Ermanno Cavazzoni: il liscio, lo studio e il suo futuro provocatorio

Ermanno Cavazzoni

Oggi parte a Bologna Mens-a. Un festival filosofico ma non solo, che vuole portare agli studenti universitari e alla società civile una sana iniezione di cultura. Il Pensiero ospitale, in tutte le sue declinazioni, regnerà per un mese (fino al 14 ottobre) in sette città dell’Emilia Romagna. Sette “palestre” nelle quali una sessantina di studiosi di fama internazionale si alterneranno per raccontare il futuro. Questo è il tema della settima edizione.

Futuro declinato in tanti modi seguendo un filo logico che parte da Bologna con Parole, Immagini e Memoria, passa per Parma, il 22 settembre, con Fiducia, Futuro e Sostenibilità; si dirige, il 24, a Ravenna per affrontare un tema gigantesco, Conosci te stesso, per poi arrivare a  Ferrara il 6 ottobre con Maestri, ripartire per Reggio Emilia il 7 con Osa Sapere, l’8 a Vignola  per parlare di Tradizione e Traduzione e chiudere, il 14, a Modena con Tolleranza e Raccontare la Storia.  Continua a leggere

Giovani e Musica: sogni, aspettative, ansie e tanta voglia di raccontare

Martina Conti

I ventenni e la musica. Cosa li spinge a vivere di note? Quali le aspirazioni artistiche e culturali in un mercato discografico – almeno in Italia – piuttosto verticalizzato su generi commerciali tutto sommato banali e artefatti? Sono domande che mi faccio da un po’. Così, grazie alle tante segnalazioni che ricevo ogni giorno, ho individuato due ragazzi che stanno muovendo i loro primi passi in questo mondo così apparentemente libero grazie ai social, ma in realtà sempre piuttosto chiuso. Si chiamano Daniele Delogu, in arte NILO, 21 anni appena compiuti, di Sassari, e Martina Conti, 22 anni, veneta della provincia di Treviso. Continua a leggere

Eugenio Rodondi, i cantautori e il narcisismo dell’artista

Torno a parlarvi ancora di cantautorato italiano e lo faccio attraverso un artista che ha l’appeal e il physique du rôle del musicista anni Settanta. Si tratta di Eugenio Rodondi, classe 1988, torinese. Ha pubblicato tre singoli che fanno parte di un disco che uscirà dopo l’estate, molto interessanti per il lavoro concettuale che sta alla base, che lui ha definito una «provocazione gentile»: mettere in primo piano la canzone – e il suo significato – e non l’artista che l’ha scritta. Come? Facendola interpretare da voci completamente diverse dalla sua. Lavorare sulla centralità del brano a dispetto dell’ego dell’artista, annullare il personaggio per dar vita alle parole. Continua a leggere

Michele Macchiagodena, Termoli Jazz e le derapate

Michele Macchiagodena – Foto Paolo Lafratta

In quest’estate strana e bollente, mentre i giornali sono impegnati nel narrare la sostanziosa “political crime” accaduta proprio nel Quintilis Iulius romano, mese dedicato a Giulio Cesare, con tanti possibili colpevoli e colpi di scena “splatter” degni del miglior Joe R. Lansdale, su Musicabile vi sto raccontando alcuni dei numerosi festival musicali che la stagione estiva per fortuna mette a disposizione. Scelti perché a parlare è la musica prima degli artisti, e questo, ormai avete imparato a conoscermi, mi attira particolarmente. Continua a leggere

Vezzoso-Collina: a Porciano con “Kind of Vasco”

Naturalmente Pianoforte, Festival nel Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna

Una domenica di bella musica nel Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, sull’Appennino Tosco-Emiliano, il penultimo appuntamento (l’ultimo sarà il 27 con Ludovico Einaudi) di una sei giorni di un Festival molto interessante per la sua costruzione musicale grazie alla direzione artistica di Enzo Gentile, organizzato dall’Associazione culturale PratoVeteri di Pratovecchio Stia. Oggi alle 5 del mattino, alla Pieve di San Pietro di Romena, Adam Kromelow ha presentato il lavoro dei Genesis Piano Project, progetto iniziato alcuni anni fa con un altro pianista, Angelo Di Loreto, purtroppo mancato due anni fa. Adam lo abbiamo incontrato al festival Ahymé di cui vi ho parlato recentemente in questo post, intervistando Giovanni Amighetti. Continua a leggere

Antonio Faraò, il cuore eclettico della musica al GaiaJazz

Antonio Faraò – Foto Marco Glaviano

Mi trovo per lavoro a Chianale, in Val Varaita, sopra Cuneo, a pochi chilometri dalla Francia. Un borgo a 1800 metri d’altezza, lì vicino il confine, appena 22 abitanti, la metà giovani che hanno scelto di costruirsi la vita qui, mettendo a frutto studi, competenze, aspirazioni. Parlano l’occitano, lingua romanza diffusa tra Francia Piemonte, Liguria e, in un’enclave, anche in Calabria. Danzano nelle tante feste estive al passo dei suoni tradizionali, l’organetto diatonale e la ghironda, un cordofono d’origini antichissime…

Dall’altra parte della pianura Padana, nel borgo medievale di Portobuffolè (Treviso), si sta tenendo un festival arrivato al suo decimo anno di vita, il GaiaJazz Musica & Impresa, nato grazie a Dotmob, associazione culturale fondata con l’obiettivo di diffondere la conoscenza delle imprese e delle professionalità che valorizzano il territorio. Il jazz c’entra più di quanto possiamo pensare: caparbietà, cultura, studio, creatività lo rendono sintesi di come dovrebbe essere l’impresa nel nostro Paese. Continua a leggere

Monique Chao: il Subconscious Trio e le forme dell’acqua

Oggi vi racconto una bella storia. Di musica e amicizia, Tre giovani musiciste che si sono conosciute al conservatorio di Milano e che non si sono più lasciate. Una la conoscete già, ve ne ho parlato spesso, si chiama Francesca Remigi, batterista talentuosa che dopo un perfezionamento alla Berklee School of Jazz di Boston ha deciso di vivere negli States, a New York. L’altra è una ragazza bulgara, Victoria Kirilova: il suo strumento è il contrabbasso che suona meravigliosamente, vive e lavora a Vienna. Last but not least, una cantante e pianista taiwanese, Monique Chao, che ha scelto Milano come casa. Continua a leggere

La casa armonica di Valerio Corzani ed Erica Scherl

La musica che cattura l’attenzione e dà emozioni è quella che vive nei piccoli particolari. Basta un accento, un semitono, un effetto. Una sensazione che ho provato fin dalle prime note ascoltando Valerio Corzani ed Erica Scherl, gli Interiors, nel loro ultimo lavoro, Overtones + Overtones Remix.

Il nome che si è dato il duo è quanto mai calzante rispetto alla loro idea di musica e, soprattutto, di questo nuovo album. Interni, che possono essere luoghi fisici o mentali. Luoghi, come li intendeva il filosofo Heidegger nei suoi studi ontotopologici, che coincidono con l’edificare e, dunque, l’abitare. Costruire e mettere a dimora la musica è un’immagine che veste perfettamente in Valerio ed Erica.

Vediamo innanzitutto la costruzione fisica di questo nuovo luogo nei luoghi battezzato Overtones: un doppio album, composto da 14 brani originali, dove il duo si avvale di collaborazioni molto azzeccate, da Luca Andriolo, aka, Swanz the Lonely Cat, autore ed esecutore del testo in More Overtones, Luigi Cinque che suona il sax digitale, il mitico Massimo Martellotta, tastierista dei Calibro 35, il batterista e percussionista Marco Zanotti della Classica Orchestra Afrobeat, le chitarre del polistrumentista Massimiliano Amadori, il clarinettista Gianfranco De Franco e l’ukulele di Camilla Serpieri. Questo il primo disco. Il secondo presenta nove remix dei brani precedenti, realizzati dal gotha dei producer italiani Filoq, Vinx Scorza, Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra, DLewis e Francesco Colagrande. Ciò a significare che la musica può (e deve) rivivere in molti modi, avere più anime, più punti di vista…

La casa è, dunque, solida, ricca di domotica ma dalle robuste pareti classiche, jazz e contemporanee, dove l’elettronica e il digitale si inseriscono in modo omogeneo. La bravura del duo sta proprio nell’equilibrio tra musica analogica ed elettronica. Una dimora senza spigoli, piena di curve armoniche, come sarebbe piaciuta all’architetto Niemeyer! 

Il pezzo d’apertura di Overtones, Little Lullaby è giustamente il manifesto più evidente di quanto vi sto raccontando: il violino di Erica surfa su onde sonore, mentre il basso “dub” di Valerio scandisce il percorso con profondità assolute, accompagnati da una voce femminile, sciamanica… Il violino tesse melodie anche in More Overtones, con la voce di Luca Swanz Andriolo che ci mette la ruvidezza e il pathos del compianto Mark Lanegan… Grazie per la citazione!

Come faccio sempre, per darvi un’identità il più possibile completa degli artisti e degli album che vi presento, li ho contattati. Ne è uscita una interessante chiacchierata a tre su musica, tendenze, elettronica…

Valerio, in attesa che si colleghi Erica, gran bel disco!
«Grazie! È il quarto del nostro sodalizio (gli altri tre sono Liquid, 2013, Plugged, 2016, ed Escape from The War, 2019, ndr). Anche noi siamo contenti, perché lo sentiamo più maturo, siamo riusciti a calibrare ciò che volevamo fare, poi magari può non piacere lo stesso. La poetica che avevamo sognato sta in equilibrio, sia la parte melodica, sia quei piccoli tocchi di noise che arrivano improvvisi. Il glitch c’è spesso, siamo entrambi fan di Arto Lindsay! Ultimamente nei suoi lavori c’è molta melodia ma poi ti arriva quella sciabolata improvvisa che ti stende».

Parliamo di musica elettronica… Aspetta Valerio! Sta arrivando Erica, giusto in tempo… Dunque, Erica, sei una violinista classica ma sei anche una musicista curiosa che prende volentieri altre strade. Cosa vedete tu e Valerio in questo genere musicale?
Erica: «Sicuramente non si può dire che il violino non sia uno strumento acustico con poche possibilità sonore, però, nello sposarsi con strumenti elettronici quali il basso o altre diavolerie che usa Valerio, mi sono trovata spesso a provare la necessità di avere un mezzo che riuscisse a rendere le sfumature di cui il violino è capace senza rinunciare ad aspetti relativi al volume e alla varietà di suoni prodotti. È stato un desiderio espressivo, poter esplorare una gamma molto ampia di sonorità diverse con un mezzo che mi supportasse e consentisse esplorazioni nelle quali il violino da solo non è tanto adatto. Niente di rockettaro, come c’è in tanti violinisti elettronici, piuttosto la volontà di spingere lo strumento violino verso linguaggi extra classici».
Valerio: «È stato strano, rispetto alla mia storia, anche per me. Negli anni Novanta ero legato molto alla patchanka: quando suonavo nei Mau Mau venivamo chiamati una tribù acustica, l’elettronica la intercettavamo. In realtà, come Erica, sono sempre stato uno profondamente bulimico quanto a musica. Ho ascoltato e ascolto di tutto. Mi sono laureato con una tesi su John Cage, che con l’elettronica ante litteram ha fatto molte cose. Quando abbiamo deciso di costituire il duo, abbiamo subito concordato che l’elettronica andava approfondita meglio, sia per quanto riguardava il basso elettrico sia per l’uso di strumentazioni digitali che aprono un mondo di possibilità, grazie a una tavolozza timbrica infinita. Senza abusarne, però: se usata con attenzione dà grandi opportunità. Inoltre, volevamo impiegarla dal vivo con un approccio analogico. Sul palco suono molti strumenti, l’iPad, l’iPhone, il laptop. Lo faccio manualmente, sia utilizzando alcune app in sostituzione di strumenti che altrimenti non potremmo portarci dietro, sia con app che producono suoni».

Il vostro essere un duo, violino, basso più elettronica vi fa sentire completi o sentite la mancanza di altri elementi?
Valerio: «Hai fatto centro! Perché dal vivo, d’ora in avanti, saremo un trio! Abbiamo aggiunto Gaetano Alfonsi alla batteria che usa gli strumenti come noi, dosando l’elettronica. Soprattutto live, sentivamo l’assenza di un gioco con le dinamiche». 

Il basso chiama la batteria…
Valerio: «In effetti, abbiamo fatto le prove proprio ieri e ora godo! Erica ed io veniamo da esperienze di “live vero”. Per questo, come Interiors, non adoperiamo due vestiti diversi, uno per il disco e un altro per il live. Chi ci ascolta e viene a vederci dal vivo sente le stesse musiche dell’album. Capisco, ogni tanto succede che vai a un concerto di elettronica e vedi sul palco due che sembrano impiegati delle poste, non sai bene cosa stiano facendo, sono dietro ai computer, ogni tanto bevono un po’ di vino bianco, ti fidi… Nel nostro caso si percepisce che stiamo lavorando, suonando per davvero…».
Erica: «Abbiamo solo quattro arti per ciascuno. Se nella vita normale vanno bene, sono pochi per rendere al meglio la tessitura delle nostre composizioni. Abbiamo sentito l’esigenza di avere  un batterista per i motivi che ti diceva Valerio, ma anche perché volevamo godercela un po’ di più. Di questi tempi non è semplicissimo, più si è e meno semplice è viaggiare. Uno in più però va bene!».

Il vostro “ascoltatore tipo”?
Valerio: «Il violino è un piccolo lasciapassare per gente che non ascolterebbe quello che facciamo, ha comunque un appeal. Stiamo sempre molto attenti a collocare la nostra musica nei luoghi adatti. Abbiamo suonato nei festival del cinema sonorizzando documentari, perché la nostra musica si presta bene anche a questo, ci siamo esibiti nella Grotta del Bue Marino a Cala Gononea Chamois in Valle d’Aosta, dove c’è un bellissimo festival, il CHAMOISic Altra Musica in Alta Quota. Ma anche in gallerie d’arte, o in festival Off e non Off che hanno un perimetro d’azione stilistica piuttosto dilatato. Alla fine la gente è diversificata, il target è comunque abbastanza giovanile, anche se, quando abbiamo sonorizzato i documentari e i super8 sperimentali di Derek Jarman o, quello che stiamo preparando ora, Fata Morgana di Herzog, il pubblico è decisamente molto più anziano. Sono coinvolti, vogliono anche loro entrare nel nostro trip!».

A proposito di trip, la vostra è una musica che fa viaggiare. Quando la concepite avete un’idea del luogo dove vorreste collocarla?
Erica: «Siamo viaggiatori molto appassionati, quindi nel momento in cui componiamo è come se tutte le esperienze di viaggio che abbiamo fatto nella nostra vita – e che si spera faremo – decantassero nella musica. Non ci sono collocazioni precise, è come un altrove generico non vuole avere appartenenze particolari, anche se certe atmosfere potrebbero richiamare alla World Music. Auspichiamo che possa essere la sonorizzazione di un bosco di un laghetto di un mare».
Valerio: «Ci sono alcuni pezzi, tipo Walking Wild, che già nel titolo si portano dietro un piccolo passaporto di attitudine nomade. Non è detto che, componendola, volessimo andare in un posto preciso, abbiamo la stessa attitudine nel cercare la natura selvaggia e nel suggerirla attraverso le note. Così come nel nostro primo disco, Liquid, c’era un’attenzione speciale al mondo liquido. Con il brano Blue Darkness e il relativo video, che mostra il tuffo nel lago di un ragazzo in slowmotion, girato dal regista canadese Justin Bolduc-Turpin (con il quale abbiamo vinto un concorso per musiche che sonorizzavano video con oggetto lacustre), non era un lago preciso, poteva essere il padre di tuti i laghi!».

Veniamo al disco: mi ha incuriosito la zona Remix…
Valerio: «Abbiamo tanti amici, molti hanno suonato anche nella prima parte di Overtones. La nostra idea è stata chiedere, a costo di rischiare, di trasformare un nostro brano in qualcosa di nuovo, come se ci fosse uno sguardo su un tuo sguardo. Filoq, per esempio, musicista che stimiamo moltissimo, è anche il responsabile di tutta la parte elettronica dell’Istituto Italiano di Cumbia, progetto nato per volontà di Davide Toffolo (Tre Allegri Ragazzi Morti, ndr), ha reso il nostro pezzo Walking Wild un’altra cosa, completamente diversa, ci piace molto. La parte Remix è molto più variegata e, allo stesso tempo, ci troviamo le tracce del nostro lavoro».
Erica: «È stata una scommessa, come quando tu chiedi a un pittore che apprezzi che ti dipinga un ritratto: può essere che ti faccia cubista oppure molto verosimile, ma alla fine se ti piace l’artista ti piace anche il ritratto…».

Vi è piaciuto tutto del Remix, dunque!
Valerio: «Ci è piaciuto talmente tanto che due pezzi li abbiamo remixati noi. Massimo Martellotta ci aveva mandato, un po’ in extremis, una parte piuttosto lunga per Due di Due, nel disco principale. Non volevamo sprecare il suo lavoro, quindi abbiamo deciso di remixarla puntando quasi esclusivamente sulle tastiere di Massimo».

Com’è il vostro processo creativo?
Valerio: «Quasi sempre nasce da qualcosa che ho “stropicciato” con l’elettronica o con il basso; poi Erica scrive, molto spesso ci aggiunge la melodia principale. Poi lo teniamo per un po’ in brutta copia, registrandolo con l’iPhone, per averlo sempre a portata di mano. Quando ci spostiamo in studio di registrazione – lavoriamo sempre con il nostro tecnico del suono di fiducia, Roberto Passuti – scatta qualcosa di magico e fila tutto liscio, si lavora intensamente, senza intoppi. È successo così per tutti e quattro gli album. In passato ho ricordi di registrazioni di dischi che diventavano dei calvari, si sfaldavano anche band solo per alzare di due tacche il volume di una chitarra elettrica. In questo caso è quasi sempre piatto, in senso buono però!».

Come vedete la musica italiana in questo momento? Tanti bravi artisti sconosciuti e un mainstream senz’anima…
Erica: «Secondo me è una scena estremamente vitale con un sacco di musicisti pazzeschi. Purtroppo, però, lo sai che esistono se te li vai a cercare. È come se ci fosse una sorta di forbice molto larga tra quello che ascolta la maggior parte delle persone e quella che è la realtà della musica italiana, al di là dei generi molto variegati: e cioè, molta qualità e di altissimo livello. Vorrei invitare tutti a non fermarsi alla superficie delle cose, ma a scavare…».
Valerio: «Sono d’accordo con Erica, ho poco da aggiungere, la vorrei lasciare così, perché lei ci ha messo l’afflato positivo. Volendo proprio dire qualcosina in più, una piccola ombra su quello che è successo negli ultimi tempi è che rimangono sì tantissimi artisti nascosti che continuano a produrre, ma ci sono molti altri, anche quelli che arrivano dal cosiddetto mondo indie, che hanno calato le braghe. È come se si fosse abbassata l’asticella della difficoltà d’ascolto, dell’introspezione nei testi, della ricerca nei suoni. È, ovviamente, una scorciatoia che rende! Se me l’aspettavo da alcuni, perché quello è sempre stato il loro mondo, rimane il fatto che c’è un bel plotoncino di gente che ho avuto sempre al mio fianco e che ha ceduto. Ciò mi provoca un piccolo moto di saudade. Mi riaccodo al sentimento entusiastico di Erica che bisogna continuare a essere curiosi, sia noi musicisti, sia i giornalisti che si occupano di musica e soprattutto mettere dei piccoli “shining” nel pubblico, farglieli arrivare, stai sicuro che la gente si lascia attrarre…».

Erica: «Non me l’hai chiesto ma lo dico lo stesso: se dovessi dare un consiglio a musicisti che hanno voglia di fare musica, suggerisco di essere coraggiosi e curiosi, di curare sempre molto la qualità a qualsiasi genere ci si dedichi. Un lavoro ben fatto si riconosce sempre, anche in molta musica mainstream, nonostante il ben fatto non coincida con creativo. Siccome la felicità in quello che si fa è fondamentale, direi di ricercare sempre un cuore nelle cose che si producono».

Treetops, nuova band, primo disco e tanta buona musica…

Inizio questa settimana con un’interessante novità. C’è acqua fresca sul pianeta della Musica! Una cascata di note pulsante e limpida. Scende a scrosci ed è un refrigerio tuffarsi. Una band nuova nuova al suo primo disco. Una band giovanissima, età media 22 anni. Una band che ha scelto di non fare musica alla solita maniera, tutti infilati in canoni estetici fabbricati per il gradimento di una platea uniformata (ripeto sempre: salvo rare eccezioni), ma facendo ricerca, ascoltando di tutto, aperta al mondo e alle melodie. 

Si chiamano Treetops, sono sette musicisti romani che frequentano ancora i conservatori e scuole di musica. Ve li presento in rigoroso ordine alfabetico: Anna Bielli (alla chitarra), Luca Libonati (alla batteria), Eric Stefan Miele (al sax soprano), Simone Ndiaye (al basso elettrico), Andrea Spiridigliozzi (alla chitarra elettrica), Marcello Tirelli (alle tastiere) e Daniel Ventura (al sax tenore).

Il loro album d’esordio è intitolato Demetra, pubblicato dalla Vagabundos Records e prodotto da Pino Pecorelli (cofondatore dell’Orchestra Piazza Vittorio). Potete ascoltarne un assaggio su Spotify. Divinità greca, secondo Esiodo, figlia di Crono e di Rea, sorella di Estia, Era, Zeus, Posidone e Ade. Una dea importante, da gotha dell’Olimpo: era la protettrice delle messi e, in senso più ampio della Natura. Ebbene, la creatività dei Treetops ha dato vita a una storia fantasy dove a raccontare sono le note: Demetra si risveglia  dopo millenni e trova un mondo cambiato, inquinato, decisamente poco vivibile. 

Il disco, composto da 11 brani per una durata di 47 minuti, concettualmente lo si può dividere in quattro parti: il risveglio della dea, lo sconforto davanti a un mondo massacrato dagli uomini, la presa di coscienza e la speranza proveniente dalla dea stessa, e cioè la Natura, di dare un’altra chance a questi abitanti sciamannati. La vicenda mitologico/sci-fi è raccontata con una intensità e una maturità molto concreta.

Finalmente, grazie ad Apollo!, è arrivato sugli scaffali digitali e presto lo sarà anche su quelli fisici, un lavoro di ampio respiro, interessante che ricorda la freschezza degli anni di sperimentazione, della fusion, della ricerca di una musica colta ma allo stesso tempo accessibile a tutti, che alza l’asticella della qualità musicale in questo Paese. Una band che molto probabilmente ha un destino oltre confine, boccone ghiotto per il Nord Europa e per gli Stati Uniti…

Prima di dare la parola ad Anna Bielli, 24 anni, la “portavoce”, come si definisce, dei Treetops (le cime degli alberi, perché solo da lassù puoi vedere com’è realmente il mondo), un’ultima annotazione musicale. Il livello dei singoli musicisti è notevole, come la capacità di creare, scrivere, arrangiare brani che non hanno nulla da invidiare, per esempio agli Snarky Puppy, uno dei miti di questi giovani artisti, capaci di praterie sonore alla Bob James, di colore alla Pino Daniele, e di costruzioni sonore alla Weather Report. 

Anna, raccontami, di voi so poco o nulla…
«Siamo tutti romani. Io e Marcello, il tastierista, frequentiamo il Saint Louis College of Music. Ci siamo conosciuti lì, suonavamo insieme in un laboratorio musicale. Abbiamo scoperto che avevamo gusti simili e abbiamo legato. nel frattempo io avevo dato vita a una  band che si è sciolta subito. Ho convinto Marcello a formare una band. Lui è un genio, davvero imbarazzante da quanto è bravo! Cercavo un gruppo che fosse affiatato, che avesse delle affinità…, che volesse suonare sull’onda degli Snarky Puppy, della fusion e del jazz. Così sono nati i Treetops».

Ho capito: sei l’anima del gruppo…
«No no. Sono solo la portavoce. Sono stata quella che ha messo insieme tutti».

Da ragazzina cosa ascoltavi, jazz?
«Ma no! Ero una rockettara… poi mi è capitato sotto mano un disco degli Snarky Puppy che mi hanno folgorata! Per “colpa” loro ho deviato verso il jazz rock…».

Quindi, tornando alla band…
«Marcello suona anche nella Piccola Orchestra di Tor Pignattara, con lui ci sono anche Luca Libonati, il batterista, e Simone Ndiaje, il bassista. Questo è il nucleo base. La mia idea iniziale non era, però, una band a formazione standard, ma una piccola orchestra con fiati, percussioni. A Roma è difficile trovare tutti ‘sti musicisti, che, per di più, volevamo della nostra età. Un musicista più “vecchio”, avrebbe potuto rompere gli schemi, diventare un catalizzatore. Mi sono messa a cercare mettendo annunci sui social. Un secondo dopo la pubblicazione ha risposto Andrea Spiridigliozzi. Sempre sui social circolavano i nomi di due giovani sassofonisti. Eric Steffan Miele lo conosceva Luca e Daniel Ventura è arrivato via social. Sette è un numero giusto per riuscire a muoverci senza troppe spese…».

Così siete partiti con le prove…
«Apri un capitolo importante: le prove sono un impegno inderogabile, come andare al lavoro o a scuola. Abbiamo iniziato a suonare nel febbraio del 2017. Il nostro giorno consacrato alle prove è la domenica, giornata libera per tutti…».

Come avete deciso il genere musicale?
«Con due fiati nella formazione era scontato che si andasse sulla fusion. All’inizio componevamo brani che erano quasi prog, davvero sconclusionati. Per il disco zero ci ha dato una mano Pino Pecorelli. Con lui abbiamo stretto un legame forte durante il lockdown. È un grande!».

Perché vi siete chiamati Treetops?
«Sono sempre stata una fissata per la Natura. Mi piacciono gli alberi, li abbraccio spesso. Li sento come noi, ci sono molti parallelismi tra uomo e albero. Come noi, sono di varie “razze”, vivono generalmente in comunità, sono convinta che possano provare dei sentimenti. Ci sono alberi più “cattivi”, come le betulle che spingono, arrivano a farsi la guerra, per farsi strada verso il sole e ci sono alberi pacifici che si organizzano in comunità per vivere. E poi, gli alberi tendono tutti verso l’alto, la luce. Mi piace pensare che anche noi umani dovremmo puntare in alto, vedere la nostra luce».

Come sei/siete diventati musicisti?
«Penso che, di base, fin da piccoli avevamo questa propensione. Siamo tutti cresciuti tra gli strumenti musicali, quindi è stato naturale continuare a studiare musica, chi al Conservatorio e chi, come me e Marcello al Saint Louis. Ascoltiamo tanto, non ci mettiamo paletti, classica, jazz, rock, elettronica, sperimentale, funk, punk, anche rap e trap».

Perché avete deciso di dedicarvi alla musica strumentale?
«Il non avere una voce è stata una scelta ben precisa. La musica strumentale permette all’ascoltatore di fantasticare, immaginare senza essere influenzato da un testo. Ciascuno decide come “sentire” quel brano. Nella musica pop e cantautorale la gente si rivede in quello che l’artista canta, in quella strumentale, invece, ci puoi vedere molte cose. È il fascino dell’immaginazione. E poi perché, a livello tecnico, suonare una chitarra o una batteria è più semplice, la voce, invece, è uno strumento chiuso dentro di te. Ora la pensiamo così. Poi vedremo, magari potremo cambiare idea».

Torniamo ai Treetops: posso chiamarti frontwoman della band?
«No, non facciamo musica solipsistica. Io mi vedo come… una guida. Siamo tutti protagonisti allo stesso modo, non c’è una “voce” che vada più alta di un altro, nessuno prevarica. È questa la nostra forza, non c’è egocentrismo. Anche sul palco abbiamo cercato di sistemarci in modo che, visivamente, risultino tutti ugualmente visibili».

Veniamo alla cover: molto bella l’immagine di Demetra che racchiude in sé tuta la purezza della Natura e gli errori dell’uomo in nome della modernità e della tecnologia…
«È stata disegnata da Marco Brancato, lo stesso giovane illustratore che ci aveva creato il logo della band. Rispecchia esattamente quello che volevamo dire. A Marco abbiamo inviato i brani e lui, dopo averli ascoltati, ha realizzato quest’immagine incredibile! Sulla storia di Demetra ci siamo fatti un trip gigantesco. Abbiamo talmente fantasticato che alla fine, grazie a Marco, Demetra è diventata reale. La dea che si sveglia dal letargo, che vede gli scempi compiuti dall’uomo e che decide di ritornare in letargo per lasciare all’uomo, ancora una volta, la speranza e il potere di cambiare le cose. Il finale è aperto…».

Quali sono le vostre aspettative sul disco?
«Lo apprezziamo molto, è un nostro figlio abbiamo impiegato ore e ore per crearlo, un duro lavoro, ci abbiamo messo l’anima. Certo che abbiamo aspettative, speriamo che possa colpire, coinvolgere. Ora puntiamo sui live, è qui che ci esprimiamo al meglio, perché ci ritagliamo un pizzico di libertà. Suoniamo dal vivo veramente, non abbiamo musica campionata. Solo così, sul palco possiamo mostrare tutti i colori della nostra tavolozza».

Nico Morelli e il suo American Trio per rivivere la pizzica in jazz

Nico Morelli – Foto Pino Mantenuto

Il motivo del post di oggi ha un nome, un cognome e anche un indirizzo. Nico Morelli, di Crispiano, paese del tarantino di 13mila abitanti, parigino d’adozione da oltre 20 anni. Residenza: via del Jazz, angolo vicolo della musica popolare. 

Sono affascinato dalle contaminazioni, come mi racontava l’altro ieri Lorenzo Pasini, perché creano sempre qualcosa di nuovo e di interessante. Nico Morelli, di professione pianista e compositore – lavori che con lui diventano sempre viaggi e incanti – è un contaminatore culturalmente attento e creativo. Il centro del suo studio, che dura da molti anni, è fondere la cultura popolare della sua terra, la Pizzica e la Tarantella, con quella del jazz di tradizione americana. 

Due mondi che hanno più punti di contatto di quanti possiamo immaginare. La prova è la musica di Nico. La ragione per cui ve ne parlo è che il pianista tarantino è in tournée in trio con due musicisti americani, il versatile contrabbassista dell’Indiana Hilliard Greene e l’altrettanto fantastico batterista canadese Karl Jannuska. Partito dalla Francia, il Nico Morelli American Trio sarà in Italia da domani e ci resterà sino al 10 maggio, per una serie di concerti fra Taranto, Torino, Andria e Biella. Ne approfitto: per chi sarà a Milano, il 22 maggio, nella cornice di Piano City, Nico suonerà al Magnete, quartiere Adriano…

Ammetto, sono curioso di ascoltare questo trio. Soprattutto di capire come Greene e Jannuska interpretano il folk pugliese rivisto dagli arrangiamenti jazz di Morelli. Il jazz che sposa la pizzica, è un bel matrimonio, se consideriamo quanto, grazie alla Festa della Taranta, il folk pugliese abbia catalizzato l’attenzione di appassionati e musicisti di tutto il mondo. 

Del connubio ne avevo parlato già quando vi presentai l’Orchestra Popolare del Saltarello e il suo ideatore, Danilo Di Paolonicola. Lì c’era più World Music, qui è più espressamente un linguaggio jazz, la ratio comunque non cambia. Il progetto che i tre musicisti stanno portando in giro lo si può spiegare con un neologismo che l’artista tarantino ha coniato ormai da da anni, Un(folk)ettable (che poi è il titolo di due suoi album, Un(folk)ettable, del 2007 e Un(folk)ettable Two del 2016: vi invito ad ascoltare alcuni brani). E cioè, ridare freschezza e attenzione, attraverso nuovi spunti e sonorità, alle canzoni tradizionali, creando così un qualcosa di nuovo, potente, allegro. C’è festa, danza, canto, poesia in tutto questo. Una carica vitale che non può lasciare indifferenti.

Ho raggiunto telefonicamente Nico in una delle tappe francesi del suo tour…

Jazz e pizzica hanno origini “comuni”?
«Sono due generi che nascono dal popolo. Il jazz si è arricchito di musiche provenienti da tutto il mondo, in un secolo il suo sviluppo è stato enorme. La musica folk del Sud Italia è rimasta pressoché uguale, anche se poi negli anni ha subito delle mutazioni. Unirli non è una forzatura, anzi, con il jazz il folk pugliese si è sviluppato più armonicamente».

Quando hai deciso di dedicare il tuo studio e lavoro al folk-jazz?
«L’idea mi era venuta negli anni Ottanta da una domanda che mi ero posto (sono uno che se le fa per qualsiasi cosa!): che senso ha che un pugliese si appassioni al jazz? Non è più naturale cercare di seguire la mia cultura? Allora non avevo una risposta perché ero acerbissimo, disponevo ancora degli strumenti per poter realizzare la mia idea. E cioè, seguire la mia passione, che era il jazz, mantenendo salde le mie radici culturali. Nel 2006 ho cominciato a scrivere il primo album Un(folk)ettable, solo che era difficile trovare una casa discografica disposta a pubblicarti».

L’hai trovata poi…
«Sì, in Francia, dove sono molto più attenti e aperti a questi generi. Dopo quel lavoro ho capito che potevo e dovevo continuare su quella strada».

Suoni da anni con jazzisti di tutto il mondo, com’è sentita la tua musica?
«Per i jazzisti è sempre qualcosa di estremamente stimolante, son ben felici di uscire dai binari classici del genere e sempre ben disposti ad aprirsi ad altre culture. Il rapporto con la musica deve essere sempre di “scoperta”. I musicisti, soprattuto quelli d’Oltreoceano, quando ascoltano i miei lavori hanno un atteggiamento di estrema curiosità. Vogliono conoscere tutto su pizzica e tarantella, avere più informazioni possibili, che puntualmente fornisco attraverso storie che racconto sempre con piacere».

Il tuo ultimo album pubblicato, Un(folk)ettable Two, risale a sei anni fa…
«Non avverto tutta questa urgenza di produrre dischi. Perché una volta sugli scaffali fisici e virtuali, dopo 15 giorni dall’uscita sono già dimenticati da tutti».

A cosa serve allora fare un album?
«A fissare un percorso e farlo diventare un biglietto da visita del mio lavoro. Da anni ormai il disco ha perso quella funzione che aveva e che lo rendeva unico e cioè essere opera d’arte. Oggi viene prima la visibilità del musicista non la sua musica».

Parliamo del tour: come l’hai costruito?
«Suoniamo arrangiamenti di musiche del folk pugliese e mediterraneo. Ho preso melodie e ritmi di queste canzoni dando loro sonorità da trio che tengono conto delle personalità dei musicisti che mi accompagnano. A volte c’è più jazz e meno folk, altre il contrario».

Dove stai concentrando le tue ricerche folk?
«Soprattutto nel Salento, dove sono nato. Da adolescente sono cresciuto ascoltando Pino Daniele, per me un esempio, una chiave importante: scrivere canzoni su idee tradizionali aggiungendo tocchi di modernità».

Come sei diventato musicista?
«Da bimbo studiavo pianoforte un po’ controvoglia, tanto che a 11 anni l’ho abbandonato. Poi , da adolescente, sono entrato in gruppi di musica leggera. A 18 anni ho avuto la svolta e mi sono messo a studiare pianoforte al conservatorio. Ma il jazz mi piaceva troppo, quindi ho abbandonato la Classica per concentrarmi su questo genere specializzandomi in varie scuole da Siena Jazz alla Berklee School of Jazz di Boston alla Manhattan School of Jazz di New York e diplomarmi, dunque, in jazz al conservatorio di Bari. Nel 1993 ho pubblicato il mio primo disco, Behind the Window; nel ’98, per una coincidenza, il trombettista Flavio Boltro mi invitò a suonare a Parigi. Decisi di rimanere un mese per vedere com’era il mondo degli artisti nella Ville Lumière. Ne ho conosciuto molti, venivano da tutto il mondo, Argentina, Brasile, Nord Africa, paesi dell’Est e del Nord Europa. Tanti mondi diversi con cui ho collaborato, mettendo nella loro musica anche un po’ della mia storia e viceversa. Ho fatto un periodo di spola tra Italia e Francia per poi, 23 anni fa, decidere di vivere a Parigi, dove tuttora risiedo».

Il tuo amore per il jazz è stato un colpo di fulmine?
«No, un processo lento. Mi piaceva il jazz acustico, non riuscivo ad ascoltare gruppi che usavano suoni edulcorati da tastiere. Poi, come ti dicevo, grazie a Pino Daniele è arrivata la svolta, soprattutto quando invitò Wayne Shorter a suonare con lui. Il sassofonista americano mi fulminò perché non aveva un linguaggio canonico. Così comprai un suo disco e scoprii gli Weather Report, Joe Zawinul che ascoltai anche in un album dove suonava il pianoforte, eccezionale! Quindi Oscar Peterson, che all’inizio non mi piacque, avevo bisogno di sentire l’invenzione in tempo reale. Poi, come in una scala, gradino dopo gradino mi sono trovato dentro senza accorgermene. Il jazz funziona un po’ così, come quando bevi un buon whisky, scoprendone a poco a poco i sentori, i profumi, l’intensità, fino ad accorgerti che… sei diventato un alcolizzato! (Ride, ndr)».

Bello (e sano) ubriacarsi di jazz! Cosa ti ha conquistato del genere?
«Il fatto che nella musica popolare ci sia la stessa passionalità che c’è nel jazz. C’è in lui qualcosa di ancestrale come nel folk. Non è musica solo estetica, ma legata allo stomaco, alla terra».