Pier Bernardi, il basso e la gran voce di Prudence

Come scritto più volte in questo blog sono restìo a presentare dei “singoli”. Credo che un artista,  soprattutto se sconosciuto, non lo giudichi da una canzone. Nel caso di Say Yeah, disco uscito  il 9 febbraio scorso, l’artista in questione è un bassista navigato, ben noto nel mondo del rock italico e in quello del circuito di World Music: Pier Bernardi, emiliano Sant’Ilario D`Enza (RE). 

Con  questo brano Pier termina una trilogia iniziata con Black and White e proseguita con Eyes, realizzata in collaborazione con Prudence Obounon, giovane ivoriana, dotata di una voce straordinaria, artista di cui sentiremo molto parlare. 

Pier è il vero bassista elettrico: «Il mio preferito è il basso a quattro corde, anche se suono quello a cinque e sei corde», mi racconta. «Il basso deve tenere il ritmo con la batteria, ma non vuol dire che non possa trovarsi anche degli spazi melodici, pensa a Jaco Pastorius». Nella vita artistica ha fatto di tutto dal rock alla musica improvvisata con Giovanni Amighetti, uno dei grandi cultori della World Music nonché amico di Musicabile. Com Amighetti collabora da molti anni, grazie a lui ha scoperto la libertà nella musica, il non rimanere incanalato in un genere, l’aprire la mente ad altre esperienze, il pensarla come una strada senza fine, sempre spettacolare e avventurosa.  

Come hai conosciuto Prudence?
«Tramite Giovanni Amighetti. Avevo pubblicato il mio primo disco solista (Re-Birth, 2017, ndr) quello con Ace degli Skunk Anansie, un lavoro strumentale, e avevo espresso a Giovanni che è il mio produttore da 13 anni, di fare un album di canzoni. Il mio problema è che posso essere un bravo corista ma non certo un cantante, quindi ci siamo messi alla ricerca di una voce, maschile o femminile. Non mi interessava la lingua, anche se avrei preferito l’inglese. Abbiamo ascoltato tanti ragazzi e ragazze senza successo, fino a quando ho sentito Prudence e… li ho mandati tutti a casa! Lei era giovanissima, lingua madre francese e perfetta conoscenza dell’inglese, poteva fare quel gioco di usare più lingue nella stessa canzone come è successo in Black and White, il primo singolo che abbiamo fatto insieme».

Un bel brano, potente!
«Sì, abbiamo adottato un modo di lavorare ideale: io compongo la musica in tutte le parti e lascio a Prudence la linea vocale, la melodia e il testo. Lei è molto veloce anche se le basi delle prime due canzoni erano più dure, Say Yeah è un po’ più orecchiabile, non era facile tiraci fuori una bella melodia. Ma lei, avendo una voce che non ha quasi limiti, è riuscita senza difficoltà… C’è molto feeling, con lei è stato tutto molto semplice».

Ritorno su Giovanni Amighetti: è uno dei maggiori esperti di World Music che abbiamo in Italia!
«Sono d’accordo, infatti abbiamo iniziato facendo dischi di World Music anche per la Nasa…».

Giusto! Spiegami come sei finito a comporre per la National Aeronautics and Space Administration… Da dove ti viene questo legame con il cosmo?
(Ride!, ndr) «Non sono mai stato un amante, mi affascina, come, penso, attiri tutti noi. A Giovanni erano stati commissionati dei lavori, in particolare The Fermi Paradox, dall’agenzia spaziale con il Jet Propulsion Laboratory (JPL). Il disco deve ancora uscire nonostante siano passati sei anni: le tempistiche sono diverse da quelle del settore musicale. Il disco è basato sul paradosso di Fermi  (in tutte le galassie dell’universo devono esserci forme di vita intelligenti oltre a noi. Ma se ci sono, perché non siamo mai entrati in contatto con loro? ndr), dovevamo produrre musiche che accompagnassero poi vari documentari piuttosto che altri lavori provenienti dalla Nasa. Ci siamo trovati a Correggio, quando c’era ancora il Dudemusic, lo studio del Liga, con Paolo Vinaccia, grande batterista jazz che non è più tra di noi, Giovanni, David Rhodes (il chitarrista di Peter Gabriel) e Roger Ludvigsen, un chitarrista lappone fantastico. Abbiamo iniziato a suonare, uno seguiva l’altro e in due giorni l’abbiamo completato».

È il modo di produrre di Giovanni, ora con Luca Nobis alla chitarra e Roberto Gualdi alla batteria costituisce gli E-Wired Empathy!
«Esatto. Farò un disco insieme a loro. No so cosa verrà fuori, la regola è rimanere in studio due pomeriggi e suonare. Può uscirne un album doppio o un Ep, vediamo».

Bisogna avere un grande interplay per suonare così liberi, non trovi?
«Eh, sì, all’inizio pensavo di non esserne nemmeno all’altezza. Poi prendendoci mano e piacere nel farlo alla fine è diventato più facile, o meglio, un difficile diverso. Adesso quando ho una parte ed eseguire quella, mi sento limitato, stretto. Quando suoni improvvisando devi stare attento alla tonalità, ma poi ci si parla, non si va alla cieca. Se c’è l’errore ci si ferma lo si capisce e quella parte viene rifatta. C’è una grande libertà, è musica dell’istante, due ore dopo non ti verrà uguale, magari sarà più bella, ma comunque non la stessa. È molto complesso, bisogna avere fiducia. Ricordo una delle prime volte con Tiziana Ghiglioni alla voce, Giovanni al piano e la violinista Angela Benelli, che è stata primo violino nell’Orchestra di Morricone: non era facile per nulla, non c’era nemmeno una batteria, quindi ero io il ritmo, dovevo fare molta attenzione nello stare a tempo, ma ero talmente rapito dalla bellezza di quello che facevano gli altri che il mio non lo ascoltavo proprio». 

Oltre al The Fermi Paradox hai provato un’altra esperienza “spaziale” con gli Art of Frequency…
«Michele Vallisneri (astrofisico e ricercatore al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, ndr) aveva chiesto a Giovanni alcune musiche per programmi di divulgazione. Eravamo in tre io al basso, Giovanni al piano e Roberto Andreoli alla chitarra. L’abbiamo c imposto a casa mia e poi mixato e masterizzato in uno studio, ma registrato con un registratore multitraccia nella mia scuola a Sant’Ilario».

Se ti dovessi definire in un genere musicale in quale ti ritroveresti?
«Ne ho fatte talmente tante che non so cosa dirti. Nasco come un bassista rock, l’ho fatto quando ero un ragazzino, mi sono innamorato degli Aerosmith, dei Red Hot Chili Peppers, fin lì tutto nella norma! Da quando ho conosciuto Giovanni dire che sono solo rock è molto limitante: sono un bassista World, ho suonato anche con Faris Amine, il chitarrista Touareg, è stato difficilissimo dal punto di vista tecnico perché loro hanno un modo di ragionare sul tempo completamente diverso dal nostro che è costruito. Tutta palestra! Facevamo del blues mescolato alla tradizione dei canti del deserto del Sahara. Poi ho suonato con le Custodie Cautelari, con Mengoni, con Fibra… Ho fatto i classici tour, che sinceramente non ho più voglia di affrontare per il modo di suonare».

Torniamo a Say Yeah, mi sembra che stia andando bene…
«Ha ottenuto i risultati migliori rispetto agli altri due singoli nei vari canali streaming».

Quella degli streaming è una dittatura…
«Ci pensavo proprio ieri sera, non ce l’ho con Spotify, il mondo cambia. In fondo è un Napster diventato legale, però il problema è che oggi qualsiasi genere di musica si faccia è pensata e basata sul raggiungimento del numero di streaming. Prima lo scopo degli artisti arrivava da un’esigenza di fare musica. Poi molti volevano il successo, ci stava nel gioco, ma lo volevano in modo più sano. Persino le case discografiche, che sane non lo sono mai state, lo erano comunque più di adesso, almeno erano più trasparenti. Ci troviamo in un momento di passaggio, con l’Intelligenza Artificiale riesci a ottenere basi perfette da un punto di vista compositivo, di master, di mix, basta che uno ci canti sopra e hai un disco pronto in pochi giorni. Dopo una settimana varrà dieci centesimi, e tu ascoltatore te lo sarai dimenticato subito. La gente vuole, vuole, vuole, è onnivora, rock, urban, rap, blues, così gli si dà in pasto una canzone, che divorano rapidamente in attesa di un’altra, e poi un’altra ancora. Ce ne sono così tante!».

Il singolo funziona come i 45 giri negli anni Sessanta. Però quelli erano preparatori all’uscita di un album…
«In teoria sì. Fino a quattro, cinque anni fa funzionava così, venivano pubblicati i singoli migliori per poi lanciare un album con l’aggiunta di quattro canzoni che di solito erano le più brutte, album che usavi per andare in tour dove prendevi i soldi veri. Adesso si fanno i singoli solo per fare i singoli. Salmo ne ha appena pubblicato uno che è fine a se stesso. Fabri Fibra ha addirittura ripubblicato la canzone fatta con la Nannini nel 2007, questa volta assieme a Emma e Baby Gang perché serve a pubblicizzare Nuova Scena la serie su Netflix».

Per te cosa significa fare un singolo?
«A livello comunicativo mandare un messaggio. La musica è una specie di dono che tu hai e che poi condividi con gli altri per avere feedback, recensioni anche se negative, tutto serve a farti crescere. Con Say Yeah voglio chiudere una trilogia pensata per e con Prudence, canzoni diverse da quello che faccio solitamente, che poi sono brani strumentali. Se li faccio ascoltare a un diciassettenne scappa piangendo! Ho altri brani incisi con Prudence e un album ci potrebbe stare, in effetti ci stiamo pensando…».

Una delle tue attività è l’insegnamento…
«Mi piace molto insegnare, vedere i ragazzi diventare un po’ come me, li spingo a esprimersi liberamente, a improvvisare, soprattutto a non diventare il classico strumentista che finisce in qualche cover band, e la carriera finisce lì».

A proposito di cover band ce ne sono un’infinità, sempre di più! Un altro fenomeno da analizzare…
«Te ne racconto una. Qui vicino casa mia c’è il Fuori Orario, locale piuttosto famoso per la musica dal vivo. Quest’inverno inverno sono venuti gli Achtung Babies band tributo degli U2 e per aprire il concerto si sono portati di spalla un’altra band tributo, cioè una band tributo che celebra la band tributo più grande che canta le canzoni di un’altra band famosissima. Me l’ha detto Nicola Bossini, chitarrista del Liga, non ci credevo. Ho chiuso la telefonata con lui senza dire nulla: siamo arrivati al tributo al quadrato!».

Perché ti sei innamorato del basso?
«Bella domanda! Non lo so. A sei anni mia mamma mi comprò una chitarra e mi mandò in oratorio per imparare a suonarla. A me faceva proprio schifo, ero “brocco” di brutto: con la mano destra non riuscivo a fare la plettrata su e giù, riuscivo solo ad andare in giù. Dopo un po’ di tempo i miei si rassegnarono pensando che non fossi portato per la musica. Alle medie un mio amico si mise a suonare il basso. Gli chiesi se me lo faceva provare ed è stato amore a prima vista. Il giorno dopo sono andato con mia madre a comprarmi un basso. Ho acquistato il più economico e da allora non ho più smesso di suonarlo. Tutte le sere prima di andare a letto anche se arrivo a casa tardissimo lo suono, tre o quattro canzoni, sempre!».

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