni. Mi manca questa socialità, ora abbiamo una fruizione onanistica, tutti con le cuffie in testa ad ascoltare l’ultima playlist imposta da Spotify. C’è un pensiero unico anche nella musica. Siamo tutti uguali, ascoltiamo tutti le stesse cose…».

Hai iniziato a portare di nuovo in giro gli spettacoli? Hai intenzione di presentare anche il disco?
«Stanno iniziando a richiamarmi, ribadisco, sono uno “locale”. Ho iniziato con Canta che ti passa, spettacolo piccolino, liberatorio, antistress. Sul palco siamo tutti vestiti da medici, io sono un neurologo, l’altro uno psicologo, l’altro ancora è un proctologo (eh eh eh!), cantiamo tutti pezzi belli della canzone d’autore, divertenti, e lo facciamo assieme al pubblico. Sto preparando anche lo spettacolo per Il sentimento prevalente, lo sta scrivendo Alessandro Vanoni, scrittore che ha lavorato per il teatro: sul palco interagisco con una mia voce della coscienza e con immagini che scorrono dietro di me. Inizieremo a portarlo sui palchi a fine ottobre. Sempre in Emilia Romagna, a meno che non ci sia qualche teatro che ci chiami fuori regione!».

Fai tutto dal vivo?
«Sì tutto, atmosfera liberatoria…».

Rivango il passato: come sei finito a Sanremo?
«Facevo le mie canzoni e stavo vincendo un sacco di concorsi. Una sera faccio un concerto a Bologna,  mi viene a vedere la Iskra Menarini e mi dice: “Hai un repertorio bellissimo perché non lo fai sentire a Gianni Morandi che sta finendo il disco?”. Così io e Maurizio Minardi (autori di Banane e Lamponi, ndr) andiamo nello studio di Morandi e lasciamo una cassetta. Dopo due tre giorni, visto che non avevamo avuto risposta, siamo tornati. Suoniamo, ci apre Mauro Malavasi che chiama Morandi. C’era un lungo corridoio e nel mezzo un pianoforte. Abbiamo fatto un concerto per loro: “Fammi sentire questa, poi quest’altra, e questa?”. A Morandi piace Banane e Lamponi, una canzone goliardica che avevo scritto ai tempi dell’università, di quelle un po’… porno. “Sai non la posso cantare, con quel testo, ho un’immagine…”. Noi assicuriamo che in pochi giorni avrebbe ricevuto un altro testo. Malavasi e Morandi sono perplessi. In due giorni l’abbiamo portata, è andata bene ed è diventata un successo. Forte di quell’aggancio, sono andato a Sanremo Giovani dove ho vinto due serate. A febbraio ero sul paco dell’Ariston, ma mi son trovato la strada leggermente chiusa, era un anno particolarmente ricco, c’erano Francesca Schiavo, Joe di Tonno, Irene Grandi, Giorgia, Bocelli…».

Quando componi scrivi testo e musica o prima uno e poi l’altra?
«Ultimamente scrivo sempre meno musica. La musica è un’amante abbastanza severa, non puoi farla così così. Sulla composizione ho un po’ mollato, ho tanti altri impegni, ma a Bologna organizziamo spesso residenze artistiche. Ne ascolto tanta di musica, e quanto sento qualcuno di bravo, inizio con lui delle collaborazioni».

Nel tuo mondo ideale cos’è per te la musica?
«Una grande gioia. Lucio Dalla diceva che il successo è avere un pezzo del mio cuore dentro il cuore degli altri. La musica accende le coscienze. Pensa a Faletti con Minchia signor tenente; se pensi più in grande, anche contro l’Apartheid in Sud Africa la musica ha avuto il suo ruolo determinante, vedi Peter Gabriel con Biko o Carlos Santana. Non credo che si riuscirà a fermare Putin con una canzone, ma una canzone può provocare una grande onda».

Ci vorrebbe un nuovo Live Aid…
«Ognuno pensa al suo tour, al suo disco, non esiste più un Bob Geldof perché non c’è più un “noi”. Oggi… stiamo cotonando il nulla. Ognuno, salvo rari casi, pensa a se stesso, e non solo nella musica. Per cercare cose interessanti devi andare nei locali piccoli. Non ci sono più i talent scout… Lo scouting viene praticato davanti al computer, la prima cosa che si fa è andare a vedere le visualizzazioni, i “mi piace”… Se uno riesce a smanettare bene sui social può anche non saper suonare o cantare, e fare ugualmente successo. È tutta una grande truffa…».

Ciò si riflette inevitabilmente sull’ascoltatore…
«La velocità oggi è un dato indispensabile. Ci sono i tempi di lettura sui giornali, che trovo aberranti, e i brani corti, di facile e pronto consumo. Tutto deve essere ridotto a una cosa semplice, per nulla complessa. La complessità pretende attenzione, sacrificio, approfondimento, non puoi cavartela con uno slogan. Ascoltare di più, leggere di più ti dà più armi per crescere».

Dario Sansone: Napoli, i Foja, i miracoli e le tante rivoluzioni

Esce oggi per l’etichetta indipendente Full Heads Miracoli e Rivoluzioni, ultimo lavoro dei Foja. La band rock folk partenopea capitanata da Dario Sansone ha all’attivo tre album e una peculiarietà: canta in napoletano. Il 1 aprile, su al Nord, nel profondo Veneto da cui provengo, un’altra rockband, anch’essa da anni in azione, i Rumatera, ha pubblicato Made in Veneto, album ironico e istrionico con la medesima caratteristica: cantato rigorosamente in veneto.

Entrambi i lavori sono pieni di energia, ricchi di contenuti, affascinanti. Dei Rumatera parlerò venerdì prossimo, ora è il tempo dei Foja e del loro album che, a partire dal titolo, Miracoli e Rivoluzioni, racchiude tutta la napoletanità più autentica. 

Nel capoluogo campano ci sono molte realtà musicali interessanti, il binomio Napoli-Musica è vivo e profondo, oserei, “tradizionale”. Non sto pensando ai grandi interpreti della musica napoletana, ma a un rinnovato parterre di artisti che ha attinto da questa lunga storia, innovando. D’altronde, ai tempi, anche Renato Carosone, ora nell’Olimpo della napoletanità in musica, è stato un artista “contaminante”. Per non parlare di Pino Daniele! Nuove strade musicali, stesso spirito. Su Musicabile nei mesi scorsi vi avevo presentato Fede ’n’ Marlen, due brave e interessanti artiste con il loro Terre di Madonne, e i Little Pony, band capitanata da un eclettico americano di Minneapolis, musicista e pittore, che ha trovato la sua ragione d’espressività in Italia e in Napoli, usciti recentemente con il disco Vodoo We Do.

Miracoli e Rivoluzioni è un lavoro che si pone a pieno titolo su questa scia: usare paradigmi sonori differenti senza intaccare quella musicalità che ha fatto grande Napoli. Un disco dove i Foja si fanno molte domande sulla vita, il concetto di libertà, l’immigrazione, le guerre, l’amore. Alcuni esempi? Il valore di comunità che è stato travisato sui social (A cosa stai pensando?: Ma tu magni ‘o si magnato? Sí ‘nu giudice ‘o sí giudicato? Sí ‘o veleno o sí l’avvelenato? Manna ‘nu signale o sí signalato…); la fiducia nell’umanità, nonostante tutto (Nunn’è ancora fernuta: A furia ‘e rirere d’e guaje d’a gente/ c’allantunamme sempe/ e tu nun daje ‘na mano a chi vene ‘a luntano/ ‘sta guerra è pure ‘a toja/ ‘a terra è comme ‘a musica nunn’è ‘e nisciuno/ ma tu te futte ‘e paura/ e nun truove ‘na ragione/ ca te fa sta’ buono…). C’è posto per ballate struggenti come Santa Lucia e per un brano famoso, composto dall’argentino Alejandro Romero, che lega inesorabilmente Buenos Aires a Napoli, dedicato al famoso goal di mano che Maradona infilò all’Inghilterra ai Mondiali in Messico, e che i Foja hanno tradotto, con la partecipazione dello stesso Romero, in A mano ’e D10S

Un album a cuore aperto, dunque, che vede, proprio per questo, belle collaborazioni: Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, Clementino, Enzo Gragnaniello, il pianista Lorenzo Hengeller, il già citato Alejandro Romero. 

Se dovessi sintetizzare Miracoli e Rivoluzioni in una sola parola, userei Appocundria. Che poi è un pezzo splendido di Pino Daniele da Nero a Metà (1980), dove il mitico artista ne spiegava il significato: “Appocundria me scuppij ogni minuto ‘mpietto/Pecché passanno forte e sconcecato ‘o lietto/ Appocundria ‘e chi è sazio e dice ca è diuno/ Appocundria ‘e nisciuno”. 

Appocundria è come la luso/brasiliana Saudade (ne avevo parlato due anni fa in pieno lockdown). Termine che racchiude tristezza, speranza, nostalgia, desiderio struggente. Che poi è stato – e continua a essere – inevitabilmente tradotto in musica. Tra Napoli e Salvador da Bahia, credetemi, c’è un legame fortissimo. Entrambe le città sono musicalmente magiche e portate naturalmente alla musica. È l’Appocundria/Saudade che le rende gemelle nella creatività e nella poetica. 

Ne ho parlato con Dario Sansone, frontman dei Foja. È l’autore dei testi (eccetto L’Urdema Canzone, di Alessio Lollo), cantautore nell’animo, divide ed esprime la sua creatività tra musica e disegno, i suoi sogni di bambino…

Miracoli e Rivoluzioni, bel titolo…
«Sono le due anime dell’album che rispecchiano l’essere di Napoli, città di grandi fedi e altrettante rivoluzioni sociali. Il disco si interroga sull’amore, inteso come miracolo, perché indipendente dalla nostra volontà, e su tutti quegli atti legati all’introspezione umana e sociale dovuti alle nostre decisioni».

Quando avete iniziato a scriverlo?
«Prima della pandemia e rivisto praticamente… fino a oggi! È stato come attraversare un mare profondo con tutto quello che è successo».

Nel disco c’è, molto forte, il concetto di comunità, convivenza, pace, rispetto…
«Sono canzoni che non danno risposte, piuttosto si pongono tante domande. Che hanno a che fare con l’umanità, una riflessione su dove stiamo andando, su cosa sta succedendo, partita prima del Covid e della guerra in Ucraina. Ci troviamo su una strada molto complicata. Oggi è necessario parlare molto più di pace che di guerra. Siamo in mezzo a una lotta che non vede la fine: no vax, sì vax, no Russia sì Ucraina. Dobbiamo imparare a osservare e stare calmi, perché l’odio va più veloce dell’amore».

A proposito di convivenza e contaminazioni: ci sono belle “featuring” nell’album…
«Sì, e ne siamo contenti. C’è un intervento prezioso di Michele Signore, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, con la sua Lira Pontiaca in Nunn’è ancora fernuta; il pianoforte di Lorenzo Hengeller in Stella, la partecipazione di Davide Toffolo in A cosa stai pensando, quella di Clementino che ha voluto rappare su Santa Lucia, il grande Enzo Gragnaniello in ‘Nmiezzo a niente, una canzone “denudata”, quasi brasiliana. Sono orgoglioso: lui è Napoli fino all’osso e ha cantato le parole scritte da me!».

E poi c’è anche Alejandro Romero…
«Quando gli abbiamo chiesto l’autorizzazione di cantare il suo brano, non solo ha acconsentito, ha voluto esserci anche lui…».

Dario, sei sempre stato a contatto con la musica…
«Mio nonno ha sempre cantato, mio papà suona la chitarra in una cover band di Santana, musicisti operai… Ieri eravamo insieme dal liutaio, lui con la sua Stratocaster, io con la mia Martin. Ci confrontiamo musicalmente, non pensavo di arrivare, un giorno, a fare tutto ciò. A casa non pensavano che questa mia passione diventasse realtà. Mio padre m’ha trovato a fare concerti in piazza San Carlo completamente piena di gente… In famiglia siamo molto sereni, mia madre è la più severa, è lei che giudica le mie canzoni, èfatta così, rigida anche con se stessa».

E il disegno, l’arte visuale?
«È l’altra mia grande passione assieme alla musica. Sono fortunato perché di entrambe ne ho fatto un lavoro».

A Napoli come vi vedono?
«Più che altro non ci vedono proprio e da un bel po’ di tempo! C’è ancora una confusione burocratica che non permette di sbloccare i concerti. Siamo una band di palco, per questo molto seguita, perché i nostri concerti sono comunione, festa, contatto».

Quando avete iniziato come eravate considerati?
«Come degli alieni! Fare rock-folk cantato in napoletano non è stato capito subito. Per noi era naturale e sincero esprimerci nella nostra lingua. Ora s’è capito che non era ardito ma coerente. D’altronde, Renato Carosone è stato il primo a miscelare musica americana e napoletanità. Penso anche al grande Pino Daniele, a James Senese, sono stati il modo di comunicare di una generazione».

Napoli è particolarmente attiva in ambito musicale…
«È una città artisticamente vivissima. Credo che si leghi alla precarietà in cui siamo abituati a vivere da sempre. La nostra creatività, nella musica, nell’arte, nella cucina è conseguenza di questo nostro vivere. E sai qual è la ragione? ‘O Vesuvio! Il simbolo fisico di Napoli. Può esplodere da un momento all’altro, può distruggerci. Questo vivere sempre sul filo, questa schizofrenia fatta anche di miracoli e rivoluzioni dipende dal vulcano, credimi!».

A proposito, la cover è molto bella!
«È un disegno di Alessandro Rak, disegnatore e regista. Collaboriamo insieme da anni, siamo molto amici. Nel film d’animazione di Alessandro, Yaya e Lennie – The Walking Liberty, che uscirà il prossimo novembre nelle sale, ho scritto la colonna sonora, c’è anche un brano che abbiamo inserito in Miracoli e Rivoluzioni, Pe’ te sta’ cchiu’ vicino, che nel film è cantato da Ilaria Graziano».

Kole Laca: dal Teatro degli Orrori agli Shkodra Elektronike

Kole Laca – Foto Rozafa Shpusa

Il 10 marzo scorso è uscito un Ep piuttosto unico nel suo genere dal titolo Live @ Uzina, registrato in un vecchio teatro di posa alla periferia di Tirana, dagli Shkodra Elektronike, un duo italo-albanese. Volutamente misterioso, cantato in albanese, tappeti di synth minimal che danno spazio a una voce armonica, melodiosa, a tratti resa più “acida” da incursioni elettroniche…

Ce n’era in abbondanza per stimolare la mia curiosità. Anche perché l’ideatore del progetto e autore degli arrangiamenti è uno di mia vecchia conoscenza di ascolti, Kole Laca (il cognome si pronuncia Lazza, anche se, come scherza Kole, «ormai mi ci sono abituato, non correggo più!»), musicista di professione, diplomato in pianoforte al Liceo “Prenkë Jakova” di Scutari, una laurea in Scienze Politiche all’università di Padova e un trascorso di musicista con molteplici esperienze, tra queste, tastierista de Il Teatro degli Orrori, band veneta formatasi nel 2005, definita genericamente “alternativa”, classificazione piuttosto vasta per un rock nervoso, a tratti noir a tratti spigoloso, post punk, con chitarre acustiche folk che si trasformavano improvvisamente in orgasmi elettrici acidi, accompagnati da testi per nulla banali, profondi e visionari, del frontman Pierpaolo Capovilla

Con Kole c’è Beatriçe Gjiergji, una voce bella, calda con acuti di profonda dolcezza. Ho chiamato Kole per chiacchiere sul lavoro degli Shkoda Elektronike, ma anche sulla musica, sul loro “post immigranti pop” – lo vedremo tra poco – sul Teatro degli Orrori e le evoluzioni/involuzioni del mainstream…

Come sei arrivato agli Shkodra Elektronike?
«Sono partito dal recupero delle canzoni popolari di Scutari, la mia città natale, scegliendo brani che partono dai primi dell’Ottocento e arrivano fino agli anni Sessanta del Novecento. Volevo dare loro una nuova veste, più attuale. Da ragazzo la consideravo, come sempre accade, una musica vecchia, guardavo ad altro, vuoi paragonare i Depeche Mode con un cantante di musica tradizionale! Quando cresci, invece, ti riavvicini, sei curioso sulle tue origini. Ho cominciato a ragionare, ascoltare, apprezzarle dal punto di vista musicale. Già nei 2Pigeons con Chiara Castello, nell’album Retronica (2012, ndr), avevo inserito un brano popolare, Turtulleshë, che abbiamo riproposto anche in Live @ Usina».

Prima di parlare di Beatriçe, avete dato, dunque, una nuova veste a brani popolari senza mutarne la struttura?
«Quando parlo di canzoni popolari mi riferisco a una tradizione piuttosto “recente”, le più vecchie risalgono al Settecento e arrivano fino alla fine degli anni Sessanta. Sono melodie tradizionali di Scutari, non di tutta l’Albania. Se le ascolti bene sono “moderne”, per cui anche se utilizzi sonorità contemporanee, funzionano ugualmente. Operazione peraltro fatta già altre volte nel corso dei secoli: nell’Ottocento venivano suonati con strumenti mediorientali, per esempio, il kavall, a fiato simile a un flauto, o il saz, a corde pizzicate parente dell’oud e del liuto. Con l’arrivo anche della cultura occidentale hanno preso piede la chitarra acustica, l’uso del contrabbasso, della fisarmonica, del violino. Si suonavano sempre le stesse melodie ma con strumenti diversi. Oggi ci sono quelli elettronici».

Veniamo all’altra componente degli Shkodra Elektronike, Beatriçe: come vi siete conosciuti?
«Ci siamo incontrati su Internet. Lei mi ha contattato quando ancora suonavo con il Teatro degli Orrori. Seguiva la mia musica e poi era di Scutari. Ho voluto approfondire e, sempre sui social, ho scoperto che aveva un gruppo, e cantava davvero bene. Viveva in Umbria, era arrivata in Italia più o meno nel mio stesso periodo e lavorava in fabbrica, ma la sua passione era la musica, cantava in una band. “Che brava”, ho pensato, “Spacca di brutto!”. Così in una data a Perugia del Teatro degli Orrori l’ho invitata al concerto. Ci siamo seduti e abbiamo parlato. Le proposi l’idea di rielaborare la musica popolare scutarina e Beatriçe la trovò bellissima. Il discorso finì lì. Nel frattempo, ho continuato a mettere a punto il progetto, provando alcune date per testare la reazione del pubblico. All’inizio non l’ho coinvolta perché lei, da dipendente, non poteva certo assentarsi dal lavoro quando voleva».

Gli Shkodra Elektronike a Tirana – Foto Erdiola Mustafaj

E il tuo esperimento ha funzionato…
«Sì e anche piuttosto in fretta. Mi hanno chiamato a suonare alla Biennale di Venezia alla festa di inaugurazione del padiglione Albania/Kosovo a maggio dell’anno scorso. A Milano, al Germi – Luogo di contaminazione, il locale di Manuel Agnelli, ho dovuto aggiungere più date… Vedevo che il progetto stava prendendo piede, alla gente piaceva, così ho chiamato Beatriçe per un minitour di sei date da fare in una settimana. Lei ha chiesto le ferie. Abbiamo provato solo un giorno e mezzo prima di salire sul palco a Genova allo Spazio Lomellini 17, la prima data. Da lì, la settimana è diventata un mese, poi un altro e un altro ancora fino al febbraio del 2020. Abbiamo suonato anche in Albania, con buoni riscontri. Poi è arrivata la pandemia e ci siamo dovuti fermati».

Prima con i 2Pigeons, ora con gli Shkodra Elektronike: la tua dimensione ideale è un duo?
«(ride, ndr) Il duo è la soluzione per essere più leggeri nella gestione del progetto. Uso la tecnologia perché siamo in due. Essere in tanti richiederebbe investimenti maggiori che al momento non abbiamo. Spero che le cose vadano bene per avere più musicisti sui palchi con noi».

Quando avete registrato il live in Albania?
«Nel febbraio del 2020, sul filo di lana. Ci eravamo appena esibiti a Tirana, abbiamo deciso di incidere il live all’ultimo minuto utile prima del lockdown. Poi ci siamo messi a cercare un’etichetta che potesse pubblicarci. Abbiamo trovato la AltOrient di Mohamed Aser, un ragazzo palestinese che vive tra Berlino e il Canada. Ci sembrava la soluzione migliore: siamo albanesi, immigrati, abbiamo trovato su Internet un’etichetta internazionale che propone musica elettronica del Medico Oriente. Sempre della stessa etichetta, ti consiglio di ascoltare Tamada, artista georgiano bravissimo. In questo attuale contesto di “tutti contro tutti”, fare questi percorsi insieme è un messaggio di speranza, nel mio piccolo».

Cosa pensi della musica attuale? Stiamo sull’Italia…
«C’è un po’ di decadenza da anni. Non vado contro il mainstream, ti confesso che cederei anch’io! Non mi riferisco ai ragazzini che fanno la trap, piuttosto a un certo ambiente che spaccia per alternativa roba che non lo è affatto. L’italia ha la tendenza a esasperare un po’ in tutte le cose. Credo, comunque, che si tratti di periodi. Penso anche che la musica degli anni Novanta, quella della mia generazione, per certi versi ci abbia fatto quasi male: allora erano mainstream i Nirvana, Björk, i Soudgarden, i Radiohead, oggi è altro… Ci eravamo abituati bene! Un periodo che, purtroppo, è finito e tanti della mia generazione se ne sono accorti tardi. La musica, rispetta la società…».

Il Teatro degli Orrori dunque…
«È una conseguenza degli anni Novanta. Pierpaolo Capovilla, veniva dagli One Dimentional Man, come Giulio Ragno Favero, il bassista, e Francesco Valente, il batterista. Il Teatro faceva una musica senza compromessi, cruda, diceva quello che aveva da dire. Molti colleghi oggi analizzano gli artisti in base al loro successo. A me interessa se quello che uno fa mi piace o non mi piace. Il successo è diventato indispensabile, concetto esportato dai rapper americani. Rappresenta il riscatto del povero, che non è sociale, ma di reddito. L’ostentazione del povero che diventa ricco la vedi nei gioielli che indossano, nel circondarsi di belle donne, nell’avere la macchina potente. L’”IO” è diventato l’unico parametro, l’unica cosa importante. E l’”IO” non è relativizzato. La conseguenza è una musica passeggera, effimera».

Come hanno preso i “ragazzi” del Teatro la tua nuova avventura?
«Pierpaolo ha pubblicato sui suoi social, Giulio ci ha dato consigli, Marcello ha mixato i brani, tutti comunque entusiasti. Posso dire di sentirmi fortunato perché è rimasto uno spirito vero di condivisione, di amicizia».

Hai definito la musica degli Shkodra “post immigrant pop”…
«Non è facile dire cosa stiamo facendo. Noi usiamo suoni contemporanei che attraggono i giovani albanesi, ma in generale tutti i ragazzi che ci ascoltano, per poter ricordare la loro storia, da dove provengono, la cultura popolare. Post Immigrant Pop in questo senso, dove Post significa che siamo cittadini italiani ma anche albanesi, siamo tutte e due le cose e, in realtà, nessuna delle due; Immigrant perché viviamo una commistione tra la nostra cultura originaria e quella che abbiamo scoperto e fatto nostra; Pop perché con l’elettronica parliamo una lingua oggi comprensibile».

Roberta Giallo, ovvero la poetica della vita tra Lucio e l’Arte

Roberta Giallo – Foto Valerio Mengoli

 

Oggi leggerete una bella storia. Ha a che fare con quel geniaccio di Lucio Dalla e con la bravura di un’artista baciata dagli dei della musica. Ritorno al musicista bolognese, visto che settimana scorsa vi avevo presentato Caro Lucio rispondo, l’album di Sergio Rossomalpelo Gaggiotti, un intero disco-risposta a una famosa lettera-canzone di Lucio, L’Anno che verrà.

La protagonista del post è un’artista completa, compone, suona, canta, è attrice di cinema e teatro, scrittrice, pittrice, una di quelle persone con cui parlare è sempre una bella, grande avventura: Roberta Giallo. Marchigiana di nascita, bolognese d’adozione, ha pubblicato, lo stesso giorno di Rossomalpelo, il 4 marzo scorso, un brano dedicato a Lucio e alla sua Bologna dal titolo La città di Lucio Dalla (Tgcom24.it, la testata che ospita il sottoscritto e Musicabile, ha pubblicato in anteprima il video che potete vedere qui).

Su Dalla e su quello che aveva consegnato alla mia generazione avevo scritto uno dei miei primi post un paio d’anni fa. Intervistare, anzi, chiacchierare con Roberta, una di quelle sane “parlate” che sono possibili solo quando ci si sente a proprio agio, mi ha confermato quanto il lascito di Lucio sia stato importante. Una conversazione fitta, dove è emersa un’artista dotata di grande creatività ma anche di altri mille interessi, una mente mai ferma, una donna che non ha mai smesso di sognare che canalizza nella musica, nella scrittura, nella pittura, nel teatro, nel cinema e chissà in cos’altro ancora, tutte le sue energie. La creatività viene dalla fantasia, dall’esercitare ogni giorno quella parte ribelle di noi che vuole vivere i propri sogni.

Artista di grande esperienza, usa la voce con una naturalezza disarmante. Se la ascoltate in Anidride Solforosa, bellissimo pezzo firmato Dalla/Roversi, incluso in un disco – dal titolo Vicina Vicina – registrato in presa diretta e pubblicato sotto lockdown nel 2020, Roberta riesce a rendere la sensazione di quella nube tossica che soffoca la società, che poi è lo smarrimento dell’uomo, raspando la melodia, grattandola, scalfendola, seghettandola.

Se, poi, non avete ancora ascoltato Canzoni da Museo, album dello scorso anno dove ha musicato nove poesie di Giovanni Gastel, Roberto Roversi e Davide Rondoni, fatelo! Fossi stato allevato dalle scimmie di Gastel è l’ironico brano che introduce un percorso poetico e sonoro di grande delicatezza e attualità…

Roberta, non possiamo non iniziare da Lucio Dalla…
«È stato una persona e un artista straordinario che la vita ha messo sulla mia strada. Un po’ per destino, un po’ perché si finisce per incontrare sempre ciò che si ama. Arrivata a Bologna avevo conosciuto Mauro Malavasi (musicista, produttore, amico e collaboratore di Dalla, ndr). Con lui avevo avviato un percorso professionale, sfociato poi in una grande amicizia. Avevo in testa un progetto composito (disco, romanzo e spettacolo teatrale) che riguardava una mia storia personale (lo scoprirete tra un po’, ndr). Malavasi mi disse: “L’unico artista che può capirti è Lucio Dalla”. Gliene parlò e Lucio volle conoscermi, così mi invitò a cena. Da quella sera è iniziato un bellissimo viaggio di conoscenza, sia umana sia artistica. Il nostro rapporto non si limitava a una mera collaborazione professionale, il mentore affermatissimo che consigliava una giovane artista, ma era diventato un… legame familiare. Ero spesso a casa sua e lui a casa mia… A volte, semplificando, dico che Lucio per me è stato un po’ il mago di Oz, mi ha aiutato a realizzare sogni grandi, mi ha dato il coraggio, quel po’ di intraprendenza in più che mi mancava. Mi diceva: “Sbaglia e impara… non aver paura di quello che dicono gli altri”.

Quando hai scoperto la musica?
«Dacchè ho memoria di me stessa, ho sempre cantato e suonato. La mia prima lezione di pianoforte l’ho fatta a quattro anni e mezzo. A tre cantavo con mio papà, con in mano una specie di microfonino, La Casetta in Canadà! Ho iniziato a studiare piano in modo rigoroso con un’insegnante polacca che seguiva il metodo russo. Nonostante ciò, riuscivo a ritagliare sempre uno spazio per improvvisare. Dopo sette anni di piano ho capito che il conservatorio a cui ero destinata, non era la mia strada. Volevo sperimentare cose mie. Ed è proprio quello che sono diventata: una cantautrice aperta a tanto altro, mi sento bene così, perché trovo stimolo da più arti».

Prima di attrice, scrittrice, pittrice sei una musicista…
«Sono definizioni che uso per semplificare. Mi definisco, scherzando, cantautrice italiena, perché diversa e trasversale. Sono cantautrice ma anche interprete. Ho le mie canzoni, percorsi da interprete, percorsi in teatro dove divento performer. Anche il teatro-canzone è una formula che in qualche modo ben mi si accosta. Nella canzone porto sempre un racconto come chiave, una dimensione dove mi ritrovo…».

I tuoi lavori contengono narrazioni compiute, vedi Vicina Vicina: hai scelto tre cantautori a te affini, Dalla, De Andrè e Tenco diventati un filo conduttore…
«Credo che, ancor prima di me stessa, venga l’opera. Noi artisti siamo solo un veicolo, qualunque cosa facciamo. Dobbiamo promuovere la nostra immagine per far conoscere ciò che abbiamo creato, ovviamente solo se speriamo e pensiamo che stiamo lavorando per cose grandi. Lo stesso vale per gli album: non ho mai pensato a un greatest hits, piuttosto a un concept album. Ciò viene dal mio amore per l’arte figurativa, un viaggio compiuto che fai dall’inizio alla fine, per dare valore all’opera, sia esso un disco o una pièce teatrale».

La Città di Lucio Dalla farà parte di un nuovo album?
«Domanda interessante. Questa canzone è nata veramente per i fatti suoi. Quando Lucio ci lasciò, provai un grande dolore. Fu una botta incredibile, persi un amico e un mentore. Sprofondai nel silenzio. Scrissi la canzone un paio di giorni dopo la sua morte, per lui e per Bologna che mi aveva permesso di ospitarmi e di farmelo conoscere. L’ho ritirata fuori dopo tanti anni dallo scrigno della memoria, l’avevo tenuta lì per pudore. La ferita era troppo fresca, ne stavano parlando già in tanti… Oggi che questa si è chiusa, posso ricordarlo come si merita. Quando ho deciso di pubblicarla, per l’arrangiamento ho pensato, e ne ho parlato con il produttore (Enrico Dolcetto, ndr), a una chiave che potesse raggiungere anche i più giovani, conservando però qull’aspetto più cantautorale, che è la mia cifra. Creare canzoni fuori dal tempo, attuali ma non così collocabili stilisticamente: la musica che sfugge al tempo. Immagino di inserirla nell’album che sto preparando, anche perché l’utilizzo di sperimentazioni elettroniche unite all’acustico possono far nascere un bel progetto».

La tua musica è classificata in tanti modi, Alternative, WorldWide, Pop… In quale genere la identifichi?
«L’artista, poveraccio, ai giorni nostri deve essere un po’ influencer e un po’ prodotto da supermercato, avere attaccata un’etichetta. Quest’ultima te la devono incollare per forza se tu vuoi esistere nel mercato musicale. Anche se io non mi definissi me la affibbierebbero comunque. “Metti quello che vuoi”, mi dicono. Allora penso: sono pop, mi piace esserlo, sono per chi mi vuole ascoltare non mi considero un’elitaria della musica, cerco di fare cose belle, sentite. Quindi scelgo quelle “non definizioni”, che sono piuttosto larghe. La realtà è che sono molto curiosa, mi dedico a tante cose oltre la musica, quest’anno farò anche due film…».

Davide Rondoni sostiene che “la poesia mette a fuoco la vita”. Lo pensi anche per la musica?
«Il concetto di poesia di origine greca, oltre alle parole include la musica, che è un po’ come una divinità, estesa, non puoi controllarla né definirla fino in fondo. Musica può essere anche un’astrazione, al di là di se stessa, il luogo delle muse. Quindi, sì, può mettere a fuoco la vita! Nel mio caso lo fa, ma con il rimando: la vita mette a fuoco la musica. Finita la fase di me adolescente che già scriveva canzoni attingendo da un universo fantastico (a 15 anni sembravo una donna di 40 anni, già sposata…), una volta diventata adulta ho sentito l’esigenza di mettere a fuoco sempre un mondo fantastico ma soprattutto una “lei” più matura, che ha vissuto la vita. C’è molta vita nei miei brani, prendi La città di Lucio Dalla. La canzone ha questa grande potenzialità è un mondo enorme, vago, dove ognuno ci vede quello che vuole».

Hai pubblicato un disco, Canzoni da Museo (2021), mettendo in musica alcune poesie di Giovanni Gastel, Davide Rondoni e Roberto Roversi. Questo continuo dialogo tra poesia e musica lo intendi nell’accezione ellenica o è una ricerca ulteriore, un immaginare l’arte in un modo più complesso?
«Grazie, domanda molto bella! Posso parlare di poesia almeno in due modi diversi: quella legata a canoni ben definiti, intesa come studio, e l’altra come approccio più poetico alla vita, che non esclude la prima, ma che è un modo di essere. Ci sono persone che trovo estremamente poetiche nel loro relazionarsi con la vita, l’amore, l’amicizia, per come percepiscono la natura e l’ambiente circostante. Fin da bambina avevo questa propensione poetica alla vita, mi vedevo come una donnina dell’Ottocento. Ho una memoria – e probabilmente anche una nostalgia – di un passato che non ho vissuto, o magari l’ho vissuto in un’altra epoca! Quando scrivo musica uso, dunque, un approccio poetico. Comporre un brano per me non è un atto commerciale. Rispetto chi lo considera tale, ma io faccio tutt’altro, sono  due lavori diversi. L’arte non può essere delimitata da troppi paletti. In questo senso mi definisco poetica, riuscire ad arrivare alla cellula primigenia che fa scaturire una canzone, un testo, un quadro, creare legati a un sentimento. Alla fine mi occuperò anche della collocazione sul mercato, dell’etichetta… Gli antichi greci parlavano di Daimon, il demone che ispira l’artista: cerco sempre di rintracciare il mio. Altra cosa se devi scrivere su commissione, allora lì viene fuori il mestiere. La poesia c’è nelle situazioni di decadenza e in quelle pompose, è il nostro occhio che può coglierla».

Questo tuo modo d’essere è stato influenzato dalla famiglia?
«L’ambiente è importante, anche se poi c’è un quid che sfugge: ci sono fratelli educati allo stesso modo che diventano l’opposto uno dell’altro. Sono nata in una famiglia dove mia mamma è stata il viatico perché l’arte diventasse per me importante. Lei è una pittrice, insegnava in una scuola d’arte. Quando era incinta, ascoltava tanta musica classica convinta che mi facesse bene. Mi parlava molto della cultura classica, mi ha preparata ad amare tutto questo. Non lo ha fatto, invece, con il mondo. A scuola sono arrivata con un’educazione da “donnina ottocentesca”. Se non non è stato un problema alle elementari, lo è diventato poi. Ho frequentato il classico e l’università, filosofia. Al liceo ero vista come una giovane “strana”. I ragazzi pensavano a uscire mentre io, già a 11 anni, frequentavo il coro polifonico, dove si cantava musica gregoriana. A parte alcune amicizie della mia età, ho preferito coltivare rapporti con persone più grandi di me: uno dei miei più grandi amici è stato il mio insegnante d’arte del liceo. Oggi posso dire che tutto ciò è stata la mia fortuna, ma ho avuto tante difficoltà nell’integrarmi con gli altri. Sono stata emarginata perché non trovavo coetanei con cui condividere le mie passioni. La musica è stata il mio rifugio. Per me è un modo per stare con gli altri, è ciò che mi permette di incontrare gente, la molla sociale che mi offre la mia professione è ciò che mi muove nel mondo, che mi dà un senso».

Il tuo primo lavoro, L’Oscurità di Guillaume a chi era dedicato? Ad Apollinaire, a de Machaut?
Roberta mostrandomi Web Love Story, un romanzo da lei pubblicato, mi spiega: «Si intitola in un altro modo, ma in realtà è la storia de L’Oscurità di Guillaume (2017). Guillaume era un ragazzo francese bellissimo che conobbi per caso appena finita l’università. La musica non mi dava ancora da vivere per cui lavoravo in un negozio di mobili. Si presentò questo giovane affascinante, ci scambiammo i numeri di telefono perché gli avevo raccontato dei miei sogni, della  mia voglia di fare musica e lui voleva ascoltarmi… Su Myspace avviai una corrispondenza – io da Bologna, lui dalla Francia: finalmente avevo trovato una sintonia, era anche lui un uomo dell’Ottocento! Iniziammo una corrispondenza molto bella, lui da quanto mi raccontava, aveva ancora una relazione aperta ma arrivata agli sgoccioli. Poi, mail dopo mail, sbocciò l’amore, si conversava su Skype per ore. Questa storia ebbe un finale tragico. Mauro Malavasi, a cui avevo raccontato tutta la vicenda, mi spinse a elaborare la tragedia scrivendo una sceneggiatura, raccontandola in musica. Ne fu così entusiasta che mi disse: “Solo Dalla può aiutarti a mettere insieme tutto questo”. Così Lucio ricevette la bozza della mia storia, ne rimase affascinato, ci incontrammo a cena e.. da lì nacque tutto».

Scusa se ritorno sulla tua storia d’amore, ma Guillaume l’ha poi ascoltato il disco?
«Non lo so. Dopo mesi e mesi di fitta corrispondenza Guillaume non si presentò all’incontro stabilito. Dovevamo andare in Francia a trascorrere quindici giorni e lui doveva venire a prendermi. L’ho atteso, invano. Il giorno dopo sono venuta a sapere che era morto in un incidente mentre veniva in Italia da me… A distanza di tempo ho dubitato molto di questa morte. Lui cessa d’esistere, i messaggi che gli avevo inviato in quelle ore non erano stati letti sul suo telefono. Dopo nove giorni, però, improvvisamente Whatsapp me li dava tutti spuntati. Si fece vivo un amico di Guillaume che mi confessò di essere innamorato di lui e che fu lui ad accendere il cellulare per cancellare certi suoi messaggi e a leggere i miei… Il mistero si infittì, tutti facevano le loro congetture, anche Lucio: sospettava che i due fossero già una coppia, lui si era preso una cotta per me e non sapeva come uscirne così avevano inscenato tutto… Dopo anni penso che lui sia ancora vivo, che l’amico innamorato fosse solo una sua invenzione e la morte una messa in scena per scomparire…».

Un libro, un disco: manca una serie crime alla Netflix…
(ride, ndr!) Perché no! Potrei cercare un regista e ampliare questo capitolo della mia vita. Per me continua a rimanere un mistero irrisolto…».

Qual è il filo conduttore del nuovo lavoro?
«Dopo le Canzoni da Museo, tornerò a un progetto al cento per cento cantato, reale. In cantiere ho sempre avuto tantissime canzoni, La città di Lucio Dalla è una di queste. La mia idea è scrivere e recuperare brani dal cassetto per raccontare una nuova storia. Questo è un momento molto stimolante per scrivere e offrire punti di vista, bisogna solo cercare alcune parole chiave. Inoltre, continuo con i miei spettacoli a teatro, Morirete Cinesi con Federico Rampini, e Il mio incontro con Lucio Dalla, con Ernesto Assante. Spero in un tour meglio strutturato, ma è molto difficoltoso, vista ancora la grande incertezza pandemica. A proposito di teatro canzone: alcuni giorni fa mi ha chiamato Francesco Baccini, abbiamo in mente di unire le forze per fare qualcosa insieme. Tanti buoni progetti nascono così…».

Clio and Maurice: la voce, il violino e la ricerca della bellezza

Non potevo iniziare meglio l’ultima settimana di marzo! Mi sono, infatti, imbattuto in due giovani artisti, Clio and Maurice, lei una gran voce soul, lui violinista versatile, entrambi di Milano. Voglio cominciare da loro, nei prossimi giorni il mio racconto musicale si sposterà fra teatro-canzone e jazz contemporaneo, con belle sorprese e graditi ritorni. Clio and Maurice mi hanno convinto per più di un motivo: sono giovani, hanno un facile talento, e, non guasta mai, hanno ben delineato il loro percorso artistico. E poi, da non sottovalutare, sono fuori dal coro.

È la mia piccola battaglia quotidiana che combatto attraverso Musicabile: proporre alla vostra attenzione musicisti che hanno qualcosa da raccontare. Mi illudo, così, di contribuire a versare almeno una goccia in quel mare di cultura e bellezza che, inesorabile come l’esigenza idrica sul Pianeta, va via via prosciugandosi. La speranza che qualche discografico “illuminato” possa ritornare a indossare scarpe comode e andar per palchi o passaparola a cercar talenti come si faceva oltre mezzo secolo fa, prima che il meccanismo s’inceppasse con l’avvento dello streaming e del digitale (più facile scritturare qualcuno in base ai like sui canali social), non mi abbandona. 

Rientro dalla mia divagazione: Clio and Maurice, all’anagrafe Clio Colombo, 26 anni, e Martin Nicastro, 29, sono entrambi animati dall’esigenza di raccontare qualcosa di nuovo, che valga la pena d’essere ascoltato. Coppia d’arte da quattro anni e di vita da otto, stanno affinando un progetto-sfida: sfruttare la potenzialità della voce e del violino, per ottenere una fusione carismatica grazie anche all’uso sapiente dell’elettronica.

Nella loro musica si avvertono tutte le escursioni/espressioni soul di Clio – in alcuni brani ricorda il pathos di Annie Lennox o l’estro di Björk -, mentre Martin, con la continua ricerca di nuove sonorità da dare al violino, strumento che, nelle sue mani, diventa “altro”, se proprio deve ricordare qualcuno, fa pensare ad Andrew Bird o a certe atmosfere alla Brian Eno. Un duo che si sposta leggero, con un solo strumento e una loop station, oggi è un valore aggiunto… All’attivo hanno vari singoli e un EP, Fragile, uscito nel 2020. Stanno tentando ì di far uscire il loro primo album – appena troveranno una casa discografica disposta a credere in loro.

Li ho incontrati in un bar dalle parti di Loreto per conoscerli meglio, davanti a un buon caffè.

Clio, Martin, raccontatemi, com’è nato il vostro sodalizio musicale?
Clio: «Ci siamo conosciuti per caso, da amici comuni, otto anni fa. A me è sempre piaciuto cantare, ma non lo consideravo un possibile lavoro. Mi divertivo a interpretare cover. Dopo quattro anni di vita insieme è nata spontanea l’esigenza di unirci anche nella musica».
Martin: «Ci siamo seduti attorno a un tavolo e abbiamo riflettuto seriamente su come costruire qualcosa di originale con ciò che avevamo a disposizione, lei la voce, io il violino. Che è uno strumento “nomade” per definizione…».

Martin, oltre al Conservatorio, hai suonato in una band diventata piuttosto famosa, i Pashmak: ricordo un vostro album che mi era piaciuto particolarmente, Let The Water Flow
«Era un bel gruppo, abbiamo fatto molti concerti insieme, ma la gestione costava molto, eravamo soddisfatti se nei nostri tour finivamo non perdendo soldi… Io suonavo il pianoforte e il violino».

In duo è più agile, almeno nella gestione dei live…
Martin: «Sicuramente è stata una scelta di carattere pratico ma c’era soprattutto la volontà di fare qualcosa di diverso».
Clio: «Per me è stato l’attimo “buono” per sbloccarmi e iniziare a scrivere. Siamo partiti usando molto i loop. Cercavamo di comporre brani più strutturati, qualcosa che si potesse combinare con un loop. Oggi li usiamo molto meno. Siamo orientati su cose più radicali, violino e voce senza troppi effetti, più melodici…».
Martin: «Uso un pedale multieffetto, con cui faccio i loop, mentre con un octaver creo la linea del basso».

Il violino lo suoni molto poco nel modo tradizionale…
Martin: «Non direi. Cerco suoni polifonici, che ottengo sia pizzicando le corde, sia usando l’archetto, ma anche suonando accordi».

Come vi siete divisi la composizione?
Clio: «Partiamo prima dall’armonia e su quella provo a improvvisare qualcosa con parole chiave che mi evochino il brano. Poi inizio a scriverci intorno. Sono i suoni che danno il senso al testo».

Perché avete scelto di esprimervi in lingua inglese?
Clio: « Mi veniva più spontaneo, è quella che mi parla di più».
Martin: «La lingua influenza la musica. La nostra è stata una scelta d’istinto, ma c’è anche la consapevolezza che per il nostro tipo di musica l’inglese sia il “suono” giusto».

Un modo per allargare i confini, andare oltre l’Italia…
Clio: «La vediamo come una scommessa: essere italiani e fare musica in inglese, come fanno da anni i tedeschi o i nordeuropei».

Siete cresciuti con la musica in casa?
Martin: «Non veniamo da famiglie musicalmente “fornite”. C’erano ascolti diversi, quelli normali, da pubblico non educato. Ho iniziato a 14 anni con musica bella, la classica… Ascoltavo anche i Queen, i Led Zeppellin. Ricordo, però, che confondevo I Radiohead con i Motörhead, pensa com’ero messo!».
Clio: «Adolescente, sono improvvisamente passata da Hilary Duff, ad ascoltare e amare Ella Fitzegerald…»”.

Oggi quali sono i vostri ascolti?
Clio: «Tanti generi diversi. Ultimamente mi dedico molto al jazz, soprattutto quello nordeuropeo, mi sono innamorata della scena jazz svedese degli anni Sessanta».

Torniamo alla vostra musica: secondo me è particolarmente interessante perché il duo permette di esprimere le qualità di entrambi e valorizzarle. Quando suonate live chi viene a vedervi? Viene capita la vostra musica?
Martin: «Dobbiamo distinguere tra Italia ed Europa. Quando suoniamo in Francia, Olanda, Germania, ma anche in Gran Bretagna, possiamo cento come undici persone ad ascoltarci, ma sono tutte molto attente, capiscono quello che stiamo proponendo. In Italia, finora, quando ci esibiamo dal vivo abbiamo la sensazione di sembrare degli alieni. Ovunque, fuori, abbiamo percepito di essere nel posto giusto e di star facendo la cosa giusta».

Clio, stai passando un anno sabbatico a Berlino. Com’è la situazione lì?
«Sicuramente diversa da qui, anche se quella scena multiculturale, aperta, vivace è molto cambiata. Sempre molto creativa, comunque. C’è maggiore accesso all’interscambio tra artisti, lo stato tedesco tutela l’arte: anche nel periodi di Covid gli artisti che si sono trovati di colpo senza soldi, sono stati aiutati. Si percepisce che l’arte è considerata fondamentale».

Qui contano molto i contenuti mainstream. Chi non rientra, ha uno spazio di manovra stretto. È una questione culturale, che prima o poi dovrà essere affrontata…
Martin: «Credo sia inevitabile che prima o poi qualcosa cambi. Quello che manca in Italia è un po’ di coraggio da parte delle etichette discografiche: dovrebbero osare di più, investire invece di andare sempre sul sicuro».

Perché Clio and Maurice?
Clio: «Volevamo un nome che fosse disorientante, di cui non si capisse l’origine geografica, senza però perdere l’idea della coppia: volevamo essere noi e allo stesso tempo altro rispetto a quello che siamo».

Come etichettereste la vostra musica? Avant Pop?
Martin: «Mi sembra un po’ troppo impegnativo. Starei piuttosto su pop sperimentale, o pop alternativo».

Continuerete a suonare in duo?
«Nel disco che abbiamo praticamente finito abbiamo scelto di collaborare in alcuni brani con alcuni musicisti, gli Any Other, Margherita Carbonell al contrabbasso e Francesco Tanzi al violoncello. Per ora sì, è la veste che ci siamo dati e ci crediamo!».

Caro Lucio rispondo… la “lettera” di Rossomalpelo a Lucio Dalla

L’altro giorno, con Dan Costa, siamo finiti a discutere di estetica della musica. Per il musicista italo-lusitano la musica non può avere interferenze, vedi il testo, perché questo “rovinerebbe”, anzi, interpreto meglio, “altererebbe” l’armonia e la purezza del suono. Visione più che legittima, se aprissimo un dibattito staremmo giorni a dire la nostra. Non per semplificare, ma c’è musica per ogni momento, un linguaggio che può assorbire altri linguaggi, e sta proprio qui la sua meraviglia! Per questo voglio condurvi, per dirla con i Pink Floyd, on the other side of the moon, per parlare non di melodie ma di parole, testi, poesie, estetica del linguaggio.

Me ne offre l’occasione un artista romano, una bella persona, di gran cultura e altrettanta passione, uno di quelli che usa la scrittura per far suonare la vita. Si chiama Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti. Di professione è musicista, paroliere, scrittore, sceneggiatore di testi teatrali, autore di colonne sonore. Nel suo lungo curriculum è stato pure arrangiatore e direttore artistico per il primo disco dei Presi per caso, gruppo musicale formato nel carcere di Rebibbia, attivo ancora oggi. Proprio questa settimana, Rossomalpelo è stato invitato dall’Instituto Cubano de la Música a esibirsi, in maggio, al festival Cubadisco, ma anche a tenere, con orchestre locali, una tournée sull’isola da cui nascerà un disco.

Mi ha incuriosito il suo ultimo lavoro uscito il 4 marzo: Carlo Lucio rispondo, album che risente fortemente della pandemia e dei lockdown, interpretati come smarrimento dell’oggi, dove in questo etereo benessere, l’arrivo di un virus, seppur bastardissimo, ha fatto saltare i concetti di libertà, condivisione, cultura, democrazia. La guerra di Putin, poi, non ha fatto altro che confermare la deriva di un mondo che ha perso i contatti con la realtà. Mi ha colpito il titolo dell’album, che richiama la frase iniziale de L’anno che Verrà, una delle canzoni più famose di Lucio Dalla, pubblicato nel 1979. Senza essere alla ricerca di facili protagonismi, visto il decennale della morte dell’artista bolognese, Sergio pensando a tutto quello che abbiamo passato e stiamo vivendo, ha trovato il modo per raccontare l’attualità rispondendo alla famosa lettera che Lucio indirizzò 43 anni fa e a cui nessuno, finora, aveva dato ufficialmente risposta.

Uno scambio epistolare, insomma. Dice: «Da piccolo ero rimasto colpito dal brano, uno che “canta una lettera”, ma anche dal fatto che nessuno si fosse pensato di dire: me lo chiedi? Ecco, ti spiego io cos’è successo».

Venendo al disco: sono 24 minuti e 15 secondi ricchi di considerazioni, c’è tristezza, apatia, ironia, allegria. Gaggiotti è riuscito a riassumere due anni di pandemia in nove, concentrati, flash. Un equilibrismo perfetto. In questa narrazione c’è una piccola perla alla Tenco, nel più elegante ermetismo, che ho apprezzato molto, appena 44 secondi dove è racchiuso tutto il senso della solitudine, della lontananza, del desiderio, Il Peso dell’Assenza:

Così è questo
il peso dell’assenza.
Il vuoto, disegnato in frasi articolate,
oggi diventa sostanza
si fa massa.
Lo spazio è occupato dal nulla
e restano pugni chiusi
al termine di queste braccia.

Il “tutti liberi” dal lockdown è descritto in Aprono i bar, ambientato a Roma, in un bar d’angolo, una bella giornata di sole, la gente che cammina, le auto percepite come “un ingorgo diffuso”, mentre Quarantella, la traccia finale, un romanesco spoken word, accompagnato da un riff iniziale alla Calibro 35, ricongiunge il tutto in una forma ironica ma sostanziale…

Hai scritto a Lucio una bella e composta “missiva”, in nove punti…
«Questa mancata risposta è stato un mio cruccio per molti anni. Non capivo perché un cantante, allora, avesse sentito l’esigenza di prendere carta e penna e scriverci. Ho aspettato tanto prima di rispondere e il lockdown mi ha convinto a farlo. Aveva immaginato un futuro migliore, invece…».

Com’è nato il disco?
«Ho fatto tutto da solo, sia per il lockdown sia perché l’ho presa come una cosa personale. E poi sono un “indipendente” non devi rendere conto a nessuno, faccio quello che mi pare. Così ho pensato di pubblicarlo il primo marzo, il giorno che Dalla se ne andò. Caro Lucio rispondo vuol essere una narrazione del nostro presente per ricordare ciò che lui aveva previsto per il futuro».

Veniamo alla musica e al cantautorato, come la vedi?
«La musica si è sempre divisa in due, quella mainstream e “l’altra”. Quest’ultima è sempre stata in opposizione alla cultura dominante. Negli anni di Dalla c’era ancora chi desiderava scoprire musica interessante, c’erano i talent scout che frequentavano i locali, andavano in cerca di artisti validi… infatti sono nati i vari Graziani, De Gregori, Fossati e tutti i cantautori di quella generazione. Oggi non vedo più questo interesse. L’assurdo è che mi chiamano dal Messico per andare a fare una tournée, ma devo declinare perché non ho i mezzi per potermi permettere una serie di date così lontano. Il mercato c’è, c’è chi ha voglia di ascoltarci. Ma è più facile puntare su una musica da consumo».

I tuoi concerti sono un po’ all’antica…
«Vado a suonare raccontando, mi piace partecipare con il pubblico, ridere con lui, parlarci. Non sono io il protagonista della serata ma le persone che hanno scelto di venire ad ascoltarmi. Credo, inoltre, che nella musica ci siano fasi cicliche, come nella storia. La gente ora ha voglia di ascoltare racconti, musica “per adulti”».

Condivido la tua analisi, anche perché c’è molto di più oltre ai dolori egocentrici di tanti giovani Werther…
«Quello che manca, e sarebbe psicologicamente da studiare, è un racconto sociale. Le visioni dei trapper non mi piacciono. La strada diversa esiste: artisti come me non sopravvivono, lavorano! Un mio singolo, Il mare mi salva, ha venduto nel mondo oltre 250mila copie. Quando uscì la playlist di papa Benedetto XVI e si scoprì che al quarto posto c’era il mio brano, ho iniziato a ricevere telefonate da tutto il mondo, richieste di concerti, persino dalle Hawaii. Mi son detto “‘Ammazza che so’, Elvis Presley?”… Un artista non ha bisogno di essere mainstream per guadagnare. Credo nel successo personale, la fama è un’altra cosa. Per questo vado avanti a raccontare la mia realtà da indipendente. Il mercato batte altre strade, deve occuparsi di persone che fanno vendere».

Come hai iniziato a suonare?
«Da autodidatta. A 16 anni ho preso in mano la mia prima chitarra, mi riusciva facile imparare, avevo orecchio, vedevo chi sapeva suonare e imparavo. A 20 anni ho saputo che c’era un’orchestra in cerca di musicisti. Così, da incosciente, mi ci sono fiondato. Durante le prove per ottenere il posto, finché s’è trattato di eseguire un brano tutti insieme è andato liscio, fingevo di leggere lo spartito invece andavo a orecchio. Il problema s’è manifestato quando è arrivato il momento di fare la mia parte, non sapendo leggere la musica non lo avevo capito. Ho fatto una figura così brutta che mi sono vergognato di me stesso, mi sono imbarazzato da solo!  Il direttore mi ha guardato e mi ha detto: “Impara a leggere e poi torna”»…

L’hai fatto?
«Certo, mi sono impegnato, mi sono iscritto al conservatorio, ho frequentato i primi tre anni di chitarra. Poi ho capito che la mia vera passione era la composizione. Mi piace scrivere per tutte le parti, chitarra, basso, pianoforte, batteria… Comunque sì, il direttore poi mi prese a suonare nell’orchestra. Avevo imparato la lezione».

Quando componi scrivi prima i testi o la musica?
«Ho l’esigenza di raccontare quello che sento e che vedo. Lavoro tanto sui testi fino a quando il mio “io” ipercritico non è soddisfatto. Poi adatto la musica al testo. Se sono in 4/4 e le parole non ci stanno, passo ai 9/4. Detto questo, la musica deve avere comunque un buon livello qualitativo».

La scrittura ti coinvolge molto…
«L’unica cosa che non oso affrontare è il romanzo. Scrivo racconti, ci sono narrazioni per le quali non basta una canzone. Il teatro mi piace molto, anche quello moderno, amo l’attore che non mi fa più sentire che sono a teatro, mi piacciono molto i monologhi. Scrivevo molto per il teatro e il cinema, ma i due anni di pandemia hanno bloccato questo flusso».

Curiosità personale, ma scrivi a penna o a computer?
«Le canzoni che le scrivo a mano, mentre i racconti al computer, altrimenti, conoscendomi, mi perderei tutti i fogli».

Domanda alla Marzullo e chiudo: c’è qualcosa che porti sempre con te?
«La mia chitarra, non esco senza! Mio padre me ne regalò una a 16 anni e dopo due mesi morì. Non osavo tirarla fuori dalla custodia. Ci sono voluti un paio d’anni perché mi decidessi a prenderla tra le mani. Per l’amore di quel gesto, ora la porto sempre con me. Non è la stessa, ne uso una, più piccola, una Parlor, ha un gran bel suono!».

Tanto per ricordare la lettera di speranza del grande Lucio e la risposta di Rossomalpelo, vi allego i testi…

L’Anno che verrà

Caro amico, ti scrivo, così mi distraggo un po’
E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò
Da quando sei partito c’è una grande novità
L’anno vecchio è finito, ormai
Ma qualcosa ancora qui non va
Si esce poco la sera, compreso quando è festa
E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra
E si sta senza parlare per intere settimane
E a quelli che hanno niente da dire
Del tempo ne rimane
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Porterà una trasformazione
E tutti quanti stiamo già aspettando
Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno
Ogni Cristo scenderà dalla croce
Anche gli uccelli faranno ritorno
Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno
Anche i muti potranno parlare
Mentre i sordi già lo fanno
E si farà l’amore, ognuno come gli va
Anche i preti potranno sposarsi
Ma soltanto a una certa età
E senza grandi disturbi qualcuno sparirà
Saranno forse i troppo furbi
E i cretini di ogni età
Vedi, caro amico, cosa ti scrivo e ti dico
E come sono contento
Di essere qui in questo momento
Vedi, vedi, vedi, vedi
Vedi caro amico cosa si deve inventare
Per poter riderci sopra
Per continuare a sperare
E se quest’anno poi passasse in un istante
Vedi amico mio
Come diventa importante
Che in questo istante ci sia anch’io
L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
Io mi sto preparando, è questa la novità

 

Caro Lucio rispondo
Caro Lucio rispondo, con molto ritardo
Ma qui le cose non vanno, stiamo ancora lottando
Aspettiamo che il mondo rinasca nel vuoto di giorni in cui non si esce
E non è più stato Natale
è soltanto un lunghissimo tempo sospeso nel vuoto
Al quale gli uccelli però, fanno ancora ritorno
Ma non ci sono preti che si sposano
E qualcuno crede ancora che ammazzare
Sia naturale conclusione di un amore
E non ci son più santi né uomini, che i capitani
fuggono e non si riesce a fermarli.

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso (x2)

Caro Lucio comunque qualcosa è cambiata davvero
Bergamo ha un Marzo rubato,
le sedie dei vecchi son vuote
E Rosso è di nuovo l’esatto contrario del bene
Ma è solo un lunghissimo tempo sospeso nel vuoto
Al quale gli uccelli, sicuro, fanno ancora ritorno
E anche se non ci sono preti che si sposano
Crediamo ancora nell’amore che non distingue generi
Ma si fa cogliere
E non ci son più santi né uomini, che i capitani
fingono e non si riesce a fermarli.

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso (x2)

Ecco, caro Lucio, non ho scritto forte come hai fatto tu
Che non son mai stato lontano
Ma ho ricordi, di vetri appannati e disegni e pomeriggi di capelli da contare
Con lo sguardo fino in fondo al buio di quel mare
Dove in fondo, nessuno, è mai solo davvero

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso