Ingenuità. Tenete a mente questo sostantivo, perché sarà il filo conduttore di tutto il post. È la prima parola che mi è venuta in mente quando mi sono messo ad ascoltare il nuovo disco – uscito oggi, venerdì 18 febbraio – dei Little Pony, dal titolo Voodo We Do, negli store per Soundinside Records. I Little Pony sono una band composta da un istrionico frontman di Minneapolis, che risponde al nome di Ryan Spring Dooley, e da tre musicisti napoletani, Marco Guerriero al basso e cori, Valerio De Martino alla batteria, synth e cori, e Pierluigi D’Amore, synth, effetti e cori.
I Little Pony, come ci racconterà tra poco lo stesso Ryan, sono attivi da anni nell’underground italiano. Sono nati come buskers, musicisti di strada: nel 2014 erano un trio (allora alla batteria c’era Fulvio Laudiero), si sono fatti conoscere in tutta Italia e anche in Europa, viaggiando dove portavano il vento e gli amici. Rigorosamente in treno, in maniera “molto umile”, per dirla alla Ryan, che di formazione e professione è uno street artist e un pittore. Napoli è piena dei suoi lavori firmati con il moniker Marvin Crushler.
Proprio l’ingenuità del loro modo di presentarsi, dell’essere artisti, che mi ha spinto ad ascoltarli. Vale la pena metterli in cuffia. Sono un mix di anni Settanta, anni Novanta e anni Duemila, con influssi jazz, punk, funk, elettro… insomma un Voodoo sonoro, come richiama il titolo dell’album, indefinibili nel genere, catalogati giocoforza nella grande casa dell’Alternativa, dove ci abita di tutto e di più. Il loro sound fa venire in mente un set di Jim Jarmousch, dove tutto è al limite della follia e della psichedelia, i personaggi sono portati all’estremo, caricati di ironico simbolismo.
Ascoltate il brano d’apertura, CPC che sta per Check Point Charlie: basso e batteria introducono belli tosti, quindi arriva il sax, lavorato con effetti che lo fanno sembrare una vecchia chiatarra elettrica con il wah wah sparato. Poi parte la voce e un coro che urla fino alla nausea: So free like? Così libero, come? E ancora in Voodoo We Do, traccia che dà il titolo all’album Ryan canta: My phone, I phone, down in the mud, my phone, your phone, little buddy gonna suck your blood, my phone, your phone, my mind is down in the mud, my phone, your phone little motherfuckers gonna suck your blood.
Per questo i Little Pony sono… i Little Pony! A partire dal nome: chi non li conosce fa subito un rapido accostamento: si saranno mica ispirati a quegli insopportabili cavallini colorati, gioia di bimbi, collezionisti e intrippati del genere? In realtà i cavallini umanizzati non c’entrano proprio nulla. Abbiate pazienza, arriveremo anche lì! Ma, soprattutto, dal modo di proporre la loro musica. Ryan più che cantare, rappa leggero, o meglio, si dedica con intensa passione allo spoken word, quello che faceva, magistralmente, Gil Scott-Heron (ricordate la mitica Revolution Will Not Be Telvised?).
Ryan nei testi gioca molto sui ricordi di quando era piccolo, sui sogni di allora e di oggi, sulla dura realtà di chi è nato dalla parte sbagliata – nascere a est di Minneapolis non è come nascere dall’altra parte – sulla povertà e sul senso di riscatto che l’arte può simboleggiare. Ma anche sulla bellezza di quei luoghi deputati all socializzazione, forzata o spontanea, in quel grande e complesso laboratorio che è la strada.
Una maturazione artistica rispetto agli album precedenti, la presenza di sintetizzatori, l’uso del moog che elabora il suono del sassofono e la voce, il sax tenore di Ryan che surfa tra la profondità del basso martellante, i synt che diventano sirene e noise puro, e una batteria che raccoglie tutte le contaminazioni mediterranee fuse in secchi e pressanti ritmi. Il risultato è che è impossibile stare fermi, vien voglia di ballare, partecipare. Una bella miscela esplosiva.
Ryan, come sei finito a Napoli?
«A Minneapolis frequentavo l’università di Belle Arti. C’era la possibilità di avere interscambi culturali in Europa. Volevo conoscere Parigi, Berlino, Roma. Mi sono iscritto al programma all’ultimo minuto, così mi sono trovato assegnato all’università di Pavia. Da lì ho iniziato a girare l’Italia. Ho vissuto a Milano: mi piaceva perché, negli anni Novanta, c’era così tanta ricchezza creativa e culturale racchiusa in pochi chilometri quadrati! Sai, venendo da Minneapolis dove per percorrerla da un capo all’altro con i mezzi pubblici ci mettevo un paio d’ore, Milano mi sembrava un sogno. Ho frequentato i centri sociali: il Pergola, il Leoncavallo. Il primo era diventato praticamente la mia casa. L’ era un’officina di creatività: c’erano i primi hacker organizzati, la street art, i veejay, un mondo in gran fermento. In quel periodo tutto era molto improntato alla condivisione. Ora, nell’arte come nella musica siamo su un altro concetto, l’individualismo, la ricerca personale del successo… A Napoli sono arrivato perché era stata organizzata una mostra dei miei lavori. Mi sono innamorato subito della città, del mare, della storia, del suo contorno architettonico, della sua bellezza estrema. Un posto forte!».
Ti sei sentito a casa?
«In realtà ho impiegato un po’ ad ambientarmi. Milano aveva un ritmo diverso, ti rendeva subito partecipe, si faceva immediatamente rete. A Napoli era tutta questione di prendere quel ritmo. Alla fine ce l’ho fatta. La città ha un’accoglienza diversa dovuta a un’identità secolare molto radicata. C’è l’orgoglio di essere sempre stati diversi da tutti. Roma è ancora un’altra cosa: ci abito da sette anni, con mia moglie e mia figlia, mi trovo bene perché ha una bella vita artistica».
Un passo indietro: ma il sax?
«Venivo da una famiglia povera che non poteva permettersi di farmi studiare in college costosi. Lo Stato americano per chi non ha le possibilità, mette a disposizione dei giovani studenti uno strumento musicale a scelta. Ti viene regalato. Ricordo che avevamo il diritto di entrare per primi in quella grande stanza dove c’erano tutti gli strumenti disponibili: molti di noi ragazzi “poveri” pensavano che più uno strumento era grande e più valeva; quindi, i grossi, come la tuba, sparivano subito. Mi sono ritrovato tra le mani un sax tenore che ho tenuto e suonato fino a un paio d’anni fa, quando ho dovuto cambiarlo. Ci hanno insegnato la musica… nella scuola c’era anche un’orchestra. Lo suono da quando avevo 13 anni. Crescendo ho fatto parte di molte band, quelli che si mettono insieme da adolescenti. Quando sono arrivato in Italia, a 19 anni, ho portato con me il sax. Ho suonato a Pavia, a Milano, a Parigi, dove ho vissuto, sempre per studiare arte, per sei mesi, nel 2000».
Il sax ti ha accompagnato anche a Napoli…
«Sì, certo. Avevo fatto amicizia con due americani che vivevano lì e, come succede per lo skateboard, che portavo sempre con me ogni volta che uscivo di casa, loro non dimenticavano mai di portare le chiatarre. Così ho imparato portare con me anche il sax. Nel pomeriggio si andava in Piazza Bellini, sempre piena di gente e di locali, e si suonava. Mi ricordo che un bar aveva un pianoforte. Stavamo lì a far musica con chiunque fosse disposto a suonare».
Gli altri membri della band li hai conosciuti così?
«Certo. Ci siamo incontrati in questo humus di personaggi e, quando ci siamo strutturati, abbiamo iniziato a girovagare sempre suonando, nell’autentico spirito napoletano! Siamo partiti dal Napoli e abbiamo iniziato a girare l’Italia e l’Europa per farci conoscere. Siamo riusciti a guadagnare qualcosa, ma avevamo un rigido controllo delle spese, quindi lo facevamo in modo molto umile. Eravamo dei bohémien che si nutrivano di pasta e fagioli!».
Avevate un furgone?
«Ma no! Abbiamo imparato dagli zingari: in una discarica abbiamo preso dei vecchi passeggini per bambini e li abbiamo riadattati per caricarci gli strumenti. Poi prendevamo i treni regionali… Così abbiamo suonato a Roma, Livorno, Genova, città molto simile a Napoli, Milano…».
Puoi definire la musica dei Little Pony?
«Per me è energia, è una gioia suonare nella band. Il bello è vedere che il pubblico giovane o meno giovane si diverte perché coglie i nostri riferimenti musicali. I primi due album li abbiamo composti in viaggio, hanno un sound legato al nostro girovagare, alla nostra ingenuità fanciullesca che continuo a considerare un valore. Poi c’è stato un cambio di passo: Valerio, il nuovo batterista, ha messo un freno al nostro romanticismo insegnandoci un maggiore livello di attenzione per i dettagli. Lui di professione fa il fonico, anche in grossi concerti. Esperienza e creatività hanno creato un nuovo modo di stare insieme, così il groove si trasmette in più sfaccettature. Durante la pandemia si è aggiunto Pierluigi, il tastierista, un musicista polistrumentista che proveniente dal gruppo perugino Guappercartò, band dove la musica è più orchestrale, teatrale. Anche lui ci ha coinvolto nell’elaborazione di nuovi mondi sonori….».
Come sono nate le canzoni?
«I testi li scrivo io, sono impressioni: ad esempio, New York è nata quando, un paio d’anni prima della pandemia, sono andato a Brooklyn a trovare mio zio. Mi sono usciti versi legati alla mia cultura americana. Una volta ritornato in Italia, ci siamo messi ad arrangiare quello che avevo scritto cercando di comporre una melodia più curata».
Ultima curiosità: perché vi chiamati Little Pony?
«I piccoli pony non c’entrano nulla! Il nome è stato un modo per avvicinarsi alle tradizioni dello stivale: pronunciato velocemente cinque volte di seguito suonava come… Little Tony! Almeno così sosteneva mia moglie quando mi suggerì possibili nomi per la band…».