Rossella Seno: disponibile il video di “Principessa”

Rossella Seno – Foto Carlo Bellincampi

Ritorno su un’artista di cui vi ho parlato agli inizi di gennaio. Sto parlando di Rossella Seno. Veneziana d’origine ma romana d’adozione, ha pubblicato lo scorso anno, in piena pandemia, un disco per niente banale, interessante sia per la musica sia per i testi, Pura come una Bestemmia. Da alcuni giorni è uscito il video di Principessa, brano scritto da Pino Pavone, lo storico paroliere di Piero Ciampi (artista a cui la Seno è particolarmente affezionata) e musicato da Massimo Germini, chitarrista e arrangiatore.

Il video è un racconto in forma di “comics” della vita di una bella ragazza dai capelli rossi – è la stessa Rossella – disegnato da Stefano Ripamonti e animata da Giuseppe Giannattasio. Lo script della storia è di Davide Iannuzzi.

«Principessa è un brano che mi piace molto», mi racconta Rossella. «Parla dell’invecchiare, condizione umana a cui nessuno può sottrarsi e a cui tutti dobbiamo sottometterci». La storia parte proprio a questo incipit: «Quando si è giovani si pensa di avere tanto tempo a disposizione, invece ci si accorge poi che la gioventù è un lusso».

Un chitarrista-narratore, vede le stagioni passare seduto dentro la scena, che è il palcoscenico di un teatro. Dove la bella dai capelli rossi cammina spensierata, mentre i tratti del suo viso cambiano mano a mano che il tempo ne disegna forme e pensieri. Nel palco della vita, confini brevi e orizzonti lontani, c’è posto anche per un gatto nero, a simboleggiare gli stereotipi e i pregiudizi che si incontrano inevitabilmente lungo il cammino, e un orologio che scandisce inesorabile il passare del tempo, «tema cinematograficamente ispirato alla scena dell’incubo de “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman», ricordano gli stessi autori.

Ultima annotazione: il palcoscenico rappresenta la storia a teatro vuoto. Un riferimento “obbligato” alla situazione attuale, un passaggio della nostra vita. Una ruga in più.

Qui il testo del brano

Amico mio volevo dirti
che la gioventù è solo un’invenzione
che va di fretta come una parola
l’invenzione svanisce poco dopo
con la tristezza diventa come il fuoco
che mi prende dalle gambe
ma allora allora sono grande
e dico grande che può dire tutto
può dire amore amato e poi distrutto
può dire che son stata alla finestra
per vedere chi passa e chi mi resta
e dove vado se tutto si trasforma
in un vortice rosso più profondo
quando comincia e quanto mi fa male
questa giornata di gelo da sputare
diventa fiume diventa indifferenza
il soffio di un randagio sulla mia testa
sulla mia testa
Pensi allora è finita non mi gira
Mi ricordo di quando stavo in fila
mi strofino sul muso di un rimpianto
senza falsi pudori come un gatto
concedo un’alleanza ai miei sospiri
e vado avanti con quello che so fare
con la pazzia di una donna del mio tempo
Amico mio volevo dirti
che la gioventù è solo un’invenzione
che va di fretta come una parola
l’invenzione svanisce poco dopo
con la tristezza diventa come il fuoco
che mi prende dalle gambe
ma allora allora sono grande
e dico grande che può dire tutto
può dire amore amato e poi distrutto
può dire che son stata alla finestra
per vedere chi passa e chi mi resta
e dove vado se tutto si trasforma
in un vortice rosso più profondo
quando comincia e quanto mi fa male
questa giornata di gelo da sputare
diventa fiume diventa indifferenza
il soffio di un randagio sulla mia testa
sulla mia testa
Pensi allora è finita non mi gira
Mi ricordo di quando stavo in fila
mi strofino sul muso di un rimpianto
senza falsi pudori come un gatto
concedo un’alleanza ai miei sospiri
e vado avanti con quello che so fare
con la pazzia di una donna del mio tempo.

Alessandro Gottardo: musica e disegno? L’arte primordiale

Alessandro Gottardo (Shout) – Foto di Nicola Boccaccini

Musica e fumetto. Musica e graffiti, Musica e illustrazioni. Sembra un’attrazione fatale, arte su arte, a comporre il puzzle perfetto. Complementari – se si pensa bene, come fa notare Alessandro Gottardo, aka Shout, classe 1977, friulano di nascita e milanese d’adozione, famoso quanto talentuoso e creativo illustratore che collabora con testate prestigiose, da Time a The New Yorker – musica e disegno insieme da sempre, in quanto “arte primordiale”. Ho fatto una lunga chiacchierata con Alessandro proprio su questo tema, apparentemente semplice, in realtà molto sfaccettato.

Perché, se la “banana” di Andy Wharol per la cover dei The Velvet Underground & Nico è storia, come le centinaia di comics pubblicati in tutto il mondo sulle avventure e canzoni dei Beatles, le illustrazioni che accompagnano gli album di artisti e rockstar oggi sembrano meno incisive, anzi, poco interconnesse. Insomma, operazioni piuttosto “fredde”. Non sono tutte così, ovvio, a generalizzare non si fa mai un buon servizio, ma quel famoso “matrimonio perfetto” sembra aver perso slancio e creatività… Certo è che l’uso delle illustrazioni “graffitate” sono sempre più frequenti per arricchire singoli pezzi e album urban. Anche un certo cantautorato “colto” ritorna alle illustrazioni, vedi il video illustrato da Clelia Catalano per Mammut, nuovo brano del romano Gimbo…

Musica e disegno (fumetto, graffiti…) da sempre si attraggano. Perché?
«Mia figlia, che ha 3 anni, da quando è nata disegna e balla. Come tutti: fin da bambini il disegno e la musica sono le cose che impariamo per prima e quasi in contemporanea. Mi piace pensare che la connessione tra le due arti sia, quindi, primordiale».

Le cover accese dei Gorillaz, l’uso dei graffiti nel mondo rap, le astrazioni dei Depeche Mode e, ancor prima, Beatles (protagonisti di centinaia di fumetti in tutto il mondo) e Pink Floyd: l’immagine racconta la musica, è un’anteprima di quello che si troverà nell’album, o sono solo vezzi, mode?
«C’è stata una corrente di copertinisti negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso che hanno fatto storia. Penso a Milton Glaser, Andy Wharol o Alton Kelley, ma di esempi ce ne sono davvero tanti. L’arte della cover rappresentava non solo la musica contenuta nell’album ma anche il momento storico in cui quell’album e quella musica nascevano. Non erano sicuramente vezzi, ma un matrimonio, e spesso felice. Pensiamo alla banana di Wharol appunto, o alla linguaccia di John Pashe. I Grateful Dead testimoniavano con la loro musica la scoperta dell’LSD, il suo impatto nelle loro vite. La psichedelia e tutto il movimento culturale che ne è derivato poi esplodeva nelle copertine di Kelley. Da noi c’è stato Andrea Pazienza che ha firmato molte cover, penso, ad esempio, a quelle di Roberto Vecchioni (Montecristo, Il Grande Sogno, Vorrei…) o della PFM (Passpartu). Oggi gli esempi sono più rari, credo si sia persa la volontà di produrre arte dentro e fuori il disco. La cover dei Gorillaz ha delle caratteristiche, in chiave pop, che ricordano le grandi collaborazioni del passato tra musica e arte, ma meno nobili, mi pare. Chi usa l’arte oggi nelle cover degli album lo fa principalmente come operazione di marketing. Non penso ci sia più la volontà di fare un progetto artistico a 360 gradi».

“Pace”

Tornando a musica e disegno: sono un’unione “naturale” o “forzata”?
«È naturale, sicuramente. Come dicevo in risposta alla tua prima domanda è qualcosa che abbiamo dentro, e non importa se uno ha attitudine al disegno o alla musica, se uno ha talento o meno. Il fatto di poter godere di un bel disegno o di una bella musica, nel vederlo, nell’ascoltarla o nel praticarla, a prescindere dal risultato finale, è qualcosa che appartiene a tutti fin da bambini».

Che rapporto hai con la musica? Quale ti piace?
«Mentre lavoro ascolto molta musica jazz. Musica strumentale, Bill Evans, Ornette Coleman, Miles Davies, John Coltrane e così via. Talvolta la alterno alla musica elettronica: Nils Frahm, Jonny Greenwood, Olafur Arnalds. Per il resto, quando non lavoro sono abbastanza onnivoro, anche la musica classica mi piace, Mahler in particolare. Quella che non ascolto è la musica pop contemporanea mentre ogni tanto qualche vecchio pezzo del pop anni ’70 non mi dispiace».

Hai brani o artisti “tuoi” che ti accompagnano nel tuo lavoro?
«Ho delle playlist sì, le ho composte con Spotify. Jazz, Classica, Elettronica, Funk, Bossa Nova, R&B e via dicendo… ma sicuramente la compilation Jazz è quella che ascolto di più, tutti i giorni. Un pezzo che potrei ascoltare all’infinito è Take five dei The Dave Brubeck Quartet, così come Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davies e Naima di John Coltrane».

“Il Mestiere di Scrivere”

Hai disegnato molte cover di dischi? Ricordo la girella di liquirizia dei Santa Margaret…
«Sì, esatto, ho collaborato con Stefano Verderi e Angelica Schiatti. Stefano aveva in mente proprio quello di cui parlavamo prima, voleva un progetto a 360 gradi, musica e arte a braccetto a rappresentare una cosa unica. È stata una collaborazione bella anche dal punto di vista umano. Poi ho collaborato con Paolo Fresu a un paio di cover, LP e CD. In quei due casi erano riadattamenti di miei lavori d’archivio. Non erano stati fatti originalmente per Paolo, ma sicuramente, dato il mio amore per il jazz, è stata una collaborazione che mi è piaciuta molto. Per di più ero fan di Fresu ben prima di lavorarci insieme. È stato bello ritrovarsi in quelle due occasioni. Poi ho realizzato alcuni poster di festival musicali. Se in futuro capiteranno altri LP da illustrare ne sarò felice, ma penso che ora le dinamiche di marketing vogliano in copertina la cosa che ha più potenzialità di far vendere il disco che, nove volte su dieci, è la faccia del musicista».

A proposito di Paolo Fresu: ti ha coinvolto in un progetto che sta preparando per il decennale della Tǔk Music, la sua casa discografica…
«Ho contribuito alla preparazione di un docufilm prodotto da Ferdinando Vicentini Orgnani e Roberto Minini Merot, che Fresu presenterà al JazzMI a novembre. Nelle intenzioni di Paolo si tratta di un racconto corale fatto dalle tante voci che hanno collaborato negli anni con la sua etichetta, musicisti, illustratori, artisti visivi, grafici, videomaker, uffici coordinatori, agenti, uffici stampa. Insomma, proprio tutti, un puzzle fatto di musica, arte e green…».  

La copertina di Time – “Space”

Cosa rappresenta per te l’illustrazione? La tua è una narrazione apparentemente semplice, in realtà, piuttosto complessa… spinge il lettore a “impegnarsi” su più piani di lettura…
«Tempo fa su Post.it scrissi nel mio blog (che però ora ho chiuso) da dove veniva la mia passione per la narrazione. Soprattutto da adolescente, questa mi ha salvato. Mi riferisco a quella letteraria. Ero un tipico adolescente insicuro, afflitto dall’acne giovanile che la viveva molto peggio di quanto non fosse in realtà. Mi rifugiai nei libri. Pensai: “non può essere tutto solo forma. Non posso essere condizionato dal mio aspetto”. Il primo libro che affrontai con questo stato d’animo fu Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, non penso vi sia un romanzo migliore di quello per un 15enne che affronta una crisi adolescenziale legata al proprio aspetto fisico. Poi ho letto tutto Kundera, da Immortalità in poi, quindi Goethe, Schnitzler e molti, molti altri. Al punto che, a 20 anni, mi iscrissi anche a dei corsi serali di scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Facevo avanti e indietro da Milano due volte la settimana, tornavo che era quasi mezzanotte. Ricordo il freddo delle giornate di febbraio, la fame perché saltavo i pasti, e la stanchezza dell’andare avanti e indietro, ma fu un periodo meraviglioso. Capii che scrivere era un lavoro complesso per la quale non avevo abbastanza talento, ma realizzai che avrei potuto comunque raccontare storie tramite i miei disegni, dove di talento ne avevo a sufficienza. Fu così che diventai illustratore. Per rispondere alla tua domanda, per me l’illustrazione rappresenta il mezzo per raccontare una storia con un unica immagine».

Perché hai scelto di chiamarti “Shout”?
«Era il titolo di una mia illustrazione per un nuovo portfolio di immagini realizzato nel 2005. Non c’è un motivo, suonava bene, volevo dare una svolta al mio linguaggio illustrativo e ho scelto di presentarlo con uno pseudonimo di modo che non si confondesse con ciò che avevo fatto sino ad allora e che firmavo con il mio nome vero».

“Prima”

Ancora sul tuo lavoro: perché secondo te l’illustrazione nella stampa non è tenuta così in considerazione in Italia, mentre è un valore aggiunto nei Paesi anglosassoni? Vedi The New Yorker, NYT, Monocle
«Bella domanda. Faccio questo mestiere da 20 anni, produco circa 200 illustrazioni all’anno ma non con l’Italia… A dire il vero alcuni miei colleghi lavorano molto con il nostro Paese, io invece ho fatto una scelta esterofila già nel lontano 2003, dopo le prime esperienze con alcuni periodici italiani e dopo dei lavori mal pagati e mal capiti. Una volta trovata l’America, non mi sono più voltato indietro e non ho fatto nulla per promuovere il mio lavoro da noi. Per cui, magari, è anche colpa mia. In ogni caso ho una teoria: l’illustrazione, a differenza del fumetto  o delle vignette, è l’arte commerciale che si avvicina di più all’arte tradizionale, e proprio per questo motivo, come succede quando con il digitale tenti di replicare un volto umano realistico, più ti ci avvicini alla verosimiglianza più ti disturba. Nel nostro paese chi osserva un’illustrazione fa fatica a incasellarla e questo la rende dimenticabile. O è Arte o è nulla. Per cui penso sia un’arte non capita. Io, per esempio, non vivo il mio lavoro come un’arte ma come un mestiere. Forse basterebbe non prenderla troppo sul serio, accettarla per quello che è, non è fumetto, non è vignetta, non è Arte, è illustrazione. È arte commerciale che richiede molta creatività».

“Tourette”

Dunque, cos’è per te l’arte? In alcune interviste hai detto che non ami definirti un artista. Perché? Mi riallaccio alla musica: secondo te è sempre e comunque arte?
«Sai, ritengo che dal momento in cui realizzi un lavoro a pagamento, su commissione, l’onestà intellettuale alla base del lavoro che stai eseguendo è già stata viziata. Meglio, quindi, mettere da parte l’idea di fare arte e, semplicemente, fare il bravo professionista, che è cosa comunque degnissima a mio avviso. Ammiro chi fa il proprio lavoro bene, qualunque esso sia. Alcuni mi hanno replicato: “E gli artisti rinascimentali, allora? Lavoravano su commissione!”… Ho risposto: “Vuoi davvero paragonare un artista rinascimentale che lavorava su temi religiosi di straordinaria importanza con un’illustrazione sull’articolo scritto da “tal dei tali” sul New Yorker?”. All’epoca gli artisti dipingevano tutti le stesse cose, i temi erano i medesimi, solo che ognuno li interpretava a suo modo. Nella religione troviamo i temi più alti per un artista, e cioè,  la vita e, soprattutto, la morte. Io ho illustrato articoli sul diritto all’eutanasia ma non direi che è la stessa cosa. Venendo alla musica: non è sempre arte, così come non lo è sempre un dipinto. Una volta ho sentito Philippe Daverio dire che l’arte è tecnica più poesia, se manca l’uno o l’atra cosa allora non è arte. Idea assolutamente condivisibile, che poi è un concetto dell’arte che deriva dagli antichi greci. Per me l’arte, più in generale, è il nostro punto di vista, una nostra opinione, scevra da qualsiasi condizionamento esterno (penso al denaro, alla fama o all’approvazione), espresso tramite una forma d’arte che possa essere condivisa con gli altri. A mio avviso, non ha importanza se l’opinione espressa sia particolarmente originale o illuminata, l’importante è che sia un’opinione sincera. Alla base ci deve essere l’onestà intellettuale di voler dire qualcosa che sia autenticamente importante per noi. Poi, è chiaro che non tutto può essere salvato dalle generazioni che verranno. C’è arte che sopravvive e arte che verrà dimenticata. Molta viene dimenticata, poca sopravvive. Ma chi produce Arte non se ne deve preoccupare».