Musica, significati e qualche riflessione sulle bandiere…

Quello che mi stupisce sempre dell’America, intesa come Stati Uniti, è che c’è sempre una fiammella accesa anche nei momenti più bui. E che da quella fiammella possono nascere luci, progetti, futuro. Mi ha colpito molto una serie di idee, opinioni, proposte, che il quotidiano The New York Times ha riassunto in Snap out of it, America! (tradotto, un lapidario Reagisci, America!). Nell’ultima “puntata”, a corollario dei tanti interventi che hanno coinvolto la modernizzazione del Paese, la Costituzione, la politica, la democrazia, l’educazione, l’economia, c’è stata una riflessione che ho trovato illuminante: rivedere in forma artistica e provocatoria la famosa bandiera a stelle e strisce.

Dargli nuovi significati, scomponendone i simboli. L’intento? Un Paese che accetta di rivedere il massimo dei suoi simboli, è un Paese senza paure. Potete andare a vedere tutto ciò sulla pagina dedicata del quotidianoPer restare al gioco del NYT, possiamo cimentarci nel paragone di alcune tra le bandiere rivisitate con altrettanti musicisti, non necessariamente americani, perché il gioco del re-immaginare nuovi vessilli vale ovunque.

La bandiera americana vista dallo studio 2X4

Alla “flag” diventata nebulosa, dello studio grafico 2×4, dove tutti i simboli e i colori sono talmente sfuocati da non percepirli più nel loro giusto posizionamento e significato, ho pensato di collegare Christian Scott aTunde Adjuah e la sua X. Adjuah (I owns the night), tratta dall’interessante Axiom (live) uscito lo scorso anno di cui vi ho già parlato qui, dove il musicista sovrappone stili e ritmi a significare l’esistenza di un’America multiculturale nella quale tutte le culture dovrebbero avere lo stesso valore e forza comunicativa.

La bandiera molto concettuale di Andrew Kuo, artista che usa il colore come arma di denuncia, fa pensare a un brano famoso di Bob Marley, Buffalo Soldier, ricordate, pubblicato come singolo e quindi nella raccolta Confrontation del 1983? Buffalo Soldier, Dreadlock Rasta/ There was a Buffalo Soldier/ In the heart of America/ Stolen from Africa, brought to America/ Fighting on arrival, fighting for survival…

Invece, quella super grafica e precisina di Natasha Jen, Michelle Ando e Veronica Höglund, di Pentagram Design, nella quale le stelle sono allineate e incastonate, una a una, nel blu, come soldatini, separate dalle strisce rosse, richiama la metrica rigorosa di un batterista prog. Per rimanere sugli ultimi dischi usciti, alla bravura dell’inglese Craig Blundell che assieme al bassista Nick Beggs e al tastierista americano Adam Holzman compongono i Trifecta, qui Auntie.

E ancora, l’intuizione di rendere la Old Glory monocroma di Na Kim, a significare che il mitico sogno americano s’è ingrigito nel tempo, rimanendo senza colore e infeltrito, mi fa venire in mente che il primo ad accorgersi della caduta dell’American Dream è stato Bruce Springsteen ben 46 anni fa, quando se ne uscì con il leggendario Born To Run.

Finisco con l’artista visuale Hank Willis Thomas: ha creato una vibrante bandiera del “vorrei” battezzata Lift Every Voice and Sing, dove la speranza di un mondo aperto e inclusivo non vuole morire, fa ricordare un disco uscito 50 anni fa, un grande disco, What’s Going On di Marvin Gaye, con l’omonimo brano: Mother, mother/ Everybody thinks we’re wrong/ Oh, but who are they to judge us/ Simply ‘cause our hair is long/ Oh, you know we’ve got to find a way/ To bring some understanding here today.

Vi invito a cercare altri artisti e a guardare questi brillanti progetti. Stuzzicare memoria e intelligenza è un gran bell’esercizio. Condivideteli con me, ne sarei felice!

Bob Dylan, compie 80 anni… Crossing The Rubicon

C’era da aspettarselo: gli 80 anni di vita di Bob Dylan, o meglio, di Robert Allen Zimmerman, che cadono proprio oggi, il 24 maggio, fanno discutere e non poco.

Se vi fate un giro nella grande rete, vedrete come, dagli Stati Uniti all’Australia, dalla Gran Bretagna all’Italia, fino al Sudafrica e al Brasile giornali, siti, radio e televisioni hanno iniziato da giorni a ricordare questa data. Lo fanno in modo celebrativo, reverenziale, con i migliori successi di Bob, le cose che non sapevate di Bob, il significato religioso di Bob, le crisi esistenziali di Bob. Alcuni – pochi a dire il vero – se ne escono con un Dylan sopravvalutato, altri puntano sul significato letterario della sua notevole produzione.

Tutto lecito, ovviamente, Bob Dylan è Bob Dylan. La sua inconfondibile voce nasale ha scandito generazioni di ascolti. Può piacere o meno ma sta di fatto che tutti noi, almeno una volta nella vita, ci siamo imbattuti in una sua canzone.

Dal secondo semestre del 2016, nello stesso anno in cui l’artista è stato insignito del Nobel per la Letteratura, l’Università di Tulsa in Oklahoma ha avviato un corso di laurea in lingua inglese con lezioni mirate su Bob Dylan, sui testi delle sue canzoni. L’università ha ereditato anche un grande archivio sul musicista che diventerà, il prossimo anno, un museo. Il 21 aprile scorso è apparso in libreria The World of Bob Dylan, curato da Sean Latham, il professore che dirige il corso a Tulsa, e pubblicato dall’università di Cambridge: si tratta di una raccolta di 28 saggi di docenti della più diversa estrazione, esperti di filologia, musica, arte, storia, libro che è andato bruciato in due settimane.

Ciò che nessuno può obiettare, osservando i tanti periodi dylaniani e predylaniani, è che l’artista e l’uomo si sono sempre messi in gioco. I cambiamenti, le trasformazioni nella vita di Dylan sono stati tanti, da quelli spirituali a quelli musicali. Di fatto, che piaccia o meno, il menestrello del Minnesota ha perfezionato un genere di musica “Americana” che ha fatto scuola e indirizzato centinaia di musicisti o aspiranti tali.

Molti suoi brani sono stati reinterpretati, moltiplicandone la fama e il successo, altrettanti artisti, a partire dai Beatles (Macca ha dichiarato che fosse stato proprio Bob ha i iniziare i Fab Four all’uso di marijuana) a Bono degli U2, a Bruce Springsteen, lo considerano un faro. Dylan assieme a George Harrison, Tom Petty, Jeff Lynne, Roy Orbison, negli anni Ottanta ha dato vita a uno dei primi supergruppi, i The Traveling Wilburys, dove ognuno dei componenti aveva lasciato il proprio ego e nome per assumerne un altro. Lui era diventato Lucky Wilbury.

Ottant’anni sono un grande traguardo, fa notare Mark Bannerman dell’australiana ABC News. E come dargli torto. Un musicista che ha venduto oltre 120milioni di dischi, che ha una parallela  e fortunata vita di pittore e scultore, che ha ceduto i diritti delle sue canzoni, 600 brani, alla casa discografica Universal per 300 milioni di dollari, cosa può volere di più? E qui sta la forza dell’uomo. Con gli 80 non si chiude una fase della vita ma se ne apre un’altra. Chissà cosa tirerà fuori ancora, ma statene certi, che lo farà.

Delle più vite in cui si è reincarnato Robert Zimmerman, quella di Bob Dylan è la più longeva. Zimmerman lo ha alimentato e lo alimenta ancora. Dylan è un personaggio che s’è creato agli inizi dei Sessanta, Zimmerman è diventato legalmente Dylan, ed è quello che gli ha dato più soddisfazioni. Sa benissimo – e anche noi ne siamo consapevoli – però, che Bob Dylan a un certo punto finirà quando se ne andrà Robert Zimmerman (con tutti i debiti scongiuri e un augurio di lunga vita!).

Considerazioni che inevitabilmente si legano all’ultimo disco che l’artista ha pubblicato lo scorso anno, Rough and Roudy Ways, con quella lunghissima e ipnotica – 16 minuti e 44 secondi – Murder Most Foul, rilettura della storia americana attraverso l’assassinio di John F. Kennedy, o con False Prophet: «I ain’t no false prophet/No, I’m nobody’s bride/Can’t remember, when I was born/And I forgot when I died…», o Crossing The Rubicon: «I cannot redeem the time/The time so idly spent/How much longer can it last?/How long can it go on?/I embrace my love, put down my hair/And I crossed the Rubicon…».

Considerazioni sulla vita, su ciò che si è – e non si è – diventati. Prendere o lasciare. Robert Allen Zimmerman/Bob Dylan è così. Ed è per questo che lo ascoltiamo ancora…

Ecco perché gli artisti vanno ascoltati…

Sto seguendo con interesse il dibattito che si sta sviluppando sulla pagina Facebook di Musicabile, provocato dal mio post sulla guerriglia a Capitol Hill di qualche giorno fa. Ho cercato di raccontare e vedere i fatti – la “presa del Campidoglio” da parte di sostenitori di Donald Trump – attraverso la musica, fedele al principio che ha ispirato questo blog.

Frequento i social da anni e non finiscono mai di stupire. Ben vengano le discussioni che si sono accese in questi giorni dopo la cacciata di Trump da Twitter. Sulle dissertazioni poco ortodosse del presidente americano fatte negli ultimi anni, i social ci hanno marciato e guadagnato, eccome. La conseguenza siamo noi che interagiamo su queste piattaforme, tutti con la verità in tasca, pronti a deridere, insultare, odiare e cercare di convincere il mondo: instaurare un contraddittorio con chi dissente da te, anche in modo veemente, è al novantanove per cento inutile. Convincere un terrapiatttista che il pianeta ha un’altra forma è tempo sprecato. Stesso discorso per chi è convinto che l’assedio al Campidoglio sia stato organizzato dai Dem per cancellare Trump.

Uno degli interventi in particolare mi ha incuriosito: “Che ne sa un cantante di economia o politica interna ed estera?”, come si permettono i vari Springsteen di pontificare visto che non è il loro mestiere? Avevo premesso sul precedente post che gli artisti vedono più lontano di tutti per il semplice fatto che hanno un altro modo  – più libero? creativo? emozionale? – di vedere la realtà che li circonda.

Grazie a una miniserie firmata da Martin Scorsese disponibile su Netflix, Fran Lebowitz, una vita a New York, è arrivata la risposta al commentatore del mio post. Nel docufilm dedicato alla geniale scrittrice e umorista americana (che consiglio vivamente!), la Lebowitz parla della musica come dell’unica forma d’arte che “consente alle persone di esprimere emozioni e ricordi”. E aggiunge: «Rende felici le persone senza fare del male. Altre cose piacevoli sono dannose. È speciale, è una droga che non ti uccide!».

Scorsese per introdurre il discorso “musica” con la Lebowitz ricorre a un breve estratto di Remember Marvin Gaye, film di Richard Olivier del 1981, dove Marvin dà la definizione esatta dell’artista e del suo ruolo. La faccio mia, non avrei saputo dirlo in modo migliore! «Un artista, se è davvero un artista, è interessato solo a una cosa: risvegliare le menti degli uomini, far capire agli uomini e alle donne che c’è qualcosa di più grande di ciò che vediamo in superficie».

Ecco cosa c’entrano i vari Springsteen, Tom Morello, Marvin Gaye, John Lennon, Eminem…

L’assalto a Capitol Hill: era tutto scontato…

Sono passati solo alcuni giorni dall’assalto al Campidoglio da parte dei seguaci di Donald Trump. Scene che mai avremmo pensato di vedere e il cui effetto porta sviluppi quotidiani. There’s a Riot Goin’ On! C’è una rivolta in corso, avrebbero cantato gli Sly & The Family Stone dall’omonimo disco funk/soul del 1971 (bellissimo e da riascoltare). Lì, ovviamente le rivolte riguardavano la nuova musica, il fatto che band e artisti afroamericani stessero raggiungendo vendite di dischi inimmaginabili, la rivendicazione tangibile delle lotte razziali, e del diritto all’uguaglianza a alla libertà… insomma questioni di sostanza, barriere che ancora oggi la società americana non ha risolto e che quegli incendiari untori della democrazia, in azione a Capitol Hill, confermano che è ben lontana dal risolverle.

Le scene del tentato golpe da parte di un presidente in carica – perché di questo si è trattato – più o meno agevolato da uomini delle forze dell’ordine (il che suona ancora più sinistro) dimostra che negli States c’è qualcosa che non va, e da anni. Cantava Bob Dylan quasi mezzo secolo fa in Shelter from the Storme (da Blood On The Trucks, 1975): Now there’s a wall between us, somethin’ there’s been lost/ I took too much for granted, I got my signals crossed/ Just to think that it all began on an uneventful morn (Ora c’è un muro tra di noi, qualcosa è andato perduto. Ho dato troppo per scontato, ho male interpretato i segnali. E pensare che tutto ha avuto inizio in una tranquilla mattina

Ed è proprio qui il punto: come s’è arrivati a tutto questo, quando la “mattina tranquilla” s’è trasformata in un incubo che ha sconvolto l’America? Da portatori di valori democratici, gli Stati Uniti d’America sono diventati in poche ore l’oggetto di scherno di tutti i dittatorelli dal pungo di ferro in giro per il mondo, dalla Turchia, all’Iran, dalla Corea del Nord, alla Russia di Putin. Dove ha fallito la democrazia? Probabilmente nel rifiutarsi di ascoltare o far finta di non vedere, cosa stava cambiando nel tessuto sociale e nel continuare a inseguire quel dio dollaro che è l’unica vera religione praticata in Usa.

Questi segnali di disgregazione democratica li avevano lanciati, guarda caso, molti artisti in anni non sospetti. Chi pratica l’Arte vede dove sta andando il mondo meglio di chiunque altro. Vi ricordate quel film del 1997 di Joe Dante dal titolo La seconda Guerra Civile Americana? Il copione, un politico populista, anti immigrati, che scatena l’ultra destra americana, è lo stesso che abbiamo visto negli ultimi quattro anni di gestione Trump. Esattamente questo. Bruce Springsteen, nel 2017, prima che Trump si insediasse formalmente alla Casa Bianca il 20 gennaio di quell’anno, in alcune interviste espresse i suoi dubbi sull’allora nuovo presidente. La campagna di Trump aveva scatenato «bigottismo, razzismo, intolleranza», sosteneva il Boss, «difficile da sedare ora che lui sarà alla Casa Bianca… Le persone si sentono in diritto di parlare e comportarsi in modi che prima erano considerati antiamericani e non americani… Questo è ciò a cui (Trump) fa appello. E i miei timori sono che queste convinzioni trovino spazio nella società civile». Certo, anche il Boss aveva ragione. Come la jazzista Terri Lyne Carrington che con il suo gruppo, i Social Science, aveva composto un disco, Waiting Game, pensando proprio alle conseguenze dell’elezione di Trump (ascoltate Trapped In the American Dream)…

I’m sick and tired of hearing things,/ From uptight, short sighted, narrow minded hypocrites,/ All I want is the truth,/ Just gimme some truth,/ I’ve had enough of reading things,/ By neurotic, psychotic, pig headed politicians,/ All I want is the truth,/ Just give us the truth… Sono nauseato e stanco di ascoltare parole da ipocriti conservatori, miopi e ottusi. Tutto quello che voglio è la verità. Dammi solo un po’ di verità. Ne ho abbastanza di leggere affermazioni di politici nevrotici, psicotici e testardi. Tutto quello che voglio è la verità. Dacci solo la verità… cantava John Lennon nel 1971 in Gimme Some Truth (dall’album Imagine).

Ed è quello che sta chiedendo buona parte della popolazione americana. Sono convinto che anche i moderati che hanno votato The Donald perché storicamente legati ai repubblicani se lo stiano domandando. L’escalation di quest’uomo livoroso e fuori dalla realtà, che più di qualcuno ha definito criminale nell’atteggiamento, ha portato l’America e il mondo ad assistere a un copione che tutti già conoscevano e in un certo modo si aspettavano, ma che nessuno ha davvero tentato di fermare. Tra le truppe d’assalto nel giorno dell’”epifania” di Joe Biden, oltre allo sciamano Jake Angeli – poi identificato con il suo vero nome, Jacob Chansley, non un provocatore mandato da Biden ma un fervente seguace di Trump – c’era anche un ex tenente colonnello texano dell’Air Force, armato di tutto punto, Larry Rendall Brock, Jr., che, come riporta The New Yorker, ha servito a lungo il suo Paese e, una volta in pensione, s’è radicalizzato grazie ai social, a Trump, alle teorie cospirazioniste di QAnon e, probabilemente, alla rabbia scomposta di Steve Bannon.

Mentre guardavo quelle scene in televisione mi sono venuti in mente i Ramones e il primo brano del loro primo album del 1976, Blitzkrieg Bop, Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go!, una consona colonna sonora. Ma anche l’inno americano (The Star-Bangled Banner) suonato da Jimi Hendrix al festival di Woodstock nel 1969, trasformato, grazie a una chitarra distorta e gemente, in una protesta contro la guerra in Vietnam. Allora Jimi simulava le bombe che cadevano, le esplosioni, la violenza democratica… quel mercoledì avrebbero potuto scandire le scene dei vetri delle finestre di Capitol Hill che si sbriciolavano sotto i colpi americani e l’arroganza dei trumpisti seduti, gambe sulla scrivania, sulle poltrone di Nancy Pelosi, Speaker della Camera, e di Mike Pence, presidente del Senato.

La ricostruzione su queste macerie fumanti sarà molto dura. Gli spazi e le regole democratiche sono stati violati, e da tempo. Tom Morello, musicista, anche chitarrista dei Rage Against The Machine – a proposito, ascoltate Wake UpWake up! Wake up! Wake up! Wake up! How long? Not long, cause what you reap is what you sow (Svegliati! Svegliati! Svegliati! Svegliati! Per quanto? Non troppo, perché quello che raccogli è quello che semini…) – in un tweet metteva a confronto lo schieramento militare davanti a Capitol Hill durante le manifestazione dei Black Lives Matter, un muro invalicabile, e quello dei trumpisti delusi, quattro poliziotti che hanno aperto i varchi e si son fatti persino i selfie con quelli che Biden ha definito terroristi. Cortocircuito. C’è davvero un cortocircuito. Che deve essere riparato al più presto, se l’America vuole continuare a essere il Paese del possibile.

Venti dischi (più uno) per raccontare un anno particolare/4

Siamo arrivati alla fine. Altri cinque dischi, più un sesto, la mia colonna sonora di questo 2020, anno che resterà impresso nella memoria di ognuno di noi. Ancora una volta c’è di tutto, dal jazz al desert blues, dall’eclettismo al rock – con il monolitico Boss -, passando per un altro grande, Nick Cave, in versione solitaria e unplugged, come si diceva una volta. Divertitevi!

16 – HH Lionel Loueke (uscito il 16 ottobre)
Il signore in questione è nato in Benin, Africa Occidentale, ha 47 anni e una naturale predisposizione alla chitarra. Anzi, è un autentico virtuoso dello strumento, che domina con tecnica ferrea, insuperabile. Il segreto di questo disco sta tutto nel titolo, in quelle due misteriose acca maiuscole che, sulla cover del disco, hanno un bell’impatto grafico. HH sta per Herbie Hancock. L’ottantenne pianista e compositore è stato il suo maestro, mentore, guida. Probabilmente non è un caso che a HH segua LL: Hancock ha selezionato Loueke per l’ingresso al Thelonious Monk Institute of Jazz – organizzazione senza scopo di lucro che viaggia tra insegnamento della cultura musicale e lavoro sociale e che, dopo oltre trent’anni d’attività, nel 2018, ha cambiato nome in Herbie Hancock Institute of Jazz, omaggio al lavoro svolto dal pianista nell’istituto – lo ha, quindi, voluto in sue produzioni, come Possibilities, River: The Joni LettersThe Imagine Project, ed è parte integrante del gruppo che lo segue quando si esibisce dal vivo. HH, dunque, vuole essere un omaggio alla persona che più ha creduto nelle sue qualità artistiche e musicali. Un disco in cui Lionel e la sua chitarra, rivedono e ripropongono brani scritti da Hancock tra il 1962 e il 1983, il periodo d’oro del compositore (vedi Watermelon Man (1962), Cantaloupe Island (1964), Butterfly (1974)… Un disco che mi sta accompagnando fra le tante facce del jazz e la gioia dell’essenza della musica.

17 – OptimismeSonghoy Blues (uscito il 23 ottobre)
Optimisme! Ne abbiamo bisogno. E non è un titolo nato a caso quello dei Songhoy Blues, band del Mali al suo terzo disco. Un gran bel lavoro, a dirla tutta, un desert blues di prim’ordine, che sprizza gioia, potenza, pur trattando argomenti delicati dalla politica, al riscatto  femminile, alla pandemia…. L’ottimismo è il profumo della vita diceva Tonino Guerra, parafrasando Gianfranco Giannini, suo amico di Pennabilli, in uno spot di qualche anno fa. E per questi quattro musicisti maliani è proprio questo il senso del nuovo lavoro curato dal chitarrista e producer Matt Sweeney per la Fat Possum. La loro storia è esemplare: tre, Aliou Touré, Garba Touré e Oumar Touré, provengono dal Nord del Paese. A causa della guerra civile e del regime islamico che si era instaurato, sono stati costretti all’esilio, a Bamako, Sud del Mali, dove hanno conosciuto il batterista Nathanael Dembele. Sono stati notati da Damon Albarn (frontman dei Blur, e nei Gorillaz), Julian Casablancas dei The Strokes e da Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs, che ha prodotto il loro primo album, Music In Exile (2015), al quale è seguito Résistance (2016), che ha avuto la partecipazione di Iggy Pop nel brano Sahara. Ascoltate Badala, il brano che apre il disco e poi ne parliamo!

18 – Letter To YouBruce Springsteen (uscito il 23 ottobre)
Camminare e perdersi tra i ricordi è stata una delle prerogative di questo 2020. Lo ha fatto, con un album ben costruito, toccante e coinvolgente al punto giusto, quel gran cantastorie rock che è Bruce Springsteen con Letter To You. Di lui, dell’album e del docufilm che porta lo stesso titolo ne ho parlato a lungo in questo post. Cosa resta da dire di un uomo che a 71 anni decide di guardarsi indietro, con nostalgia, certo, ma con tutta la saggezza e il senso di ringraziamento per una vita che gli ha fatto incontrare veri amici, colleghi, musicisti, persone straordinarie con cui ha condiviso praticamente tutta la sua esistenza? Un album istruttivo, malinconico nel ricordo di chi non c’è più, ma consapevole che il tempo non passa mai invano e che alla fine ciò che ti resta, il tuo lascito, è cosa sei stato e come hai visto il mondo intorno a te. ‘Neath a crown of mongrel trees /I pulled that bothersome thread/Got down on my knees/Grabbed my pen and bowed my head/Tried to summon all that my heart finds true/And send it in my letter to you (da Letter To You).

19 – Hey ClockfaceElvis Costello (uscito il 30 ottobre)
E siamo arrivati al cambiamento. Nel lungo tour di questi 20 album (più uno) sembra fatto apposta per il momento attuale che stiamo vivendo. Costello, gran musicista e vecchia volpe della musica, pubblica un album che eclettico è dir poco. È nel suo stile, questa volta però ha osato in modo provocante ed eccentrico saltare da un genere all’altro, a dimostrazione che può farlo solo chi la musica la conosce (e la suona) per davvero. Registrato una parte in solitaria in piena pandemia nello studio Suomenlinnan di Helsinki e, quindi, a Parigi con un quintetto jazz costituito per l’occasione, ha partorito 14 canzoni, ognuna un mondo a sé, che parlano di tutto quello che siamo e siamo stati. A partire da Revolution #49, primo brano (parlato) con un attacco “magico” alla Dhafer Youssef: «Love is the one thing we can save», dice con voce scura e ben scandita. Da qui in poi è un crescendo. In No flag sembra un punk che tira le somme del suo credo: «I’ve got no religion, I’ve got no philosophy, I’ve got a head full of ideas and words that don’t seem to belong to me». E così andando. C’è anche del swing, omaggio a Fats Waller, pianista famoso (e corposo) in attività negli anni Trenta, noto per le sue espressioni facciali e per quegli occhi che roteava come un posseduto (Hey Clockface/How Can You Face Me). Cambiare non solo si può, ma si deve…

20 – Idiot PrayerNick Cave – Alone at Alexandra Palace (uscito il 20 novembre)
È un docufilm trasmesso in steaming a pagamento in luglio (doveva essere nelle sale in Italia dal 16 al 18 novembre, ma il lockdown che ha messo il lucchetto anche ai cinema i e ai teatri ha fatto saltare il tutto) e un disco uscito in Italia a novembre. In questo mese sembrava d’essere ripiombati a marzo: la seconda ondata di contagi era un fiume in piena. Come lo sono le canzoni registrate dal magico musicista australiano nel vittoriano Alexandra Palace di Londra a giugno, nelle fasi finali del lockdown inglese. Radio 3 della Rai ha trasmesso l’intero concerto nella notte tra domenica 8 novembre e lunedì 9 in collaborazione con EBU (European Broadcasting Union). All’Ally Pally, da solo senza i sui Bad Seeds, Cave ha voluto dar vita a quello che è un suo progetto, al di là del momento storico, cercare l’intima essenza del suo lungo percorso artistico e personale, soprattutto dopo la morte del figlio Arthur nel 2015, destrutturando 22 suoi brani, riducendoli all’osso: la sua voce baritonale e un pianoforte. La magia di questo lavoro sta propio in questo momento di estrema intimità dell’artista che cerca di tessere un filo, sottile ma solido, della sua vita, in modo da non perdere l’essenziale, che poi è quello che conta, senza sovrastrutture né make up. Ed ecco, dunque, Papa Won’t Leave You, Henry (1992) qui nella versione originale con i Bad Seeds e qui in quella “alone”. Lo stesso dicasi per Galleon Ship, qui e qui: solo due esempi del lavoro di questo straordinario artista. Arie novembrine che mi hanno fatto riflettere…

E siamo arrivati al “più uno”. Si tratta di un disco uscito il 4 dicembre per la prestigiosa etichetta Deutsche Grammophon. Un disco piuttosto particolare, di musica classica contemporanea, di non facile ascolto, ma in qualche modo catartico. Sto parlando di L.I.T.A.N.I.E.S del belga Nicholas Lens. Una piccola opera da camera il cui libretto è stato scritto da Nick Cave, sì ancora lui! Opera minimalista, essenziale, frutto, anche questa, del lockdown. Lens l’ha eseguita con 11 musicisti che, a turno, sono andati a casa sua per registrare i singoli “interventi”. Nel comporla ha voluto rappresentare la pace – che ha anche un senso di cupa bellezza e dolcezza – che lui stesso ha avvertito nei templi Zen giapponesi, durante un viaggio nel Sol Levante. Suono minimal, testi altrettanto “ossuti”. Vere e proprie litanie «Where are you? Become yourself so I can see you» sussurra Clara-Lane, moglie di Lens, coinvolta nel lavoro perché in quarantena, nella prima litania, Litany of Divine Absence. E così, una per una, come in un rosario, scivolano le 12 litanie, tra archi, accenni di pianoforte, qualche fiato, e qualche intervento canoro dello stesso Cave come in Litany of Gathering Up. Disco per me preparatorio alla fine di questo 2020. Una sorta di cammino meditativo e di purificazione.

Bruce Springsteen: “Letter To You”, un disco e un grande docufilm…

Frame da “Letter To You” di Thom Zimmy

Bianco e nero. Bianco di neve e luce invernale, nero dei boschi del New Jersey, le impronte lungo le strade, chiaroscuri ad accentuare il tempo che passa e a ricordare che lui, il tempo, non risparmia nessuno. Eppure in questa fatale e ammaliante bicromia che in sé ha del raffinato e del malinconico, c’è una speranza. Anzi, due, l’amicizia, quella vera, e il rock’n’roll. Facce scavate dal tempo, volti cambiati, occhiali al naso per leggere le partiture, pancette più o meno prominenti, una vena di tristezza che il sorriso e i ripetuti brindisi scacciano e rendono complici, sono il filo conduttore del film che Bruce Springsteen ha rilasciato per Apple TV venerdì scorso. Il titolo è quello dell’album, uscito lo stesso giorno, Letter To You.

Dodici brani scritti apposta per essere suonati dalla E Street Band, i musicisti che hanno accompagnato il Boss – e continueranno a farlo, è una promessa! – nei suoi concerti da 45 anni a questa parte. Un album scritto in dieci giorni da Bruce, chitarra e voce, e poi riproposto al gruppo come un canovaccio su cui costruire insieme, e registrato in appena cinque giorni.

Insieme. Perché quando lui suona con la sua band tutto si fonde, si interseca, avvolge, cresce e trova la luce. Questo il senso del docufilm in bianco e nero, un’ora e trenta minuti per assistere alla nascita del nuovo album del Boss con gli Streeter, ma anche per ricordare, tirare le somme di una vita dedicata alla musica. A 71 anni per un artista è quasi un imperativo. Guardarsi indietro, accettare la vecchiaia che avanza e il dolore per le perdite di persone care e amici – altro tema fondamentale della pellicola firmata dal suo fidato Thom Zimmy.

Ed ecco che, minuto dopo minuto, con il solo filo conduttore dei brani da costruire, esce prepotente la vita del Boss: «Mi ritrovo in una conversazione lunga 45 anni con questi uomini e queste donne», spiega all’ascoltatore. Il perché del docufilm e della necessità di narrare anni straordinari, molto oltre i suoi sogni e aspettative, è che sente ancora «un bisogno assoluto di comunicare. Lo avverto quando mi sveglio al mattino, mi accompagna durante la giornata ed è ancora lì la sera, quando vado a dormire». Una necessità che nemmeno lui si spiega: «Magari è solitudine, fame, ego, ambizione, desiderio, bisogno di far breccia, essere ascoltato, riconosciuto…», racconta all’attento pubblico.

Un altro Frame da “Letter To You”: la E Street Band con il Boss

Questo è lo Springsteen che siamo abituati a vedere, gli occhi che si illuminano quando arrivano i suoi musicisti, Steve Van Zandt, Max Weinberg, Roy Bittan, Gary Tallent, Patti Scialfa (Schialfa, strisciando la a, come pronuncia il cognome della donna che lo segue nella vita e sul palco da quasi mezzo secolo). E ancora, Nils Lofgren, Charlie Giordano, Soozie Tyrell, la violinista, quest’ultima, una fugace apparizione nel film. All’appello mancano il tastierista Danny Federici, morto a 58 anni, nel 2008, per un melanoma, e il sassofonista Clarence Clemons, Big Man, andatosene per un ictus nel 2011, a 69 anni. Li ricorda, Bruce, perché sono lì con lo spirito, e ogni brindisi è anche per loro. Fisicamente al sax oggi c’è il nipote di Clarence, Jake, entrato di diritto nella E Street da anni, alla sua prima esperienza nella fattura di un album nuovo di zecca. Senza dimenticare Jon Landau, il critico musicale e manager della rockstar, che, a vederli suonare insieme, non risparmia qualche lacrima trattenuta a stento e una evidente commozione. Colleghi, amici, amori, la famiglia allargata di Bruce.

Frame da “Letter To You”

Tra i ricordi, si spinge fino alla sua gioventù, come un vecchio saggio che ha ben chiaro il suo percorso di gioie e dolori. Anzi, l’idea dell’album viene proprio dalla morte di uno dei suoi grandi amici di scuola e adolescenza, George Theiss. Nell’estate del 2018 un tumore ai polmoni se l’è portato via. Lui, musicista, l’ex fidanzatino di Ginny, sorella di Bruce, è quello che ha introdotto il Boss in una vera band, i Castiles, attivi tra il 1965 e il 1968. Erano anni in cui si sperimentava, la musica era un campo di confronto, battaglia, scoperta e i sedici anni del Nostro contenevamo tutta la forza, la rabbia, le paranoie di un adolescente. La morte di Theiss l’ha fatto riflettere, lo ripete in ogni intervista. Lui è rimasto il solo membro ancora in vita dei Castiles. Inevitabile pensarci… Non a caso per Letter for You ha ritirato fuori dei brani vecchissimi, addirittura del ’72, scritti prima di Greetings from Asbury Park, N.J., il suo primo disco del 1973, come If I Was The Priest, con assolo finale di Van Zandt…

Frame da “Letter To You”

E così scorre, registrazione dopo registrazione, battute dopo battute, la vita del Boss e di quella di un gruppo di artisti legato da note, discussioni, amicizia, passioni… Non manca un accenno all’Italia. Dice Steve: «Apriremo il nostro tour a San Siro, San Siro! Lì ci arriva mezza Italia, ci amano…».

Si va verso l’epilogo. Il drone continua a riprendere la campagna dove vive Bruce e la casa adibita a studio di registrazione, zeppa di chitarre, l’Hammond, persino il Glokenspiel originale che suonava Federici, quasi una reliquia («Il suo fantasma ci perseguita…», dichiara).

Fine e tempo di conclusioni, a volo di drone, apparentemente amare: «L’età. L’età ti dà la visione, come la nitidezza della mezzanotte, sui binari osservando le luci del treno che sta arrivando…». Non resta più molto tempo, solo qualche notte stellata, qualche bella nevicata… È la malinconia di sapere che si è vissuto ma resta la consapevolezza che c’è ancora tanto da fare, il proprio lavoro, l’amore per la famiglia, quelle piccole attenzioni che fanno grande un uomo e che, guardandosi allo specchio lo rendono orgoglioso di come ha vissuto. È forse questo il più bel messaggio del nuovo lavoro di Springsteen.

Lo si può amare – ho tanti amici che da anni lo seguono in tutti i concerti d’Europa, discepoli fedelissimi – o contestare per il suo genere di musica. Di certo gli si deve rendere atto che è un uomo tenace, positivo, curioso, un vero rocker. Scolpito nel granito. Ve ne consiglio la visione e l’ascolto. E quelle sensazioni che riesce a trasmettere con le parole e la musica, le sue, di sicuro potrebbero diventare le vostre. Rara sintonia in un artista…

Famosi, impegnati, sofisticati. Tre anteprime di album che verranno…

Post per il fine settimana: voglio presentarvi tre anteprime di album che verranno, a ottobre. Sono “confezionati” da tre artisti diversissimi tra loro, famosi, impegnati, sofisticati. Come sempre accade, in preparazione all’uscita del nuovo disco, vengono rilasciati alcuni brani che gli autori scelgono come maggiormente rappresentativi del loro nuovo lavoro.

Parto dal sofisticato, anzi, sofisticata. Lei si chiama Emel Mathlouthi, 38 anni, cantautrice di Tunisi, residente a New York. Il prossimo 23 ottobre uscirà il suo nuovo lavoro The Tunis Diares. Si tratta di un doppio album, nove canzoni ciascuno, divise tra brani composti e cover di canzoni famose rivisitate dei Nirvana, Black Sabbath, Placebo, David Bowie, per citarne alcune. E proprio del mitico Duca Bianco è il brano disponibile all’ascolto, The Man Who Sold The World. Dal primo disco, invece, ecco Holm (A Dream). Lasciatevi incantare dalla sua voce magnetica e abbandonatevi ai suoi magici cerchi vocali… Come l’ha definito la stessa Emel, questo è un lavoro introspettivo che ha pensato e composto nella sua casa di Tunisi, dove era andata a trovare la famiglia e a festeggiare l’85esimo compleanno del padre. Il lockdown l’ha costretta nella sua stanza d’infanzia. E lì ha tirato le fila della sua musica, componendo sensazioni nuove e affidandosi ai suoi album preferiti, quelli che ascoltava da ragazza.

Andiamo all’impegnato. Si tratta di Matt Berninger, il 49enne frontman dei The National, band culto indie-rock di Cincinnati. Matt pubblicherà il 16 ottobre Serpentine Prison, il suo primo album da solista. Ieri, 10 settembre, ha rilasciato un altro brano One More Second, dopo Distant Axis e Serpentine Prison, brano che dà il titolo all’album e che chiude il disco. Il disco è prodotto da Booker T. Jones, il frontman dei Booker T & the M.G.’s, e vede alcune importanti collaborazioni artistiche come quelle con il batterista Matt Barrick, il polistrumentista Andrew Bird e Gail Ann Dorsey, bassista e compagna di palco per lunghi anni di David Bowie.

Infine il famoso. Molto famoso. Una delle rockstar planetarie. Sì, proprio lui, il Boss. Bruce Springsteen ha annunciato l’uscita del suo nuovo album Letter To You, in uscita il 23 ottobre prossimo. Si tratta di 12 brani suonati con la storica E Street Band. Una garanzia: album registrato “dal vivo”, nessuna sovraincisione, tutto filato liscio e chiuso in appena cinque giorni. Il Boss lavora così! Ieri Bruce ha rilasciato come anticipazione il brano che dà il titolo all’album, Letter To You. La tracklist incorpora anche la revisione di tre canzoni scritte e pubblicate negli anni Settanta, Janey Needs a Shooter, If I Was the Priest e Song for Orphans.

Buon ascolto!

Memento/ Storie di un 15 aprile qualsiasi…

15 aprile, un giorno a caso. Oggi è un mercoledì. Pasqua è appena passata. Continuiamo le nostre quarantene. Inizia il caldo e il verde s’accende di variazioni: bello e confortante per lo spirito e la vista. Insomma, una giornata paradossalmente normale. Ma se iniziassimo a giocare con gli anni, retrocedendo al 15 aprile addirittura di qualche secolo o decennio fa, almeno per la musica, scopriremmo alcune piccole, interessanti affinità. Siete pronti per un viaggio nel tempo in 5 fermate targate 15 aprile?

Partiamo dal 15 aprile 1738. Era un martedì, a Londra, sotto il regno di Giorgio II Augusto di Hannover. Al King’s Theatre il tedesco George Frideric Händel presenta la sua opera in tre atti Serse. Tra gli artisti, sul palco anche Gaetano Majorano di Bitonto, detto il Caffarelli, uno dei più grandi cantanti d’opera del tempo, un soprano. Per diventarlo fu castrato, a fini musicali, un’operazione che veniva fatta prima della pubertà, visto che le donne, per quelle volontà “dissonanti” della Chiesa cattolica, in suolo sacro non potevano cantare: mulieres in ecclesia taceant, diceva San Paolo – sublime voce soprano (era nota la sua rara estensione vocale, oltre che la sua propensione alle avventure amorose per le quali, pare, rischiò pure la vita). Qui un estratto con la contralto veneziana Sara Mingardo. Ebbene, per Händel quello fu un martedì nero, perché pubblico e critica stroncarono il lavoro del compositore. Così diverso rispetto agli altri dello stesso artista, atti troppo brevi, un solo movimento, inserimenti buffi in un’opera considerata seria (narrava le gesta di Serse I re di Persia). Un fallimento: probabilmente Händel era stato influenzato da nuove “aperture” musicali, dalla coscienza che nell’aria volteggiava qualcosa di nuovo. Gli artisti hanno quella sensibilità, chiamatela creatività o propensione alla genialità, a riprova che la musica, come le altre arti, non è un atto statico ma fluido, un fiume che scorre a volte lento a volte impetuoso, cambia letto, trasforma paesaggi, si insinua dove spesso nulla potrebbe arrivare.

Sempre il 15 aprile ma di 228 anni più tardi, e sempre a Londra, i Rolling Stones pubblicano Aftermath, album caratterizzato dall’introduzione di strumenti “esotici” come il sitar o antichi come il dulcimer (alla stregua degli amici/nemici Beatles), voluta da un vezzoso Brian Jones, e dal fatto che tutte e 14 le canzoni dell’album edizione inglese (uscì anche la versione americana con cover e brani diversi, 11) furono firmati Jagger/Richards. Anche in questo caso, l’album non fu preso bene. Soprattutto per un brano, Going Home che aveva l’ardire di andare avanti per 11 minuti e 14 secondi, non proprio in linea con la media delle canzoni, che duravano al massimo poco più di 3 minuti, meglio se 2 minuti e mezzo. Quell’album contiene alcuni brani diventati poi immortali, vedi Lady Jane, Under My Thumb o Paint It Black (nella versione americana, dove Jones usò il sitar). Anche Serse, poi, ebbe il suo posto nell’Olimpo della musica.

Andiamo avanti, retrocedendo di sei anni dall’uscita di Afetrmath. Questa volta dirigiamoci a Raleigh, North Carolina, Stati Uniti. Il trentaduenne Guy Carawan, attivista, cantante folk morto a 88 anni nel 2015, canta un brano dal titolo We Shall Overcome, davanti al Comitato di Coordinamento Non Violento degli Studenti di Raleigh, il suo contributo per difendere i diritti civili degli afroamericani. Il brano, probabilmente un gospel d’inizi Novecento, profondamente rivisto da Pete Seeger e preso da Guy come canzone di protesta diventa così, uno degli inni più famosi e forti della storia americana. We shall overcome, We shall overcome, We shall overcome, some day. Riusciremo a superarlo, riusciremo a superarlo, riusciremo a superarlo un giorno… cantava quel 15 aprile Guy con trasporto. Cinque anni più tardi, il 7 marzo, ci sarà la marcia di Selma, uno degli atti marcanti del cammino verso la conquista dei diritti civili, il cui cinquantesimo fu ricordato con un bellissimo discorso da Barak Obama quando era presidente nel 2015. We Shall Overcome divenne un cavallo di battaglia di Joan Baez, anche Bruce Springsteen ne ha fatto una versione molto bella alla sua maniera.

Sempre un 15 aprile e sempre negli States, questa volta l’anno è il 2012, il mondo scopre che anche un artista assassinato 16 anni prima a Las Vegas, sto parlando di Tupac Shakur, riesce a rivivere attraverso un ologramma in 3D su un palco e a cantare insieme a Snoop Dogg, al festival Coachella. La tecnologia ha camminato, il ricordo pure – la sensazione di cui parlavo in un post di qualche giorno fa – i tuoi artisti preferiti, anche se non ci sono più, vivono nelle loro canzoni, nei loro video, nei loro dischi e ti sembra di averli sempre accanto. Ma qui, in più, Tupac c’era veramente, si vedeva, cantava. La presenza fisica azzera il tempo, l’emozione concretizza l’evento, lo rende reale, possibile. Il mondo dei vivi che interagisce con quello dei morti. Dopo di lui lo showbiz non si ferma e sul palco risaliranno Elvis Presley, Michael Jackson, Freddie Mercury… Operazioni dubbie per far soldi, grandi artisti, riposino in pace, trasformati in fenomeni da baraccone…

E siamo all’ultimo 15 aprile, quello dello scorso anno, quando la divina Aretha Franklin – e qui non possiamo non ascoltarla in Think dal film The Blues Brothers di John Landis – morta il 16 agosto del 2018, riceve una Special Citation dal prestigioso premio Pulitzer, prima donna ad avere questo onore post mortem, «per il suo indelebile contributo alla musica e alla cultura americana per oltre 50 anni». Amen, anche Aretha ha avuto la sua onorificenza. Forse avrebbe gradito di più averla “dal vivo” come avrebbe filosofeggiato Massimo Catalano, trombettista e pensatore, sodale di Renzo Arbore in Quelli della Notte. Cose che accadono in un 15 aprile qualsiasi…