Election day 2020: la parola ai musicisti…

Siamo entrati nel fatidico Election Day, il giorno in cui gli americani sceglieranno l’uomo che li guiderà per i prossimi quattro anni. Mai come questa volta, è un’attesa carica d’elettricità, negozi con le serrande abbassate, esercito che circonda la Casa Bianca, nemmeno l’America fosse lo Stato Libero di Banana.

Per la prima volta in una campagna americana si sono sentite echeggiare parole come odio, divisivo, razzismo, morte. Insomma Donald Trump è Donald Trump, uno che con la testa non ci sta tanto, un caso clinico, come ha tentato di dimostrare il docufilm #Unfit – The Psychology of Donald Trump di Dan Partland. L’altro, Joe Biden, a onor del vero, è un po’ moscio, l’opposto di uno che buca il tubo catodico, come si diceva una volta (quando ancora esisteva il tubo catodico), però è strutturalmente, fondamentalmente diverso dal primo (grazie all’appoggio virale di Barak Obama). Ma non è di questo che voglio parlarvi. Ben più esperti colleghi del sottoscritto commenteranno nelle prossime ore durante le interminabili dirette web e televisive.

Scrivo questo post per un altro motivo. La musica. Può questa smuovere le coscienze di milioni di elettori? Possono versi e note essere determinanti per chi si recherà al seggio o esserlo stati per chi ha già votato per corrispondenza? La mia risposta è sì, certo che sì! Mai come questa volta abbiamo assistito a un endorsement così massiccio da parte di artisti che non si sono soltanto limitati a dire sui loro social: “Voto Biden”, ma che hanno giustificato il loro voto contro Trump. I musicisti pro-Trump, in realtà sono davvero pochi… vedremo anche loro.

Sono usciti tweet, dichiarazioni, veri e propri documenti programmatici da parte di artisti, popstar, rockstar, jazzisti, rapper e quant’altro. Ci sono i soliti noti, Madonna, Taylor Swift, Ariana Grande, Beyoncé, Cher, John Legend, Lady Gaga («Parliamo di come può essere l’America con un presidente più gentile. Abbiamo bisogno di ogni voto. Io sto con Biden», twittava ieri), Justin Timberlake, Tracy Chapman, Cardi B, Eminem («We have one shot. One opportunity. One moment. Don’t miss the chance. Vote» rappava  poche ore fa). C’è Dave Grohl con la madre Ginny, in uno spot girato insieme a Jill Biden, moglie del candidato democratico, twittato via Foo Fighters. E anche Neil Young, che ha addirittura citato in giudizio Trump per aver usato una sua canzone (ne avevo scritto qui e qui) e c’è pure il suo vecchio compagno di band David Crosby che a Biden dice: «Penso che sarà la lotta più sporca dai tempi della Guerra Civile; sono felice che tu sia disposto a prendere la tua spada e il tuo scudo, Joe, ed entrare nella mischia…».

Anche Sheryl Crowe alcuni mesi fa era scesa nell’agone cantando la sua hit del 1996 A Change Will Do You Good durante una raccolta fondi pro Biden. Lei è rimasta particolarmente colpita dall’assassinio a sangue freddo da parte della polizia di George Floyd e dallo sgomento dei suoi due figli, di 13 e 10 anni, che le domandavano il perché delle manifestazioni di Minneapolis. «Ho detto loro: sì, abbiamo bisogno di un leader che parli di tutto ciò e che chieda giustizia!».

Proteste razziali ma anche riflessioni sulla pandemia mal gestita dall’attuale presidente. Esce allo scoperto Archie Sheep, una delle figure mitologiche del jazz, ascoltatelo nella bellissima Sometimes I Feel Like a Motherless Child, da un brano del 1960 di Bessie Griffin (ripreso, tra gli altri, anche da Van Morrison negli anni Ottanta), brano contenuto nell’album Goin’ Home con il pianista Horace Parlan, del 1977. L’ottantatreene sassofonista della Florida fa un’amara considerazione: «Dobbiamo correggere un sacco di cose sbagliate che sono successe in questo Paese. Abbiamo il virus e le troppe vittime che ha causato. Tra questi, tanti musicisti. Molte morti avrebbero potuto essere evitate». Il vecchio e saggio Archie ricorda il trombettista Wallace Roney, morto a 59 anni, «all’apice del suo talento musicale», Ellis Marsalis, il padre di Wynton, Lee Konitz («A very fine man, excellent saxophonist»).

Sempre nel mondo del jazz ha detto la sua anche Kamasi Washington, 39 anni, gran bravo sassofonista losangelino: parla del valore del voto, di ciascun voto, sostenendo che se tutti gli americani facessero la loro parte attivamente si saprebbe cosa uscirebbe dai seggi, e cioè: «Ciò che la maggior parte di noi vuole veramente: qualità della vita, uguaglianza e pace per ciascuno di noi». E non dimentico Terri Lyne Carrington, sublime batterista jazz (ne avevo scritto in uno dei miei primi post di Musicabile): il 22 ottobre scorso la tre volte vincitrice di un Grammy Award ha ricevuto il prestigioso NEA Jazz Master 2021 dal National Endowment for the Arts, la maggior onorificenza jazz americana. Ebbene, il suo ultimo disco, Waiting Game, composto assieme ai Social Science, è nato proprio come reazione all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.

Anche David Byrne, cittadino americano dal 2012, non è stato zitto. La posta in gioco è troppo alta. Invita ad andare a votare, a non far scegliere agli altri «quello che per te non va bene». Dice: «Nonostante tutti i problemi che il nostro sistema democratico mostra, non possiamo semplicemente alzare le mani. Dobbiamo provare. Se non voti, devi startene zitto, lo sai vero?».

E l’elenco pro Biden prosegue ancora a lungo: ecco Billie Eilish: «Che ti piaccia o meno la politica, se davvero ti sta a cuore la giustizia sociale, la parità dei diritti, se vuoi persone elette che possano battersi per affrontare la crisi climatica prima che sia troppo tardi, devi andare a votare!». E se Billie, da giovane artista convinta che, grazie alla sua musica, può smuovere coscienze, Alynda Lee Segarra, in arte Hurray for the Riff Raff (ascoltatela in Thirteen con Bedouine e Waxahatchee) da oltre un anno collabora con una gruppo, il Freedom For Immigrants, decisione presa dopo la campagna di Trump contro l’immigrazione e i centri dove gli immigrati vengono tenuti, anzi de-tenuti. «Una vergogna», tuona l’artista. «Biden e la Harris hanno detto che fermeranno questa detenzione “a scopo di lucro” (riferendosi ai soldi che lo stato paga a questi centri per tenere i migranti… vi suona familiare?).

L’elenco scorre e scorre. Ogni artista vuole dire la sua, Chuck D dei Public Enemy’s, sostenitore di Bernie Sanders, ha scelto Biden. «Trump non sta facendo il Presidente ma un suo reality show con il favore del fascismo dei suprematisti bianchi», tuona. Beth Ditto parla di Biden e Trump come di due anziani, ricchi bianchi, con la differenza «che uno ti annusa i capelli, l’altro ti afferra la vagina». Due nonnetti. Ma almeno il primo ti prepara i pancakes alla mattina mentre l’altro ti promette caramelle che tiene chiuse nella borsa della nonna che è troppo giovane per essere tua nonna. «Almeno avremo i pancakes», conclude l’autrice di Fire.

E potremmo continuare così con altre decine e decine di musicisti più o meno famosi (almeno nella nostra terra). Dall’altra parte dell’agone gli artisti sono pochini, li conti sulla punta delle dita. Il più famoso è Ted Nugent che sostiene The Donald: «va contro gli stupidi giochi del politicamente corretto e dice quello che deve dire». Pane al pane e vino al vino, diremmo noi. Ah, ci sono anche Kid Rock, l’ex marito di Pamela Anderson, e Trace Adkins, artista country.

Musica e Idoli/ Non avrai altra star al di fuori di me!

Prima o poi ci si doveva arrivare. Quando si parla di musica, autori, generi, rockstar, idoli, si toccano tasti sensibili. E te ne accorgi dai commenti ai post che pubblichi sui social. Il fattore psicologico conta molto. Mi sono riproposto di intervistare uno psicologo che mi (ci) possa raccontare quali sono le dinamiche mentali che si attivano in questi casi. Lo farò, devo trovare la giusta materia prima…

Dunque, per chi venera un artista, questo è la sua leggenda, il suo idolo e, soprattutto, una leggenda e un idolo che non avrà mai eredi. Non li può avere perché altrimenti i suddetti metterebbero in discussione l’esistenza della sua immortalità musicale. Da ciò discende (secondo punto) che, anche a distanza di anni e di ovvi cambiamenti di stili, non può esistere un musicista che meriti di ambire alla categoria “idolo numero due, il degno erede di…”, come siamo avvezzi a scrivere quando nuovi artisti si affacciano sulle scene musicali. Punto terzo: i paragoni, su basi ritmiche/musicali e di scrittura testi in senso stretto, non sono ammessi: come osi mettere sullo stesso piano un testo di Gil Scott-Heron con quello di un rapper italiano qualsiasi? Ma dov’è la qualità di questi ultimi? E ancora, Bob Marley, BOB MARLEY!, non ha lasciato star degne della sua altezza, lui aveva quel “quid” in più che lo ha fatto assurgere a leggenda; il nuovo reggae non è reggae ma qualcosa che gli può vagamente assomigliare e, comunque, per potenza espressiva e tipicità del suono (merito anche dei suoi fedeli Wailers), non arriva nemmeno ai piedi della statua del mitico Bob che campeggia nel giardino della sua casa-museo di Kingston.

Ciò fa riflettere e mette pure in crisi: possibile che abbia perso il senso critico? Beh, sì, col passare degli anni ci si ammorbidisce (equivalente gentile al “si rincoglionisce”). E soprattutto, possibile che dopo le “nostre” star non siano nate nuove stelle? Prima di inoltrarmi nello spinoso discorso delle generazioni e delle possibili spiegazioni, vorrei mettere un punto fermo. E per farlo mi appello a uno che di queste cose ne sa abbastanza, per esperienza, bravura e genialità (e già comincio a dare giudizi su un artista che ha segnato il piacere della mia musica). David Byrne, l’ex frontman dei Talking Heads, l’uomo “universale” sempre alla ricerca di nuove forme di musica, l’onnivoro della commistione dei generi, affascinato dalle culture e dalla world music. Nella prefazione al suo libro (da leggere!) Come funziona la musica (Bompiani, 2019) l’autore spiega: «(La musica, ndr) È una cosa forte». E continua: «Il modo in cui la musica funziona, o non funziona, non è determinato da ciò che è di per sé, isolata dal resto (ammesso che una condizione del genere esista), ma in gran parte da ciò che la circonda, da dove e quando la si ascolta. Il modo in cui è eseguita, venduta, distribuita e registrata, chi la esegue e con chi la si ascolta e, naturalmente, come suona…». Parole sante dove è racchiuso più o meno tutto il nostro ragionamento.

La musica dipende da chi la suona, dal momento storico in cui la si assimila, dalla forza commerciale delle label che la spingono, e, soprattutto, dal tuo stato d’animo. Insomma la tua star è amore a primo ascolto, il tuo “personal Jesus” che ti dà sensazioni, emozioni, carica. Ci siamo passati tutti, forse questa inclinazione s’è accentuata in quelli della mia generazione e di quelle immediatamente prossime, che hanno vissuto un genere dirompente, il rock, in un periodo di grande contestazione sociale, legando inevitabilmente adolescenza, musica, politica, pensiero. Mio padre ascoltava Fred Buscaglione, Bruno Martino, mia madre amava la  lirica con escursioni (rare) tra Nilla Pizzi e Orietta Bertii… Per me era spazzatura, o poco ci mancava. Ascoltavo Pink Floyd, Genesis, Jethro Tull, Deep Purple, Talking Heads, Bob Dylan, Van Morrison, Cantautori italiani, bossa nova, jazz, Chuck Mangione, uno dei miei preferiti, Gerry Mulligan, Miles Davies, ma anche classica, Mozart lo consideravo un dispettoso maghetto dalle mille risorse… Mia figlia oggi è pop con innesti rap ma con escursioni trap. Il mondo va avanti e non necessariamente in meglio, viste anche le condizioni in cui ci troviamo ora. Ma non possiamo nemmeno essere così nichilisti.

Ricorro a quel geniaccio di Philip Ball, chimico, fisico e divulgatore inglese, siamo praticamente coetanei, da scienziato ha scritto L’Istinto Musicale (edizioni Dedalo, 2011), dando la sua definizione di musica, che poi coincide con quella di Byrne, detta in altro modo: «È parte di ciò che siamo e del modo in cui percepiamo il mondo». È chiaro che ogni generazione ha i suoi miti. Il problema è che, nella gran parte dei casi, ognuno si tiene i suoi preferiti, restando così ciecamente ancorato alla propria generazione, a uno spazio temporale definito. Spesso mi sento dire: «Son troppo vecchio per dedicarmi a questi nuovi cantanti», o anche «Oggi non si fa più musica, c’è solo porcheria in giro». Ma se spingi il demotivato campione ad approfondire con nuovi autori, magari provenienti da quelli che erano i suoi “primi piatti” musicali, scopri che c’è un grande disorientamento: in genere le persone non  si avvicinano nemmeno, forse perché hanno timore… di non capire. Ci sono, ovviamente, le eccezioni: il mio amico Stefano, cinquantenne, è stranamente (o incautamente?) incuriosito dal rap come fenomeno sociale, per questo va a scovare tutti i dischi possibili, concentrandosi sui testi, non gliene scappa uno! Bruno Martino, tanto per prendere uno degli artisti citati, l’ho capito molti anni dopo, e nella sua bravura di autore ho riconosciuto alcuni dei percorsi sonori che mi appartenevano già.

Sto cercando di farlo con i nuovi artisti, siano essi rapper, trapper, new reggae, rock nelle sue versioni più innovative o estreme, alternativi, elettronici, disco. Ascoltare è la miglior arma per capire. Ma bisogna farlo con metodo per riuscire a penetrare questi nuovi mondi. Noi, astronauti in orbita intorno al pianeta Musica, bardati con tute sigillate per evitare di respirare sostanze “contaminanti”, dobbiamo avere l’umiltà di spogliarci e ascoltare. Potremmo scoprire altre strade meravigliose, magari molto più panoramiche (non si perderà l’originale purezza di gioventù), orizzonti sonori totalmente nuovi.

Concludo dicendovi cosa sto ascoltando ora con grande interesse ijn questi giorni: il jazzista israeliano Avishai Cohen (da non confondere con l’omonimo contrabbassista jazz) con il suo nuovo progetto Big Vicious, album uscito il 20 marzo scorso. Trombettista che esplora tanti generi dal jazz al rock al trip hop. Molto interessante l’interpretazione della beethoveniana Moonlight Sonata. Qui godetevelo in Teardrop, gran bella rivisitazione del brano dei Massive Attack, dall’album Mezzanine (1998). Il,secondo sempre in cuffia è Earth di EOB, il progetto solista di Ed O’Brien, chitarrista dei Radiohead, uscito il 17 aprile. Ci ha messo un bel po’ di tempo a comporlo, otto anni, si è avvalso della collaborazione di grandi artisti, Flood alla produzione, il collega di band Colin Greenwood, al basso, Glenn Kotche, il batterista degli Wilco, Adrian Hutley dei Portishead e molti altri. Ed mette nell’album tanto Brasile, dove ha vissuto nel 2012, a suo modo, ovviamente. Sentite proprio il brano Brasil, dura 8 minuti e 27 secondi! Ultimo disco in ascolto, anche questo uscito da poco, il 10 aprile, è The New Abnormal dei The Strokes. «And now we’ve been unfrozen and we’re back», ha annunciato il frontman della band Julian Casablancas all’uscita del lavoro, dopo sette anni di silenzio, inframmezzato da un EP, Future, Present, Past (2016). Suonano rock, onesto, pulito,  lineare, beatitudiniario e fluidificante per questi giorni. Dietro alla band, il produttore Rick Rubin, una garanzia. Un’infilata di riff, chitarre, synt che ti fa sentire a posto con la vita e con le giornate da affrontare. Qui At The Door.