Pier Bernardi, il basso e la gran voce di Prudence

Come scritto più volte in questo blog sono restìo a presentare dei “singoli”. Credo che un artista,  soprattutto se sconosciuto, non lo giudichi da una canzone. Nel caso di Say Yeah, disco uscito  il 9 febbraio scorso, l’artista in questione è un bassista navigato, ben noto nel mondo del rock italico e in quello del circuito di World Music: Pier Bernardi, emiliano Sant’Ilario D`Enza (RE). 

Con  questo brano Pier termina una trilogia iniziata con Black and White e proseguita con Eyes, realizzata in collaborazione con Prudence Obounon, giovane ivoriana, dotata di una voce straordinaria, artista di cui sentiremo molto parlare.  Continua a leggere

Tre dischi per tre voci al femminile nel primo weekend d’autunno

Per il primo weekend d’autunno ho pensato di proporvi tre lavori usciti questo mese. Li unisce una caratteristica, le voci femminili. Voci che rappresentano la bellezza della musica da qualsiasi parte del mondo essa provenga, in questo caso dagli Stati Uniti dalla lontana Islanda e dal Tibet. Sono anche – lo vedremo tra poco – lavori dove il viaggio diventa la forma predominante per raccontare tante storie di vita e di umanità. Continua a leggere

Bakivo, “Appunti di viaggio” nella musica d’autore

Segnatevi questo nome: Bakivo, ne sentirete parlare. Sono un trio bolognese composto da Sara D’Angelo voce, Luca Cremonini chitarre e Pedro Judkowski contrabbasso. Il 18 aprile scorso hanno pubblicato un album, Appunti di Viaggio: nove brani con un incedere jazz, swingante quanto basta, con ampi inserti di bossanova e canzone italiana d’autore. Non a caso, oltre alle otto tracce frutto della composizione del trio, c’è uno standard, Estate, di Bruno Martino, proposta in 5/4, sentito omaggio a quella canzone melodica che il nostro Paese ha esportato nel mondo.  Continua a leggere

Caterina Comeglio, un’Isola abitata da Jazz, Soul e Pop

Oggi ritorno con una nuova cantautrice. Si chiama Caterina Comeglio, è milanese, classe 1990, ha una voce molto sofisticata, con la quale può fare tutto, dal jazz al pop al R&B. Ha pubblicato a ottobre un Ep dal titolo Isola (via Hukapan) sei brani composti da lei, nei testi e nella musica, con gli arrangiamenti del pianista Mirko Puglisi.

Gli studi musicali di Caterina sono di grande rispetto: Jazz Trinity College di Londra e quindi Leeds College of Music, come la sua esperienza sul palco che ha condiviso con il sassofonista Bob Mintzer, con Sarah Jane Morris, ma anche con Mika e Roby Fachinetti. Tre anni fa ha vinto il Premio Lelio Luttazzi nella categoria “cantautori”, con un brano Scheletri a Ballare, arrangiato da suo padre, Gabriele Comeglio, sassofonista e direttore d’orchestra. Continua a leggere

Autori Associati, un collettivo per rilanciare la musica di qualità

Filippo Minoia

Si sono chiamati Autori Associati, è un nuovo collettivo di musicisti, compositori, produttori, cantanti, autori  nato sui social con un’idea comune: si può fare musica, anche quella dell’attuale mainstream, creando un prodotto di qualità non soltanto tecnica, ma soprattutto artistica. Testi, musiche, distribuzione diverse da quella attuale? Loro sono convinti di sì. Nell’idea degli AA c’è una costante di base: l’etica. Lavorare per portare al pubblico un qualcosa che sia “sostenibile”, nell’accezione originale del termine, e comunicabile  – vabbè la dico a modo mio – guardandosi fieramente allo specchio.

Chi ha avuto l’idea di questa comunità di artisti proveniente da tutta Italia, volutamente aperta, si chiama Filippo Minoia. È un musicista  e compositore romano. L’ho chiamato per farmi raccontare l’iniziativa che ha portato alla pubblicazione di un primo lavoro, solamente digitale, uscito a settembre dal titolo Ruggine&Borotalco, frutto della sinergia del collettivo. Un brano Pop: il genere non è stato scelto a caso, essendo il più inflazionato dal mainstream, reinterpretato in una chiave più intelligente, ironica, un testo contro i luoghi comuni di una forma canzone che racchiude oggi, almeno qui in Italia, una percentuale di rapper, trapper, simili fra loro al punto di rendere banale anche chi scontato non lo è affatto. Continua a leggere

Disco del Mese: P.O.C. (Proof Of Concept), Zenizen

Nelle mie escursioni lungo sentieri sonori da me poco frequentati, mi sono imbattuto in P.O.C. (Proof Of Concept), un disco molto interessante, uscito il 27 luglio, ben concepito e altrettanto ben arrangiato da Opal Hoyot – nata in Alaska, vissuta tra Australia, Las Vegas, Washington DC, Jamaica e ora di stanza a New York – con il moniker di Zenizen. C’è tanta elettronica, ma ci sono anche strumenti “analogici” che, insieme, dialogano molto bene.  Continua a leggere

Riccardo Ruggeri, la libertà di cantare

Riccardo Ruggeri – Le foto nel post sono di Leo Camante

Oggi vi presento un artista che, nonostante faccia il musicista da anni e abbia un background di grandissimo rispetto, ha pubblicato a metà aprile il suo primo disco da solista, Non ci aspetta nessuno (se non miliardi di foto), per Vina Records/ADA Music Italy. Si chiama Riccardo Ruggeri, è piemontese di Biella, ha 42 anni ed è uno che sulla sua voce ha scommesso tutto. Anni di studio, una laurea al Conservatorio di Alessandria in canto jazz e improvvisazione, un master in vocologia, e poi studi ancora più approfonditi di canto funzionale, canto armonico e canto estremo, e una venerazione da ricercatore per Demetrio Stratos e il canto dei pigmei 

In una parola: sostanza. Nella musica, dove l’elettronica, i richiami dance e funk con uno sguardo al miglior pop internazionale sono il filo conduttore. E nei testi stimolanti, provocatori, a uso di una voce con cui riesce a fare praticamente di tutto. Se mettete in cuffia Un POPulista, capirete ciò di cui sto parlando!

Vi consiglio vivamente l’ascolto! E lo suggerirei soprattutto ai tanti trapper e rapper nostrani, specialmente nell’uso sapiente e centellinato dell’Auto-Tune, impiegato per esaltare la vocalità e non per nascondere le incapacità. Avrete capito che il personaggio mi intriga non poco.

Ruggeri è un artista particolare: non cerca il successo ma il pubblico. In base a questa filosofia – corretta per un musicista – persegue una politica di intrattenimento tutta sua. La situazione ideale per esprimersi è la strada, da vero busker, dove può entrare in contatto con chi lo sta ascoltando che si ferma solo perché interessato alla sua musica. La maggior soddisfazione. Ha suonato in molte parti del mondo, all’Ansan Street Arts Festival in Corea, al Nature and Art Festival di Shenzhen, in Cina, al Cirk! in Belgio, Imaginarius in Portogallo, Olla in Austria, Spoffin in Danimarca… tutti grandi festival dedicati agli artisti di strada.

Anche la cover dell’album lo rappresenta, un rinoceronte con un orecchino d’oro, i suoi occhi azzurri e la bocca aperta nell’atto del cantare. Altra particolarità di Riccardo: non sopporta i dischi mono-genere e neppure l’accademismo fine a se stesso. 

Lo raggiungo al telefono in Francia, dove sta portando in giro con una compagnia teatrale uno spettacolo. La telefonata arriva mentre stanno cercando il teatro dove dovranno esibirsi. «Gira di qua». «Ok, ora dritto, il navigatore mi dà così, ecco, ora vai a destra…». 

Riccardo, mi senti? Hai un attimo per me?
«Eccomi! Scusami siamo praticamente arrivati… dimmi pure!».

Ti chiamo per il disco, mi è piaciuto molto. So che non sopporti gli album mono-genere però ci sarà pure un filo conduttore in questi 12 brani…
«Certo, è il canto!».

Come ti è venuta la passione?
«Ai tempi del liceo avevamo dato vita a una band. Suonavo la chitarra, poi, visto che non c’era il cantante, ho iniziato a cantare. L’avevo sempre fatto, ascoltavo i vinili di mio nonno, mi piaceva la voce di Claudio Villa… poi ho conosciuto il lavoro di Demetrio Stratos. È stata una deflagrazione: pensa a quello che ha fatto, una tangente che è partita da John Cage ed è arrivata al Rock’n’Roll. È stato una meteora, purtroppo. Riascoltando i suoi lavori da solista, dentro ho ritrovato e ritrovo i suoi esperimenti vocali, utilissimi in campo didattico. A 18, 19 anni mi mettevo in sala prove cercando di ripetere i suoni che uscivano dalla sua bocca».

Hai studiato anche canto funzionale…
«Lo si ritrova in tutte le didattiche. Si tratta di percepire, sentire la propria voce attraverso tutto il corpo in modo da ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Quando si canta si mettono in movimento catene muscolari lungo tutto il nostro corpo. Non è una tecnica sciamanica ma si tratta di ricerca (la scienza ci è arrivata negli ultimi vent’anni). Praticarla mi ha smontato e ricostruito, cambiato il valore del canto, che diventa ascolto, autopercezione, condivisione. In questo modo il virtuosismo passa in secondo piano…».

Mi è piaciuto molto la cover… ma perché proprio un rinoceronte?
«Da piccolo ero affascinato dal mondo animale, avevo l’album di figurine del Wwf. Poi ho trovato la simbologia dei vari animali. Il rinoceronte rappresenta la resistenza, la pazienza e la precarietà…».

Ti riconosci in lui…
«Tendo ad avere passioni forti e intense che durano un paio di mesi, poi passo a un’altra cosa».

Vieni da Biella. Come si sta in provincia? Zerocalcare nel suo Strapapare Lungo i Bordi, l’ha presentata come una cittadina sonnolenta, triste, scatenando l’ira di tanti…
«Zerocalcare ha toccato l’orticello e le sue chiusure. Ci sono nato, ci vivo, ma ho sempre bisogno di scappare per ritrovare equilibrio e soddisfazione nella piccola provincia. E poi si sta bene: a pochi minuti da casa sono a fare il bagno nel torrente in montagna».

Non hai mai pensato di trasferirti? Che ne so, a Milano, a Torino o a Roma?
«La grande città, a livello di offerte, ha grossi vantaggi. Il fatto è che sono un estimatore del caso e del caos: come l’acqua, che va ovunque e si infiltra dappertutto. La provincia ha muri così alti che, per contro, mi spinge a cercarmi le cose…».

Bella teoria: è uno stimolo per aggirare i tanti ostacoli. Lo fai se proprio lo desideri…
«A 16 anni mi andavo a cercare tantissime cose, facevo concorsi, eravamo riusciti a suonare a Torino, Bologna e Milano!».

Veniamo ai brani: Io non sono figlio di Maria, intesa come la Madonna?
«Ma no! Io non sono Figlio di Maria, intesa come la De Filippi. Non ho mai provato il mondo dei talent, per quanto trovo sia efficace. Però non lo farei mai perché mi è sempre piaciuto il valore sociale della musica. Il dover dimostrare quanto si vale non è nelle mie corde: forse è meglio fare quello che ci fa stare bene. Il titolo e un po’ un gioco, ricordi la vecchia cantilena chi fa la spia non è figlio di Maria? Ebbene, voglio essere una spia, intesa come segnale che si accende per segnalare problemi, anomalie…».

Quindi questo disco che cos’è per te?
«Una necessità, avevo bisogno di creare quel tipo di accrocchio di generi. Tutto però si riconduce alla mia esigenza di creare qualcosa legato a una sensibilità condivisa. Come nei miei progetti, ad esempio con i Syndone, band prog rock di Torino (decisamente e meravigliosamente prog!, ascoltateli, ndr) o con Le Lavatrici Rosse (duo con il batterista Andrea Beccaro, con cui canta Giovinezza, brano contenuto nel disco, ndr)».

Una canzone diversa dall’altra quanto a stile e modo di interpretarla…
«Mi sono concesso un momento di libertà creativa, dove non avevo vincoli nello scrivere, basandomi solo sui periodi in cui li ho composti».

Cosa ti aspetti dall’album?
«Di dare una visione sincera semplice di quello che mi piace, arrivare a comunicare in modo intimo con chi mi ascolta. Un condivisione di esperienze e sensibilità. Non ho aspettative commerciali».

Avete fatto anche dei vinili?
«Per ora solo una piccola tiratura di Cd e la versione digitale, ovviamente. Il vinile è una spesa troppo elevata. Ci sarà comunque un secondo tempo, ho già venti brani pronti!».

Deciso appuntamenti live?
«Stiamo organizzandoci. L’estate è l’occasione per sperimentare… il lavoro grosso sarà in autunno, nei club».

Ti definisci, con orgoglio, un busker…
«È la forma di live che preferisco in assoluto. Il busking è post social, mi piace, mi fa impazzire suonare per strada, perché cade tutta la finzione del palco. La strada è spietata, nessuno ti aspetta. Si ferma ad ascoltarti solo chi ritiene che sei degno d’ascolto. È libertà per il musicista e per l’ascoltatore, una palestra di vita. E poi ci si muove facilmente. Prendo la mia orrenda Multipla, carico il borsone con gli strumenti e parto… è un senso di libertà totale!».

Un disco per il weekend: Daniela Spalletta e il suo “Per Aspera Ad Astra”

Daniela Spalletta – Le foto del post sono di Paolo Galletta

Per questo fine settimana vi invito ad ascoltare un disco meditativo, originale, che non dà il minimo spazio alle banalità, anche se certi fraseggi possono suonare rassicuranti. Un lavoro che mi ha catturato al primo ascolto e che ora, sento la necessità, sì proprio così – e non mi capita spesso, e ringrazio chi me l’ha segnalato – di ascoltarlo in loop. No, tranquilli! Non ho usato alcuna sostanza psicotropa, ma sono stato drogato da una voce incredibile, bella, cristallina, angelica, versatile. E me ne sono innamorato.

Il disco in questione è Per Aspera Ad Astra (TRP Music), uscito a febbraio e, faccio mea culpa, l’ho scoperto solo ora. L’artista si chiama Daniela Spalletta, 39 anni, siciliana. Di lei Gegè Telesforo, alla domanda sull’uso dello scat, di cui è uno dei re indiscussi, lo scorso anno mi raccontava: «…E poi c’è una siciliana, una musicista completa, Daniela Spalletta, che ha cantato nel mio disco, un’artista devota allo studio, completa, canta lirica e jazz contemporaneo. È bravissima. Questi sono i musicisti che mi piacciono, onnivori, versatili…».

Daniela ha all’attivo due album solisti D Birth (2015 – Alfa Music) e Sikania (2017 – Jazzy Records ) e numerose collaborazioni con artisti nazionali e internazionali. E anche altrettanti premi, tra questi, il secondo posto nel 2019 al Sarah Vaughan International Jazz Vocal Competition, dove ha cantato al New Jesey Performing Art Center di Newark (NJ) di fronte a una giuria composta da Christian McBride, Dee Dee Bridgwater, Jane Monheit, Monifa Brown e Matt Pierson.

Ma veniamo al disco: con un simile pedigree, viene da chiedersi (ed è uno dei temi che ho toccato nell’intervista dell’altro giorno con Paolo Fresu) perché artisti come Daniela non abbiano la giusta collocazione nel mondo artistico italiano e rimangano “di nicchia”. Cosa che può far sentire speciali chi li ascolta, ma la musica è comunicazione, è apertura, è gioia, vita, cultura. Gli artisti che hanno quel dono benedetto in più dovrebbero avere la possibilità di arrivare a tutti, a prescindere dal genere in cui vengono etichettati.

Già, perché etichettare Daniela Spalletta non è facile. Usa la voce come strumento, ma è una musicista che compone e arrangia e la riprova è quest’ultimo lavoro frutto della sua creatività e studio. C’è jazz, certo!, ma c’è anche world music, c’è classica e un brano che mi ha stregato, un ricordo di musica barocca rivisitata in Rosa, dove tecnica e passione si fondono “angelicamente”. Se, invece del pianoforte di Seby Burgio, ci fosse un clavicembalo vi sentireste catapultati in qualche corte settecentesca con una parrucca in testa, seduti ad ascoltare le vellutate evoluzioni canore…

Una costruzione complessa, grazie ai musicisti che accompagnano Daniela, persone che si conoscono da anni e che da anni suonano insieme. Dagli Urban Fabula (Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria) al chitarrista sloveno Jani Moder, formatosi in quella straordinaria fucina che è il Berklee College of Music di Boston, al contrabbassista Alberto Fidone che ha suonato nell’album ma ha anche curato la direzione della TRP Studio Orchestra, l’orchestra d’archi, e ha prodotto il progetto con la Spalletta e Riccardo Samperi, ingegnere del suono, che Daniela ha definito «il quinto uomo del quartetto».

Il brano di chiusura che dà il titolo all’album, Per Aspera Ad Astra, un motto latino che significa “attraverso le difficoltà, fino alle stelle”, è un esempio di quanto appena detto. Un pezzo dove gli archi hanno un ruolo determinante nell’esecuzione e nella fusione ritmica con un passaggio a contrabbasso, piano e batteria amalgamato da una voce che riempie, per poi arrivare nuovamente agli archi in un ritorno dal sapore “orientale”. Così si va nell’ascolto, dove non manca un pezzo cantato in turco, Yaşam, che significa “vita”, tratto, come spiega la stessa autrice, «da un passo della poesia Yasamaya Dair, di Nâzım Hikmet: Prendila sul serio (la vita), ma sul serio a tal punto che a settant’anni pianterai un olivo, non perché resti ai tuoi figli, ma perché non crederai alla morte e la vita peserà di più sulla bilancia».

Così, mentre Jani Moder va in modalità jazz con un tocco delicato in Coiled in a Bondage, Daniela Spalletta va di scat in Power Flow-er – ma quanto avevi ragione Gegè! – lasciando spazio a un bel disegno jazz di Seby Burgio, decisamente uno dei pianisti italiani più “in spolvero” in questo momento.

Dunque, che dire d’altro? Un gran bel viaggio questo disco. Per questo ve lo raccomando. Chiudo con una azzeccata descrizione del lavoro fatta sul suo sito dalla stessa Daniela Spalletta. Buona lettura e… buon ascolto!

Per Aspera ad Astra è un viaggio spirituale in una bolla spazio-temporale. Un peregrinare inquieto (Heal me, Coiled in a bondage). Una caduta rovinosa dalla superficie dell’esitenza verso le oscure profondità dell’anima (Samsara). Poi, la Luce dolce della Vita inesorabilmente mi conquista (The Gift), e lentamente riemergo, con la preghiera e la meditazione, riscoprendo l’energia vitale (Power Flow-er), il suo Sacro Respiro (Flamen), che mi riconcilia col mio Diamante interiore (Rosa), pronta a lasciare andare ogni angoscia (Flow): comprendo che sono pura vita e non ho bisogno di temere la morte (yaşam). Allora, una gioia irresistibile mi travolge e voglio aprire il cuore all’universo, in un canto di energia e luce (Rainbow Runners), prima di abbandonarmi di nuovo, con gratitudine, al mistero della Vita (Per Aspera ad Astra). Tutto questo “viaggio” è compiuto con lo sguardo rivolto perennemente al cielo (Up), nell’incrollabile fiducia che, anche nei momenti più difficili, esiste sempre un gancio fra il cuore e l’Amore Infinito che lo sovrasta.

Rolling Stone, le classifiche e una riflessione…

Il 15 settembre Rolling Stone USA ha pubblicato la sua colonna sonora più dirimente e attesa: le 500 canzoni più belle di tutti i tempi. Il magazine, ormai ex-bibbia del rock, ha voluto pubblicare, a quasi vent’anni di distanza dalla prima edizione, una nuova revisione.

Le classifiche a cui RS ci ha assuefatto sono una buona lettura dei tempi e di quello che significa la musica, mainstream e alternativa, dagli anni Trenta del secolo scorso a oggi. Le 500 canzoni sono la summa di tutto questo, anche perché, la prima “RS hit parade”, come ben ricordano dallo stesso magazine, era del 2004, quando Billie Eilish aveva appena tre anni. A partecipare al sondaggio per decidere i brani più belli di sempre, sono stati chiamati oltre 250 tra artisti, musicisti, produttori, discografici che ne hanno selezionati, ciascuno, 50, per un totale di 4mila brani.

Con questo ampio e democratico parterre si presume sia uscita uscita una fotografia piuttosto nitida e ben incisa della storia della musica occidentale, soprattutto americana e inglese. 

Quello che più salta all’occhio è che di brani “dirimenti” dall’inizio del Terzo Millennio ne sono stati selezionati pochi, appena una settantina, per lo più provenienti dalle correnti mainstream, un pop facile e ben codificato e un rap che s’è liberato dalle origini e naviga tra bit raramente innovativi e un conformismo testuale presentato come anticonformismo. Di contro, troviamo, monolitici, i 250 e passa brani compresi nel periodo Sessanta e Settanta e i 142 scelti negli anni Ottanta e Novanta, oltre a poche decine che arrivano tra il 1930 e il 1950.

Di artisti ce ne sono tanti – anche se, per esempio, non si vedono tracce del periodo prog inglese, King Crimson, Genesis, Yes, Traffic, gli Emerson, Lake & Palmer – alcuni ritornano più volte in classifica (vedi Aretha Franklin, Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Prince, Bob Dylan, Lou Reed, Led Zeppelin, Bob Marley, Bruce Springsteen, David Bowie…) ma quello zoccolo duro di brani memorabili, immancabili, oserei, eterni, nati dalla seconda metà degli anni ’60 alla fine dei Settanta sono la riprova, se mai fosse stato necessario, di quanto le esperienze musicali, sociali, politiche di quegli anni abbiano generato una svolta epocale nelle arti, e soprattutto nella musica, a cui tutti, ancora oggi si rifanno a piene mani. Una rivoluzione che dobbiamo ancora vivere in questo nuovo millennio.

E, dunque, non può suonare strano se  il miglior brano di tutti i tempi sia stato scritto da Otis Redding e pubblicato nel 1967 dalla grande Aretha Franklin. Sto parlando di Respect, una delle canzoni più suonate di sempre. Il secondo posto se lo sono aggiudicato i Public Enemy con Fight the Power (1989), mentre il terzo e quarto appartengono rispettivamente a Sam Cooke, uno dei principali esponenti della soul music degli esordi, con A Change Is Gonna Come (1964) e l’eterno Bob Dylan con la sua altrettanto immortale Like a Rolling Stone (1965). Al quinto ci sono i Nirvana con Smells Like Teen Spirit del 1991, e via via Marvin Gaye con What’s Going On (1971), The Beatles con Strawberry Fields Forever (1967), il rap di Missy Elliott, Get Ur Freak On (2001), i Fleetwood Mac e la loro splendida Dreams (1977), e gli Outkast con Hey Ya! (2003)…

Il resto della classifica, numeri alla mano, rispecchia la prima decina. Ne deriva che, nell’esperimento musicale (e, a questo punto, anche sociale) di RS in novant’anni di musiche selezionate, il nocciolo importante, salvo rare eccezioni, rimane chiuso in poco più di trent’anni. Quei trent’anni che hanno visto rock, punk, soul, funk, jazz, nascere e rinascere, reinventarsi, crescere, svilupparsi, contaminarsi, classicismo e sperimentazione a ciclo continuo, effervescenza di note, idee, pulsioni.

In attesa di una rumorosa, spettacolare, necessaria rivoluzione epocale – che sinceramente non vedo – vale la pena rimettersi all’ascolto di quella Musica. Per rivangare ricordi, quelli delle generazioni vicino alla mia, per imparare un po’ di background le nuove leve del Duemila.

La musica che mi fa sentire bene

È da un po’ che volevo condividere con voi una mia riflessione. Sarà l’età, sarà la tanta musica che ho ascoltato e continuo ad ascoltare, ma mi sono reso conto di essere diventato sempre più selettivo nelle mie preferenze.

Continuo, certo, a mettere in cuffia tutti i generi, soprattutto quelli che non sono nelle mie corde, per comprendere nuove forme d’espressione e trarne spunti, spesso in una banalità imperante e dai facili consumi.

Quando la melodia è ripetitiva e scontata mi sento dire: «Ma devi ascoltare i testi, sono quelli che contano». Grazie, ma preferisco leggere quei versi senza il contorno di elaborazioni digitali fatte in catena di montaggio, tutte uguali, tutte senz’anima. Alcuni testi sono davvero interessanti, e mi riferisco soprattutto all’Urban. Il mainstream non è affatto garanzia di qualità.

Guardo all’Italia: apparentemente c’è solo una cultura dominante, quella del rap-trap, diventato il nuovo Pop, una contraddizione in termini se si pensa alla matrice culturale dell’hip-hop e alla controcultura in cui si è formato. Il genere è mercificato, buono per le case discografiche e per i trapper e rapper che hanno a disposizione il loro quarto d’ora di celebrità. Non parliamo poi dei prestampati sanremesi. Le eccezioni sono rare…

Ascoltare musica che dica qualche cosa (incluso l’Urban) risulta molto difficile, bisogna andarsela a cercare. In Italia, comunque, abbiamo fior di musicisti raffinati, preparati, virtuosi, polistrumentisti, affamati di contaminazioni, senza preclusioni. Jazz, latin jazz, rock, bossa nova, classica, hip-hop, funk, pop, linguaggi spesso distanti tra loro, diventano magicamente compatibili, un melting pot riuscito.

L’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro in un suo libro dirimente, O Povo Brasileiro (impiegò 30 anni a scriverlo), annotava come la miscigenação, la combinazione di tre popoli, il portoghese, l’africano e l’indigeno, avesse portato a quello che è diventato un solo popolo brasiliano oggi. Non solo razza, ma anche cultura e, quindi, musica. Musica del mondo, dunque, influenze che trovano in artisti come Joe Barbieri, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Daniele di Bonaventura (ascoltate l’ultimo suo lavoro uscito il giorno di Pasqua, Canzoni da Casa, o lo splendido Reminescenze con il pianista Giovanni Guidiqui uno dei concerti dei due artistiTosca, Gegè Telesforo (che ho intervistato lo scorso anno), Luca Aquino, Gabriele Mirabassi, Mauro Ottolini, di cui vi parlerò tra alcuni giorni, esempi significativi e importanti.

Mentre scrivo mi sto ascoltando Bollani e il suo Carioca, album uscito nel 2008. Ma anche il live uscito a marzo di quest’anno, in versione classica/world music, El Chakracanta (Live in Buenos Aires) con l’Orquesta Sin Fin diretta da Exequiel Mantega. Il disco è composto da due tanghi, Don Agustín Bardi di Horacio Salgán e Libertango di Ástor Piazzolla (l’11 marzo s’è celebrato il centenario della nascita) e da due composizioni per orchestra di Bollani, il Concerto Azzurro e il Concerto Verde, registrati, sempre nella capitale argentina, in tempi diversi.

Ieri sera, invece, l’ho dedicata a Barbieri, riandando ad ascoltare quel bellissimo disco del 2015, Cosmonauta da appartamento, qui L’Arte di Meravigliarmi con il prezioso intervento crossover della spagnola La Shica (a proposito di rap…) e Tu sai Io So con la voce inconfondibile di Peppe Servillo. Rimane un capolavoro per me Maison Maravilha, album del 2009 dove c’è Malégria cantata con Omara Portuondo, la grande artista cubana del Buena Vista Social Club.

Paolo Fresu (del suo ultimo disco, P60LO FR3SU ho parlato qualche giorno fa) da anni porta in musica quella miscigenação descritta da Ribeiro. Un esempio, per nulla banale, ma che solo un vero musicista può concepire, lo ha regalato il venerdì di Pasqua, suonando dalla sua casa il Miserere insieme al Cuncordu ‘e Su Rosariu di Santulussurgiu.

Il 30 marzo è uscito l’ultimo lavoro di Gabriele Mirabassi, Tabacco e Caffè, di nuovo assieme dopo quasi cinque anni da Amori Sospesi, al bassista Pierluigi Balducci e al chitarrista Nando di Modugno. Ascoltate Party in Olinda, il brano che apre il disco, del compositore e chitarrista brasiliano Toninho Horta. Il disco è un viaggio nella musica tradizionale brasiliana e quello che ha rappresentato negli anni per molti artisti, soprattutto jazzisti. E mentre il clarinetto di Mirabassi ti proietta in mondi rassicuranti e sognanti, Luca Aquino fa suonare la sua tromba in rivisitazioni della musica che ha più amato attraverso quella grande casa che è il jazz. Mi diverte ascoltare le elaborazioni di Rock 4.0 brani rock, dai Radiohead, a Neil Young a Bob Dylan (album del 2014) o overDOORS (del 2015), un omaggio alla mitica band di Jim Morrison, ma anche quel giusto riconoscimento a certa musica italiana d’autore in Italian Songbook del 2019 (con l’orchestra sinfonica di Benevento e la partecipazione del pianista Danilo Rea): molto intensa la sua versione di Almeno tu nell’Universo.

Potrei andare avanti ancora e ancora. La musica ha un grande potere terapeutico, e questi artisti per me sono passione, lavoro, fantasia, sogno, emozione. Questa è la musica che mi incuriosisce, che mi manca – nel senso della saudade brasileira (ne avevo parlato sul blog giusto un anno fa) che ho bisogno di ascoltare per essere in pace con me stesso e il mondo. Contaminazione, fantasia, un esperanto in note che acquista sempre più senso in questo assurdo momento storico.