Interviste: il “prossimo passo” di Roberto Occhipinti…

The Next Step. Il Prossimo Passo. È il titolo di un album uscito venerdì scorso firmato da Roberto Occhipinti. Una frase, oserei, lapidaria, che significa molto nella musica. Avanzare, trovare nuove sonorità, raccontare un futuro in note, evolvere, rischiare, rispettare.

Roberto Occhipinti è un canadese, nato a Toronto 66 anni fa, figlio di genitori siciliani di Modica emigrati in cerca di lavoro dall’altra parte dell’Oceano. È un grande contrabbassista e bassista. Viene dalla musica classica – che suona tutt’ora – è passato per la musica contemporanea, ha suonato con i Gorillaz di Damon Albarn e, da sempre, ha una grande passione per il jazz. Compositore e musicista, aperto e gioviale come il sole di quell’isola che considera il suo paradiso. Ha un fratello, Michael, chitarrista jazz di fama mondiale, 54 anni, e un cugino, David, stessa età, altro abile chitarrista. Tutti nati in Canada, cittadini canadesi ma con anche, in mano, il passaporto italiano.

The Next Step è suonato in trio. Assieme a lui, Adrean Farrugia al pianoforte e Larnell Lewis alla batteria. Per un musicista che ha frequentato le grandi orchestre, il trio è il modo migliore per esprimersi come compositore e arrangiatore. In trio Roberto ha suonato molto, per lo più con musicisti cubani, a partire dal grande Hilario Duran con cui ha condiviso per oltre vent’anni i palchi di mezzo mondo.

Prima di leggere l’intervista telefonica che ho fatto a Roberto, qualche annotazione sul disco. Un lavoro molto bello, appassionato, dove il contrabbasso viene suonato con grande tecnica perché Occhipinti passa dall’archetto alla percussione con grande naturalezza, anzi li suona contemporaneamente: la formazione classica e contemporanea viene fuori di prepotenza. L’improvvisazione non è mai esasperata, tutto calibrato tra il pianoforte di Farrugia e la batteria di Lewis che si dedica a un complesso lavoro ritmico.

Nove brani, in tutto (54 minuti e 65 secondi), sei di questi scritti da Roberto e tre riarrangiati. Il primo è di Alessandro Scarlatti, il musicista barocco con natali siciliani (sarà un caso?): O Cessate di Piagarmi, trasposto in jazz, con la voce di Ilaria Crociante, un adagio trasformato in un piccolo capolavoro “smooth” ricco di sfumature, con un evocativo assolo al contrabbasso. Il secondo è la rivisitazione di Opus Pocus, brano del mitico Jaco Pastorius, pubblicato sul primo, omonimo disco solista del bassista degli Weather Reports, uscito nel 1976. Un pezzo piuttosto difficile per tecnica di esecuzione che Roberto ha arrangiato senza snaturare la linea di basso. D’altronde Jaco amava suonare il fretless che gli permetteva certe escursioni sonore che Roberto bene interpreta nel contrabbasso… Sempre in Opus Pocus, complimenti ad Adrean Farrugia per come ha sostituito con il pianoforte l’immensa bravura di Herbie Hancock e pure la partitura al sax di Wayne Shorter.

The Peacocks, il terzo, brano, di Jimmy Rowles, è la sintesi della tecnica di Occhipinti di cui vi parlavo prima, corde suonate con l’archetto e percosse per esaltare al massimo il suono poliedrico del contrabbasso, simile a una sezione d’archi. Three Man Crew è il titolo della sesta traccia, ed è un omaggio al  concetto di trio jazz, inteso come luogo fisico e artistico, la perfezione musicale: pianoforte, basso e batteria, cosa volete di più? E i tre non fanno di certo fatica a spiegarne il concetto. Un’intesa complice e divertita di tre amici affiatati che se la raccontano davanti a un buon bicchiere di rosso morbido dai caldi tannini.

Di Occhipinti vi consiglio anche un bellissimo album del 2018 titolato Lei: Music for Solo Bass (2018), dove il musicista sfrutta al massimo la conoscenza dello strumento, per un lavoro iconografico. Altro album da tenere nella vostra collezione di ascolti è A Bend in the River del 2008, in quartetto con David Virelles, pianoforte, Luis Deniz, sax, e Dafnis Prieto alla batteria, dove trovate una bella versione di Naima di John Coltrane. Vi lascio anche un terzo disco che vale la pena ascoltare, ed è Stabilimento (2016), dove c’è un pezzo che mi ha colpito molto, ed è Dom de Iludir, bellissimo brano di Caetano Veloso

Roberto sei un contrabbassista, un compositore, hai un’etichetta discografica (Modica Music), suoni classica, contemporanea, musica latina, afrocubana, jazz e anche rock e hip hop sperimentale, vista l’esperienza con Damon Albarn e i Gorillaz…
«(Ride, ndr). È vero, mi dice in un ottimo italiano con inequivocabile inflessione sicula. Dopo il conservatorio ho iniziato a suonare musica classica nelle grandi orchestre sinfoniche, ho suonato anche in ensemble di musica contemporanea, con Luciano Berio e Salvatore Sciarrino. Però mi piace molto anche il jazz. Ho suonato tanto con musicisti cubani: con Dafnis Prieto e Horacio “El Negro” Hernández, due virtuosi batteristi, sono stato per vent’anni in trio con Hilario Durán, pianista cubano che vive a Toronto… Sono fortunato, perché grazie a tutte queste esperienze ho creato il mio linguaggio musicale».

Apriamo una parentesi: sei nato a Toronto, dove vivi, ma sei figlio di italiani. Così anche Durán, nato a Cuba ma cittadino canadese…
«Credo che Toronto sia la città più multiculturale del mondo. È un luogo effervescente, dove vivono tante etnie diverse, si parlano altrettante lingue diverse. Toronto ha una ricca popolazione di origine italiana che continua a parlare italiano. I miei genitori sono partiti da Modica agli inizi degli anni Cinquanta, per venire qui a lavorare. I Canadesi sono diversi dagli americani: qui praticamente tutti si sentono orgogliosamente canadesi ma anche inglesi, francesi, italiani… C’è sempre un piede in due mondi e credo sia per questo che abbiamo doppie, triple mentalità.  Anche riguardo al cibo siamo così: io mangio a mezzogiorno italiano, la sera tailandese, il giorno dopo cinese, l’altro ancora indiano. Mi piace cambiare, è naturale per me. E come per il cibo è così per la musica. Siamo un popolo cortese, siamo neutrali, c’è da aver paura solo quando giochiamo a hockey!».

Perché il contrabbasso?
Da ragazzo nella biblioteca della scuola ho ascoltato Oscar Peterson (mitico pianista, ndr). Suonava in trio con Ray Brown al contrabbasso ed Ed Thigpen alla batteria. Il contrabbasso di Ray Brown mi ha incantato e grazie a lui ho deciso cosa volevo suonare e cosa sarei diventato».

Hai dedicato un disco al tuo strumento, Lei: Music for Solo Bass
«Tutto è nato perché avevo affittato una casa a Ortigia, Siracusa. Nella chiesa di San Cristoforo c’era una mostra dell’artista romagnolo Mauro Drudi, chiamata “Lei”: (Drudi è un artista che, partito da un volto, quello della Vergine Annunciata di Antonello da Messina, lo ha reinterpretato in diversi modi, tonalità, colori, dipinti su tavola e su tela, ndr). In quella chiesa avevo fatto un concerto e ne ricordavo l’acustica. Così, una volta tornato a casa, a Toronto, ho acquistato un nuovo microfono e l’ho provato da solo, suonando un’oretta, nella cantina di casa mia. Quel lavoro, riascoltandolo, l’ho visto bene come sottofondo alla mostra di Drudi. L’ho inciso e l’ho mandato a Mauro dicendo che poteva usarlo come colonna sonora. Se ascolti bene, c’è anche, a tratti, il rumore di sottofondo della caldaia (ride, ndr)».

Un disco che ho apprezzato molto! La Sicilia, comunque, ce l’hai sempre nel cuore. In Stabilimento, l’immagine di copertina sono le rovine della Fornace Pennisi, sempre di Siracusa…
«Vero, ci andavo a fare il bagno da bambino. Ho iniziato a frequentare la Sicilia da quando avevo sei anni! Scherzo sempre con i miei amici siciliani. Dico loro che sono l’Ultimo dei… Modicani! Allora era sconosciuta, oggi è famosissima perché è diventata uno dei simboli della saga del commissario Montalbano. Mio padre e mia madre se ne andarono da Modica nel 1953. Non perché volevano andare all’estero, ma perché costretti. Non avevano nemmeno il pane per mangiare…».

Rispetto a Toronto l’isola ha un clima più… mite!
«Sono di Toronto ma non ho mai sopportato il freddo! Per questo amo la Sicilia, è una terra ricca di cultura, calda!».

Sei un artista affermato. Hai all’attivo numerosi premi vinti per la tua professione, tra cui ben 5 Juno Awards. Anche tuo fratello Michael ne ha vinti tre…
«Pensa che a un’edizione dei Juno Awards eravamo entrambi candidati, uno contro l’altro. È stato divertente: lui per aver lavorato a un progetto, diventato un disco, sulla musica tradizionale siciliana, basato sul viaggio in Sicilia dell’etnomusiocologo Alan Lomax fatto tra il 1953 e il 1954, The Sicilian Jazz Project, io per il disco A Bend in the River! Siamo una famiglia musicale, è vero! Ma siamo stati anche fortunati di essere nati in Canada. Ai miei tempi, in Ontario, i college avevano l’orchestra sinfonica, la banda e il coro. C’era la possibilità di studiare, e bene, la musica. In Ontario ci sono molte altre famiglie musicali oltre alla nostra! Se fossi nato in Sicilia in quegli anni, sarei finito a fare il mestiere di mio padre, di mio nonno e del mio bisnonno, e cioè, il muratore… Il sistema di studio che avevamo in Ontario era fantastico. Nel corso degli anni, colpa della crisi economica, di altri modi di pensare, i tagli alla cultura sono stati sempre più sostanziosi, con i risultati che vediamo ora, un appiattimento musicale e culturale…».

Comunque in famiglia la musica doveva avere un ruolo importante!
«È chiaro che nella famiglia Occhipinti ci fosse già una propensione allo studio della musica. Ho cugini a New York che fanno i musicisti. Mio padre, come sai, faceva il muratore, scalpellino, ma conosceva l’opera e la cantava! A Modica lavorava anche per il Teatro cittadino, un vero gioiello, contribuiva alla manutenzione e così si ascoltava le opere in cartellone. Sono cresciuto ascoltando tanta musica. Mio papà comprava molti dischi… Ho anche un “figlio musicale” che però non ha avuto le stesse opportunità nostre. Purtroppo non c’è valore oggi per la musica e la cultura…».

C’è molto appiattimento, tanta banalità nel mainstream…
«Vero, però in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna sto vedendo una generazione preparata e colta, con un livello musicale altissimo che sta cercando di uscire allo scoperto. Io, mio fratello, mio cugino abbiamo frequentato l’Humber College, istituto prestigioso, l’equivalente del Berklee College of Music di Boston. Questi ragazzi vengono dalle stesse scuole… In più, i giovani, grazie alla tecnologia, hanno informazioni che noi non avevamo prima, tutto gira molto più velocemente».

Roberto raccontami dei Gorillaz e di Damon Albarn…
«Si parla di vent’anni fa, al primo tour dei Gorillaz in Nord America. Il loro bassista, un jamaicano che aveva avuto problemi non risolti con la giustizia americana, venne arrestato non appena misero piede a Toronto La band si trovò inguaiata e Albarn iniziò a cercare convulsamente un sostituto. Grazie a conoscenze, allora i Gorillaz e io eravamo sotto contratto della stessa casa discografica, la EMI, arrivarono a me. Per farla breve, mi ascoltarono, eseguii la partitura dei loro brani e mi ritrovai sul palco senza aver ascoltato il disco che stavano portando live. Con loro ho fatto praticamente tutta la tournée americana e tra di noi s’è creata una vera amicizia. Damon Albarn successivamente mi ha coinvolto in un progetto musicale in Mali e, grazie sempre a quest’amicizia, ho conosciuto Tony Allen, che faceva parte di un’altra band-progetto di Albarn, The Good, The Bad & The Queen. Ho suonato con Tony, ed è stato un grande onore…».

Scivolo nell’attualità: cosa pensi della guerra di Putin in Ucraina e dell’allontanamento di Valerij Gergiev dalla Scala di Milano?
«Mi ha colpito molto, e con me i canadesi, visto che il mio Paese ospita una grandissima comunità ucraina: qui a Toronto quasi tutti hanno un amico/a ucraino/a. Sono stato in Russia a suonare e incidere tre volte e ti devo dire che è un Paese stranissimo. Il mio primo maestro di contrabbasso classico, Joel Quarrington, oggi uno dei più grandi contrabbassisti classici del mondo, conosce piuttosto bene Valerij Gergiev, il direttore d’orchestra molto amico di Putin. So che in Italia s’è sollevato un caso per il suo allontanamento dalla Scala perché non s’è dissociato da questa guerra. Credo che noi musicisti dobbiamo prendere posizione, non sono d’accordo che la musica sia altro. La musica fa parte della vita e i musicisti devono dire che c’è qualcosa che non va in tutto questo, dobbiamo marcare una linea sulla sabbia oltre la quale non si deve andare. Per quello che sta succedendo oggi e per come s’è comportato, devo abbandonare tutto il rispetto che ho per Gergiev. È una questione di umanità e non di politica».

Roberto, porterai in Italia il tuo The Next Step?
«Ora è molto difficile. Vorrei venire in Europa, ci sarebbe il Jazzahead! in Germania a fine aprile (quest’anno la kermesse di Brema incontrerà il jazz canadese, ndr). Sto comunque cercando di organizzare per settembre, magari direttamente in Italia!».

Grazie del tuo tempo Roberto, spero di sentirti presto…
«Aspetta, aspetta, prima ti faccio un regalo, un secondo di pazienza…».

Rumori di sottofondo, poi arriva il suono del contrabbasso. «Lo senti?», mi urla. «Sì, sì, forte e chiaro!», rispondo. Un paio di minuti di musica, tutta per me! Che emozione… «È Chelsea Bridge di Billy Strayhorn! Ora ti lascio, stasera ho un concerto…».

Alessandro Gottardo: musica e disegno? L’arte primordiale

Alessandro Gottardo (Shout) – Foto di Nicola Boccaccini

Musica e fumetto. Musica e graffiti, Musica e illustrazioni. Sembra un’attrazione fatale, arte su arte, a comporre il puzzle perfetto. Complementari – se si pensa bene, come fa notare Alessandro Gottardo, aka Shout, classe 1977, friulano di nascita e milanese d’adozione, famoso quanto talentuoso e creativo illustratore che collabora con testate prestigiose, da Time a The New Yorker – musica e disegno insieme da sempre, in quanto “arte primordiale”. Ho fatto una lunga chiacchierata con Alessandro proprio su questo tema, apparentemente semplice, in realtà molto sfaccettato.

Perché, se la “banana” di Andy Wharol per la cover dei The Velvet Underground & Nico è storia, come le centinaia di comics pubblicati in tutto il mondo sulle avventure e canzoni dei Beatles, le illustrazioni che accompagnano gli album di artisti e rockstar oggi sembrano meno incisive, anzi, poco interconnesse. Insomma, operazioni piuttosto “fredde”. Non sono tutte così, ovvio, a generalizzare non si fa mai un buon servizio, ma quel famoso “matrimonio perfetto” sembra aver perso slancio e creatività… Certo è che l’uso delle illustrazioni “graffitate” sono sempre più frequenti per arricchire singoli pezzi e album urban. Anche un certo cantautorato “colto” ritorna alle illustrazioni, vedi il video illustrato da Clelia Catalano per Mammut, nuovo brano del romano Gimbo…

Musica e disegno (fumetto, graffiti…) da sempre si attraggano. Perché?
«Mia figlia, che ha 3 anni, da quando è nata disegna e balla. Come tutti: fin da bambini il disegno e la musica sono le cose che impariamo per prima e quasi in contemporanea. Mi piace pensare che la connessione tra le due arti sia, quindi, primordiale».

Le cover accese dei Gorillaz, l’uso dei graffiti nel mondo rap, le astrazioni dei Depeche Mode e, ancor prima, Beatles (protagonisti di centinaia di fumetti in tutto il mondo) e Pink Floyd: l’immagine racconta la musica, è un’anteprima di quello che si troverà nell’album, o sono solo vezzi, mode?
«C’è stata una corrente di copertinisti negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso che hanno fatto storia. Penso a Milton Glaser, Andy Wharol o Alton Kelley, ma di esempi ce ne sono davvero tanti. L’arte della cover rappresentava non solo la musica contenuta nell’album ma anche il momento storico in cui quell’album e quella musica nascevano. Non erano sicuramente vezzi, ma un matrimonio, e spesso felice. Pensiamo alla banana di Wharol appunto, o alla linguaccia di John Pashe. I Grateful Dead testimoniavano con la loro musica la scoperta dell’LSD, il suo impatto nelle loro vite. La psichedelia e tutto il movimento culturale che ne è derivato poi esplodeva nelle copertine di Kelley. Da noi c’è stato Andrea Pazienza che ha firmato molte cover, penso, ad esempio, a quelle di Roberto Vecchioni (Montecristo, Il Grande Sogno, Vorrei…) o della PFM (Passpartu). Oggi gli esempi sono più rari, credo si sia persa la volontà di produrre arte dentro e fuori il disco. La cover dei Gorillaz ha delle caratteristiche, in chiave pop, che ricordano le grandi collaborazioni del passato tra musica e arte, ma meno nobili, mi pare. Chi usa l’arte oggi nelle cover degli album lo fa principalmente come operazione di marketing. Non penso ci sia più la volontà di fare un progetto artistico a 360 gradi».

“Pace”

Tornando a musica e disegno: sono un’unione “naturale” o “forzata”?
«È naturale, sicuramente. Come dicevo in risposta alla tua prima domanda è qualcosa che abbiamo dentro, e non importa se uno ha attitudine al disegno o alla musica, se uno ha talento o meno. Il fatto di poter godere di un bel disegno o di una bella musica, nel vederlo, nell’ascoltarla o nel praticarla, a prescindere dal risultato finale, è qualcosa che appartiene a tutti fin da bambini».

Che rapporto hai con la musica? Quale ti piace?
«Mentre lavoro ascolto molta musica jazz. Musica strumentale, Bill Evans, Ornette Coleman, Miles Davies, John Coltrane e così via. Talvolta la alterno alla musica elettronica: Nils Frahm, Jonny Greenwood, Olafur Arnalds. Per il resto, quando non lavoro sono abbastanza onnivoro, anche la musica classica mi piace, Mahler in particolare. Quella che non ascolto è la musica pop contemporanea mentre ogni tanto qualche vecchio pezzo del pop anni ’70 non mi dispiace».

Hai brani o artisti “tuoi” che ti accompagnano nel tuo lavoro?
«Ho delle playlist sì, le ho composte con Spotify. Jazz, Classica, Elettronica, Funk, Bossa Nova, R&B e via dicendo… ma sicuramente la compilation Jazz è quella che ascolto di più, tutti i giorni. Un pezzo che potrei ascoltare all’infinito è Take five dei The Dave Brubeck Quartet, così come Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davies e Naima di John Coltrane».

“Il Mestiere di Scrivere”

Hai disegnato molte cover di dischi? Ricordo la girella di liquirizia dei Santa Margaret…
«Sì, esatto, ho collaborato con Stefano Verderi e Angelica Schiatti. Stefano aveva in mente proprio quello di cui parlavamo prima, voleva un progetto a 360 gradi, musica e arte a braccetto a rappresentare una cosa unica. È stata una collaborazione bella anche dal punto di vista umano. Poi ho collaborato con Paolo Fresu a un paio di cover, LP e CD. In quei due casi erano riadattamenti di miei lavori d’archivio. Non erano stati fatti originalmente per Paolo, ma sicuramente, dato il mio amore per il jazz, è stata una collaborazione che mi è piaciuta molto. Per di più ero fan di Fresu ben prima di lavorarci insieme. È stato bello ritrovarsi in quelle due occasioni. Poi ho realizzato alcuni poster di festival musicali. Se in futuro capiteranno altri LP da illustrare ne sarò felice, ma penso che ora le dinamiche di marketing vogliano in copertina la cosa che ha più potenzialità di far vendere il disco che, nove volte su dieci, è la faccia del musicista».

A proposito di Paolo Fresu: ti ha coinvolto in un progetto che sta preparando per il decennale della Tǔk Music, la sua casa discografica…
«Ho contribuito alla preparazione di un docufilm prodotto da Ferdinando Vicentini Orgnani e Roberto Minini Merot, che Fresu presenterà al JazzMI a novembre. Nelle intenzioni di Paolo si tratta di un racconto corale fatto dalle tante voci che hanno collaborato negli anni con la sua etichetta, musicisti, illustratori, artisti visivi, grafici, videomaker, uffici coordinatori, agenti, uffici stampa. Insomma, proprio tutti, un puzzle fatto di musica, arte e green…».  

La copertina di Time – “Space”

Cosa rappresenta per te l’illustrazione? La tua è una narrazione apparentemente semplice, in realtà, piuttosto complessa… spinge il lettore a “impegnarsi” su più piani di lettura…
«Tempo fa su Post.it scrissi nel mio blog (che però ora ho chiuso) da dove veniva la mia passione per la narrazione. Soprattutto da adolescente, questa mi ha salvato. Mi riferisco a quella letteraria. Ero un tipico adolescente insicuro, afflitto dall’acne giovanile che la viveva molto peggio di quanto non fosse in realtà. Mi rifugiai nei libri. Pensai: “non può essere tutto solo forma. Non posso essere condizionato dal mio aspetto”. Il primo libro che affrontai con questo stato d’animo fu Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, non penso vi sia un romanzo migliore di quello per un 15enne che affronta una crisi adolescenziale legata al proprio aspetto fisico. Poi ho letto tutto Kundera, da Immortalità in poi, quindi Goethe, Schnitzler e molti, molti altri. Al punto che, a 20 anni, mi iscrissi anche a dei corsi serali di scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Facevo avanti e indietro da Milano due volte la settimana, tornavo che era quasi mezzanotte. Ricordo il freddo delle giornate di febbraio, la fame perché saltavo i pasti, e la stanchezza dell’andare avanti e indietro, ma fu un periodo meraviglioso. Capii che scrivere era un lavoro complesso per la quale non avevo abbastanza talento, ma realizzai che avrei potuto comunque raccontare storie tramite i miei disegni, dove di talento ne avevo a sufficienza. Fu così che diventai illustratore. Per rispondere alla tua domanda, per me l’illustrazione rappresenta il mezzo per raccontare una storia con un unica immagine».

Perché hai scelto di chiamarti “Shout”?
«Era il titolo di una mia illustrazione per un nuovo portfolio di immagini realizzato nel 2005. Non c’è un motivo, suonava bene, volevo dare una svolta al mio linguaggio illustrativo e ho scelto di presentarlo con uno pseudonimo di modo che non si confondesse con ciò che avevo fatto sino ad allora e che firmavo con il mio nome vero».

“Prima”

Ancora sul tuo lavoro: perché secondo te l’illustrazione nella stampa non è tenuta così in considerazione in Italia, mentre è un valore aggiunto nei Paesi anglosassoni? Vedi The New Yorker, NYT, Monocle
«Bella domanda. Faccio questo mestiere da 20 anni, produco circa 200 illustrazioni all’anno ma non con l’Italia… A dire il vero alcuni miei colleghi lavorano molto con il nostro Paese, io invece ho fatto una scelta esterofila già nel lontano 2003, dopo le prime esperienze con alcuni periodici italiani e dopo dei lavori mal pagati e mal capiti. Una volta trovata l’America, non mi sono più voltato indietro e non ho fatto nulla per promuovere il mio lavoro da noi. Per cui, magari, è anche colpa mia. In ogni caso ho una teoria: l’illustrazione, a differenza del fumetto  o delle vignette, è l’arte commerciale che si avvicina di più all’arte tradizionale, e proprio per questo motivo, come succede quando con il digitale tenti di replicare un volto umano realistico, più ti ci avvicini alla verosimiglianza più ti disturba. Nel nostro paese chi osserva un’illustrazione fa fatica a incasellarla e questo la rende dimenticabile. O è Arte o è nulla. Per cui penso sia un’arte non capita. Io, per esempio, non vivo il mio lavoro come un’arte ma come un mestiere. Forse basterebbe non prenderla troppo sul serio, accettarla per quello che è, non è fumetto, non è vignetta, non è Arte, è illustrazione. È arte commerciale che richiede molta creatività».

“Tourette”

Dunque, cos’è per te l’arte? In alcune interviste hai detto che non ami definirti un artista. Perché? Mi riallaccio alla musica: secondo te è sempre e comunque arte?
«Sai, ritengo che dal momento in cui realizzi un lavoro a pagamento, su commissione, l’onestà intellettuale alla base del lavoro che stai eseguendo è già stata viziata. Meglio, quindi, mettere da parte l’idea di fare arte e, semplicemente, fare il bravo professionista, che è cosa comunque degnissima a mio avviso. Ammiro chi fa il proprio lavoro bene, qualunque esso sia. Alcuni mi hanno replicato: “E gli artisti rinascimentali, allora? Lavoravano su commissione!”… Ho risposto: “Vuoi davvero paragonare un artista rinascimentale che lavorava su temi religiosi di straordinaria importanza con un’illustrazione sull’articolo scritto da “tal dei tali” sul New Yorker?”. All’epoca gli artisti dipingevano tutti le stesse cose, i temi erano i medesimi, solo che ognuno li interpretava a suo modo. Nella religione troviamo i temi più alti per un artista, e cioè,  la vita e, soprattutto, la morte. Io ho illustrato articoli sul diritto all’eutanasia ma non direi che è la stessa cosa. Venendo alla musica: non è sempre arte, così come non lo è sempre un dipinto. Una volta ho sentito Philippe Daverio dire che l’arte è tecnica più poesia, se manca l’uno o l’atra cosa allora non è arte. Idea assolutamente condivisibile, che poi è un concetto dell’arte che deriva dagli antichi greci. Per me l’arte, più in generale, è il nostro punto di vista, una nostra opinione, scevra da qualsiasi condizionamento esterno (penso al denaro, alla fama o all’approvazione), espresso tramite una forma d’arte che possa essere condivisa con gli altri. A mio avviso, non ha importanza se l’opinione espressa sia particolarmente originale o illuminata, l’importante è che sia un’opinione sincera. Alla base ci deve essere l’onestà intellettuale di voler dire qualcosa che sia autenticamente importante per noi. Poi, è chiaro che non tutto può essere salvato dalle generazioni che verranno. C’è arte che sopravvive e arte che verrà dimenticata. Molta viene dimenticata, poca sopravvive. Ma chi produce Arte non se ne deve preoccupare».