Quando si parla di musica brasiliana, quelli della mia “era” – cresciuti tra gli anni Settanta e Ottanta – sono rimasti ancorati ai classici della bossanova (nata alla fine dei Cinquanta) e ai psichedelici Os Mutantes, parte di quel movimento, il Tropicalismo, che ha rivoluzionato la musica brasileira assieme a Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Maria Bethania, Tom Zé… ma anche al rock del mitico Raul Seixas, al punk, quello nato a Brasília con gruppi come i Plebe Rude, per intenderci, ai roqueiros di São Paulo, i Barão Vermelho, i Titãs, a Rio de Janeiro i Paralamas do Sucesso, a Porto Alegre gli Engenheiros do Hawaii, nel metal, i Sepoltura… Insomma, un fermento musicale incredibilmente vario che – almeno a me – ha fatto chiudere occhi e orecchie alla musica venuta dopo.
Il mainstream di oggi è quello del resto del mondo: l’urban nelle sue varie declinazioni, il pop di facile successo alle Anitta, che, sinceramente, mi getta in un profondo sconforto. Tutta questa tirata per dirvi che la mia idea su una musica brasiliana ferma, ripetitiva, poco o per nulla creativa, improntata a quel declino culturale che è arrivato – ed è un paradosso – con i social, ha incominciato a incrinarsi quando ho ascoltato Thiago Nassif.
C’è vita su Marte, ho pensato! Qualcosa di davvero originale, nuovo, profondo, ricercato, raggiungeva l’Europa. Thiago ha 41 anni è nato e cresciuto a São Paulo, si è trasferito a Rio de Janeiro «perché c’è più fermento creativo». Ha pubblicato il suo quarto album, Mente, uscito giusto un anno fa, un disco esemplare che ha seguito un percorso coerente, testimoniato dai suoi precedenti lavori, soprattutto Práxis, del 2011, e Três, del 2016 (rieditato due anni dopo per la casa discografica inglese Foom), coprodotto con Arto Lindsay.
Proprio ieri è stato pubblicato un remix firmato da Cornelius, il musicista, produttore e dj giapponese, di Pele de Leopardo, secondo brano di Mente. Così, dopo mesi che lo seguo attraverso la sua musica, ho deciso di chiamarlo via Meet e intervistarlo.
Lui ha accettato volentieri: «Che bello, l’Italia si sta sempre più interessando a me, con lei ho un legame, una connessione, anche perché mia nonna materna era italiana», mi dice contento, sorseggiando il primo bicchiere di un intero bricco di caffè. Mi incuriosiva conoscerlo anche perché, quando uscì Mente, il New York Times lo inserì in una sofisticata playlist estiva. La recensione del disco terminava con un complimento categorico: “It’s music of nowhere and everywhere, disappearance and arrival, the archive becoming the now”.
Se credete, come io credo, alla ripetitività della storia, ebbene, permettetemi questo paragone: se il Tropicalismo si basava su un’antropofagia culturale, presa a modello dal Manifesto Antropofago stilato dal poeta Oswald de Andrade nel primo Novecento, oggi Thiago è uno dei consapevoli esponenti di un’antropofagia cultural-musicale, che si manifesta in un desiderio di usare tutto quello che l’eredità della sua terra – e non solo – mette a disposizione, dai canti indigeni alla bossanova, dal samba al funk brasileiro, proponendo un suono nuovo, dove conta molto il rumore e anche il silenzio. Non è un caso che il grande Arto Lindsay lo abbia capito e spronato. Ora sono grandi amici, compongono insieme, si intendono alla perfezione. Arto di Thiago dice: «È la musa ispiratrice della nuova generazione di compositori brasiliani».
Thiago, sono curioso, ho un sacco di cose da chiederti. È giusta la mia sensazione di un Brasile culturalmente impoverito nell’ultimo ventennio?
«Al contrario, c’è molto movimento, pensa al funk brasileiro, nato nei sobborghi, nelle favelas. Ogni città, ogni stato di questo Paese ha il suo funk, c’è quello carioca, quello Paulista e via dicendo. Anche il funk, come il samba, è una musica che ha una discendenza africana, che è nato dal basso ed è espressione popolare. Credimi, il Brasile oggi ha molto da offrire, grazie alla musica dell’Afro-diaspora. Per esempio, pensa alla musica nordestina, a Siba (artista pernambucano con il quale ha collaborato lo stesso Arto Lindsay, n.d.r.), un costrutto tradizionale che si evolve. Ma anche ai canti indigeni – non dobbiamo dimenticare il loro apporto alla nostra musica, il loro costrutto canoro è molto geometrico, ma non inteso in forma pitagorica! Si tratta di un lavoro a cui ho partecipato come musicista e produttore, è un disco di canti degli indios Huni Kuin. Al canto, Bella e io abbiamo aggiunto delle sculture sonore, Bruno di Lollo il sintetizzatore, Domênico Lancellotti l’MPC1000. Il tutto per esaltare il potere della voce di Ibã Sales, Uma voz da Floresta Encantada».
Con quale genere musicale ti sei formato? Cosa ascoltavi da ragazzo?
«Mio padre, Zé Nassif, aveva tantissimi dischi, ascoltava molta musica, soprattutto rock, musica strumentale, adorava l’arpista Andreas Vollenweider e il compositore greco Vangelis Papathanassiou, autore di numerose colonne sonore, tra cui quella di Blade Runner…». Verso i dodici anni mi ha preso il blues, la musica nera americana, il movimento di Chicago che gravitava intorno alla Chess Records. Lo studiavo a fondo, ero rapito e interessato al punto che ero arrivato a una conclusione: volevo suonare il Blues. A mio padre piaceva la musica straniera, io, crescendo, mi sono appassionato alla musica brasiliana tradizionale, grazie a mia nonna che abitava all’interno dello Stato di São Paulo. Adoravo la Moda de Viola, una musica delle radici, legata alla terra, eseguita con quello splendido strumento che è la Viola, una chitarra a dieci corde. Ad ascoltarla potrai notare che ha basi di blues e country, quello del Mississippi. Crescendo ho imparato ad amare lo Choro…».
Lo Choro, un antesignano del jazz…
«Esatto, una musica dove si improvvisava dentro rigidi canoni. La mia svolta musicale l’ho avuta a 13 anni con la chitarra elettrica. Per me è stata un vero impatto, mi affascinava l’elettrificazione dei suoni, come li puoi cambiare. Ricordo che mio papà comprò una pedaliera: non riuscivo ad usarla, non la capivo anche se mi ci applicavo. Un giorno venne un suo amico con un solo pedale, e lì mi si è aperto un mondo, ho iniziato a curiosare tra i suoni, a registrarmi con un registratore a quattro piste, ad ascoltarmi, ad apprezzare il rumore della cassetta che emetteva il suono. A 18 anni ho deciso di registrare un album. Andai in studio di registrazione ma ho odiato il suono che il tecnico mi presentava. Non c’era proprio, dovevo imparare a costruire il suono come lo volevo io…».
Cosa hai fatto per trovarlo?
«Mi sono iscritto a ingegneria del suono negli Stati Uniti, nel Tennessee, a Nashville, nel punto nevralgico della musica americana. Mi sono laureato. In quegli anni di studio avevo messo su una band con altri colleghi e grandi amici, i Cowboy Movie. Facevamo un folk psichedelico con molti interventi di Noise. Tornato a São Paulo con alcuni amici abbiamo formato un’altra band, gli Epicac Tropical Banda (ci trovi su Bandcamp), band concettuale con improvvisazioni quasi jazzistiche».
Quando hai deciso di andare a vivere a Rio de Janeiro?
«Nel 2014. Mi sono trasferito a Rio perché la scena musicale – e non solo – era molto diversa da quella di São Paulo. La libertà era un’altra, c’era una forte relazione tra i vari movimenti culturali, Rio era un frullatore: arti visive si mescolavano a jazz, musica brasiliana a musica sperimentale suonata solo da macchine. Tutti facevano capo per lo più allo studio di registrazione Audio Rebel».
E lì c’era anche Arto Lindsay…
«Sì ci siamo conosciuti in quell’ambiente, ci siamo scambiati idee. Lui ha prodotto il mio terzo album Três, siamo diventati amici, lavoriamo spesso insieme. Arto mi chiama per collaborare a suoi lavori, che sia un disco o un’installazione sonora. Lui suona la chitarra al di fuori delle convenzioni, usando delle melodie con inserti ispidi, rumorosi…».
Veniamo a Mente, lo hai definito un disco di connessioni…
«Perché è proprio questo, un disco costruito su una mia base da molte persone che ho scelto con attenzione. Ciascuna di queste ha dato quello che era necessario al lavoro. Quando componevo con una chitarra elettrica e un semplice pedale Looper pensavo a quali fossero gli artisti giusti che potessero dare il loro apporto in termini estetici, melodici e armonici. In questo viaggio mi hanno accompagnato, formando strati musicali, Pedro Sá, Guilherme Lirio, Menino Brito, un percussionista fantastico che suona samba con Pretinho da Serrinha. Lui ha portato il suo bagaglio, che è diverso dal mio, suonando la cuica in Vóz Unica Foto Sem Calcinha. Lo stesso dicasi per Sergio Azul: viene da Bahia suona in un afro-bloco gigantesco di percussionisti. Il suo “toque” viene dal Candomblé, è diverso da quello carioca. Ognuno ha il suo timbro…».
Al disco ha partecipato anche Vinícius Cantuária…
«Sì, lui vive a New York, ma era a Rio de Janeiro, così sono riuscito a coinvolgerlo. È un “violonista”, suona la chitarra, ma per caso l’ho sentito suonare la batteria: aveva un suono e una tecnica tutta sua, parte dell’universo di Vinícius. Così, in Soar Estranho e Plástico lui suona la batteria».
Non ci sono solo musicisti in Mente. O meglio, sono anche musicisti ma si occupano d’altro…
«Ho chiamato anche Bella, artista che fa una musica di ricerca, lei si costruisce gli strumenti. Ha messo strati ai brani, approfondendo sempre di più la complessità del suono. Come vedi, questo disco non l’ho fatto solo io, ma anche Arto e tutti gli amici coinvolti. È frutto della ricerca di ciascuno. Il disco cerca proprio questo equilibrio di saperi».
Apriamo una parentesi sul “rumore” a cui tu tieni molto.
«Per me il rumore è ritmo, quello che ti fa danzare, ti dà la carica, l’energia. Può essere anche una prateria testuale o musicale. Comunque è sempre presente nella nostra vita e per me dà il ritmo, scandisce il silenzio».
Perché hai deciso di chiamare il tuo album Mente?
«Mente ha un doppio significato. La mente umana, il pensare in modo razionale ma anche, nella sua forma verbale, il mentire, e mi riferisco alla situazione politica soprattutto attuale. Quest’ultimo è un discorso lungo e complesso da fare, che il Covid ha amplificato. Siamo in un momento di “post verità”, un momento molto delicato per il mio Paese. Allo stesso tempo la mente è uno specchio, una riflessione di se stessi che ci confonde. Non a caso l’immagine della cover rappresenta uno specchio dove io butto un secchio d’acqua. Riprendendo il mito di Narciso che muore affogato nel suo continuo compiacersi e specchiarsi, ecco, lui è la mia speranza, prima o poi deve svegliarsi e non finire preda di se stesso».
Arrivati a questo punto, come posso definire la tua musica? Elettronica? No-wave?
«Non solo, ho cercato di prendere l’essenziale da ogni genere della musica brasiliana una connessione più che una contaminazione per raggiungere l’essenza della musica. Dentro c’è Tropicalismo, jazz, musica sperimentale, funk carioca, musica elettronica, praterie di suoni e ritmi, lo stesso fatto di cantare in portoghese e inglese è una dimostrazione delle connessioni anche attraverso le parole».
La chiudo qui. Vi assicuro che di sostanza nella musica di Thiago Nassif ce n’è molta. I suoi lavori vanno ascoltati con attenzione, vanno apprezzate le texture melodiche, i singoli rumori mai buttati a caso, il gran lavoro percussivo, l’amalgamare suoni che apparentemente stridono. L’antropofagia culturale diventa una necessità, una sorta di chiamata a raccolta del proprio passato e delle esperienze musicali universali. Tutto viene ricondotto in melodie che contengono mondi diversi, generi diversi, strutture diverse. Connessioni reali e non virtuali…Vi lascio con Plástico, suonato con Arto Lindsay, Vinícius Cantuária, Negro Léo e Laura Wrona…