L’arte Solenne di Carlo Maver

Carlo Maver – Foto Daniele Franchi

Talento poetico, emozioni che vibrano grazie al soffio primordiale di un flauto basso o al mantice di quello strumento geniale e complesso che è il bandoneon. Musica del mondo, frutto di viaggi ed esperienze vitali. Musica sacra, perché inviolabile. E poi silenzi profondi che ti scavano dentro l’anima rendendo unico ogni ascolto. 

Carlo Maver, 50 anni appena compiuti, flautista e bandoneonista bolognese ha fatto un piccolo e prezioso miracolo pubblicando Solenne, il suo nuovo lavoro dopo cinque anni di silenzio. Giorni in cui ha ragionato sul proprio destino, sulla perdita dei genitori e di amici, sulla separazione. Un album uscito il 10 marzo in vinile e cd, il digitale arriverà poi. Un punto fermo anche questo: il voler fissare su qualcosa di tattile il frutto del suo lungo e non facile lavoro, presentato a Bologna, domenica scorsa, appunto. 

Solenne è un titolo impegnativo per un disco. Ma pensandoci bene, dopo tutto quello che leggerete nella lunga chiacchierata che ho fatto con il musicista, è il titolo più azzeccato. Un album suonato in solo con due partecipazioni, entrambe speciali. Paolo Fresu in La Morte non esiste, brano, come vedremo, a cui Carlo tiene particolarmente, un requiem per sua madre, e il violinista iraniano Hesam Inanlou in Back then, we also had been, con la voce registrata del grande poeta iraniano Ahmad Shamlou, poeta, giornalista, scrittore morto 23 anni fa.

Com’è andata la presentazione ufficiale del disco a Bologna?
«Molto bene, diciamo che ho giocato in casa! Sono un musicista che è conosciuto poco fuori Bologna all’interno dello specifico pubblico che ama il bandoneon, mentre qui sanno bene chi sono. Erano cinque anni che non uscivo con un disco. Tra il pubblico c’erano tante persone che conoscevo ma anche tante che non avevo mai visto, e questo è positivo».

La foto della cover è di Gabriele Lugli.

Il disco non è uscito in digitale?
«Per ora no, ci sarà più avanti. Per il momento sulle piattaforme c’è solo un brano, Volver, poi ne pubblicheremo altri e infine il disco intero. Questo per dare più forza al supporto fisico, al vinile e al cd. È la mia prima esperienza di vinile, sono molto contento perché è una soddisfazione personale ma soprattutto per come si sente, c’è una bella differenza per pienezza sonora e dati musicali».

Solenne perché hai voluto dare un senso di sacralità alla musica?
«Sì, è quello che voglio trasmettere. C’è stato un momento in cui ho pensato di aver sbagliato titolo! Per me la solennità è molto legata a quello che può essere una ritualità, una profondità, una seriosità, il fenotipo di un’attitudine, di un gesto. Sul dizionario ho letto i vari sinonimi: pomposo, regale, una cosa lontana da me! È piuttosto un approccio a un lavoro musicale che per quanto mi riguarda contiene quattro anni della mia vita molto intensi, dove ho perso entrambi i miei genitori, ho perso parenti e amici, mi sono separato da mia moglie. In realtà i titolo del disco doveva essere La morte non esiste, pezzo che per me significa tanto. Aveva preso la direzione del requiem per mia madre poi è diventato il brano in cui ho racchiuso tutti i funerali  fino a diventare quasi una sorta di omaggio universale, il momento di musica finale che va a cercare di unire tutti quanti insieme, a convogliare una serie di emozioni in uno stesso punto attraverso la musica. Ed è qualcosa di estremamente potente e importante per chi lo vede in quel momento. Tornando al titolo, in Solenne c’è anche il gioco di parola dell’album inciso in solo».

Anche l’uso che fai dei tuoi strumenti, il flauto e il bandoneon, ha a che fare con la solennità.
«Il bandoneon ha tante difficoltà, andrebbero spiegate mostrandole sullo strumento, perché solo un musicista le può capire. È uno degli strumenti meno diretti che esistono sulla faccia della terra. Ma allo stesso tempo ti regala da subito emozioni sonore veramente potenti. Ti consiglio di ascoltare Dino Saluzzi».

Un mostro sacro del bandoneon. A proposito, hai studiato con lui, giusto?
«Sì e siamo diventati grandi amici. Per imparare da lui sono stato in Argentina sei mesi all’anno per tre anni consecutivi. Saluzzi è la stella polare della mia poetica musicale, quello che mi aperto per primo questa strada. Mi riconosco sia nell’aggressività di Piazzolla che nella sacralità di Saluzzi con il suo incedere andino». 

Come ti sei innamorato del bandoneon?
«Grazie a Daniele Di Bonaventura. Suonava con Felice Del Gaudio, contrabbassista di Bologna, il pianista Teo Ciavarella e il batterista Alfredo Laviano. Mi chiamò per suonare il flauto con loro e lì ascoltai Daniele al bandoneon. Rimasi affascinato. Lo subissai di domande, fu lui a consigliarmi di ascoltare Dino Slauzzi e Astor Piazzolla. Avevo poco più di 20 anni e mi si aprì questo mondo musicale che non conoscevo. La settimana dopo ho chiesto a Daniele dove potevo acquistare un bandoneon e da lì sono partito».

La scansione del disco è un viaggio e tu sei un grande viaggiatore. L’Andino Gregoriano è un brano strepitoso…
«Grazie sei la seconda persona che me lo dice oggi!».

Un album in solo con due “pennellate”, Paolo Fresu e Hesam Inanlou…
«Nel pezzo con Hesam la voce è quella originale di Ahmad Shamlou, uno dei grandi poeti iraniani, che declama una sua poesia. Quel brano è nato durante il Covid. Ho conosciuto Hesam perché sono stato a suonare in Iran un paio di volte, una volta abbiamo condiviso il palco e siamo diventati amici. Ci siamo ritrovati a distanza, durante il lockdown, e lui mi ha proposto di fare questo pezzo registrato ognuno a casa propria, su una tematica improvvisata, una parte legata a me e una a lui. Con Paolo è stata ugualmente bello! Un giorno mi suona il telefono: “Ciao sono Paolo Fresu”. Visto che mi piace molto scherzare e ho amici altrettanto scherzosi gli ho risposto, “Ma sì dai, chi sei veramente?”. E lui: “Sono Polo Fresu”… Mi cercava perché per un’estate ho sostituito Daniele nello spettacolo dedicato a Ferlinghetti. In questa collaborazione Paolo mi ha chiesto di portare anche qualcosa di mio. E io ho scelto La morte non esiste. L’abbiamo suonata nel tour, sempre in duo, tromba e bandoneon. L’ho dunque voluto riproporla anche sul disco».

Carlo Maver – Foto Daniele Franchi

Hai impiegato tre anni per fare questo disco, in controtendenza con le produzioni odierne…
«Non pubblico a comando ma devo avere qualcosa da trasmettere. In giro si ascoltano musicisti bravissimi che compongono per contratto. La musica, l’esser bravi, la composizione e soprattutto l’emozione e la poetica in questo momento non coincidono nei brani».

Già ci sono tanti musicisti bravissimi…
«Certo, ci sono ventenni che suonano talmente bene che nemmeno io a 70 anni riuscirei a eguagliarli, però vai a un concerto ascolti tre brani e ti viene voglia di andartene e impiegare meglio il tuo tempo. Una delle magie della musica è quando ti rapisce, ti cambia stato d’animo, ti cambia la frequenza cardiaca, di porta da un’altra parte».

Possiamo definire la tua musica World Music? Non si riesce a incanalarla in un genere!
«Infatti non va bene per i festival, è troppo jazz per il festival di World music, troppo World per quello jazz, insomma… Mi pento ogni tanto. Quello che mi rende contento della mia succinta discografia è che non c’è un disco uguale all’altro, rispecchiano quello che sono, specialmente questi due (Solenne e Volver, ndr) suonati in solo. Non mi considero un esperto, devo ancora esercitarmi e studiare un sacco, però non ho avuto nessuna paura di esporre i miei limiti, e questo per me è molto bello. Facendo un disco in solo, ti denudi e sei hai la schiena pelosa si vede!». 

Come hai incontrato la musica?
«Ho cominciato a suonare tardissimo. Il primo strumento che ho comprato è stato un flauto di Pan, perché avevo visto la pubblicità del Nescafè. Da lì sono andato in Irlanda ho iniziato ad appassionarmi al flauto, dal flauto ai Jethro Tull, da questi ho conosciuto Roland Kirk, da lui al flauto jazz, dal flauto al bandoneon… 

Tutto da autodidatta?
«A dir la verità, no… però sì. Ho fatto il conservatorio, l’unica scuola che ho finito dopo le medie pensando al flauto jazz, ma con altro nella testa. Oggi me ne dispiaccio, però son fatto così. Quando poi avrei potuto dedicarmi al flauto jazz con le dita belle agili ho incontrato il bandoneon, e quindi gran sterzata per entrare in un altro mondo, armonico… Alla fine sì, sono stato allievo di Saluzzi, un anno e mezzo è quasi nulla per uno strumento così complesso. Ho incontrato Dino quando suonavo il bandoneon solo da qualche mese. Un maestro così importante in quel momento non è che mi sia servito tecnicamente. È stato, invece, importantissimo dal punto di vista poetico».

Tracce d’Africa è un disco molto bello, interessante.
«L’idea era il recuperare cellule rigeneratrici indelebili che la musica africana ha lasciato in giro per il mondo. Ci avevo lavorato tanto a quel disco, poi il gruppo con cui l’ho registrato si è sciolto, ci sono rimasto molto male. In quegli anni mi sono trasferito a vivere in montagna, sull’Appennino bolognese tra i punti più alti. Scherzando dico che ho fatto un po’ come Sonny Rollins che si ritirò per mesi a suonare sulla corsia pedonale del ponte di Williamsburg a New York in completa solitudine. Stando lassù ho incominciato a suonare nelle chiesette di montagna da solo, appassionandomi a questa dimensione. Dovevo ripartire da solo, l’inizio di una strada che mi ha portato, oggi, ad avere molta più voglia di suonare con altri musicisti e ritornare con mie formazioni più nutrite e anche con un’altra visione della musica».

Cioè?
«Molto più svincolato da quella che può essere una sorta di ansia di prestazione, molto più sicuro di me stesso perché molto più consapevole di quello che sono. Ciò mi porta ad avere rapporti molto più rilassati con gli altri musicisti».

Mi dai l’idea di un’anima in pena, inquieta… Il fatto che tu abbia viaggiato molto e non in posti a caso, la vita in montagna, il concetto di solitudine: non mi sembri un solitario!
«Fondamentalmente sono un goloso, innamorato della vita e di tutte le sue espressioni, dalla più mondana alla più spirituale, dalla più solitaria alla più sociale. Tutto, però, deve essere permeato da un senso e questo è quello che mi fa andare in pena perché spesso non trovo l’essenza di una socialità. Ho avuto la fortuna di crescere con emozioni forti grazie ai miei viaggi, come quello nel Sahara (Carlo ha scritto anche un libro Azalaï. Millecinquecento chilometri a piedi nel deserto, 2017, ndr). Tutti i viaggi mi hanno regalato, muovendomi sempre da solo, il modo di far parte profondamente di questi luoghi. Ho sempre scelto territori dove ancora si vive come centinaia di anni fa, dove l’ospitalità e la parola sono qualcosa di sacro. È un po’ un mio tema, sto bene dove sono, qui a casa mia, però quando viaggio da solo sono l’uomo più felice del mondo».

La solitudine non ti spaventa?
«No assolutamente, semmai, ogni tanto la soffro. Ho cominciato a viaggiare da solo per caso: nel mio primo viaggio il mio compagno di strada ha deciso di tornare indietro. Io potevo scegliere se seguirlo a andare avanti: ho deciso di continuare. Questo mi ha dato le chiavi per poter entrare in una dimensione molto particolare e unica, perché soltanto in questo modo puoi vivere determinate esperienze, entrare nelle altre culture. Ti faccio un esempio: in uno degli ultimi viaggi, in Georgia, sono stato in una città ricca di monasteri vicino a Tbilisi. Ho visitato una cattedrale che conteneva dei dipinti molto belli. Dopo altre visite mi era rimasto ancora del tempo prima di riprendere l’autobus di ritorno, così ho deciso di tornare in quella chiesa. Mi sono trovato dentro una funzione religiosa dove ero l’unico “estraneo”, quattro monache e un monaco intonati in maniera favolosa eseguivano canti georgiani, le voci rimbalzavano nella cattedrale vuota, c’erano solo cinque persone con dei ceri accesi. Un momento meraviglioso. È successo perché ero da solo, se fossi stato con qualcun altro non sarei mai tornato, perdendomi un momento emozionate». 

Queste avventure come le sfrutti? Annoti, fotografi, componi, scrivi?
«Fotografare no, ho smesso, faccio qualche foto con il telefono, la cosa che cerco di fare di più è vivere ogni momento. E questo automaticamente ti rimane dentro, materiale umano che nel tempo viene processato, si mescola con altre esperienze e la musica per me è una maniera di esprimere tutte queste emozioni».

In Tracce d’Africa avevi dedicato una canzone a un tal Moniseur Coulibaly…
«Non era il calciatore! È stata la prima persona che ho incontrato nel mio viaggio in Mali. Quell’esperienza è stata importante, mi ha aperto tantissime porte interiori». 

Il Mali è una delle culle della musica africana…
«Sì anche se non è stato un viaggio particolarmente musicale per me. La massima espressione è stato l’incontrare questo nulla importante che è il deserto, l’essenza allo stato puro dove nulla si congiunge col tutto e dove il tuo svuotamento, grazie a questo nulla, fa apparire cose di te che sono nascoste dal tutto».

Le prime date “live”

23 maggio – Cuneo – Città in note
6 giugno – Bologna – Colliwood
29 giugno – Capestrano (L’Aquila) – A Love Supreme
25 luglio – Fano Jazz
2-3 agosto – Ambria (SN) . Corti Chiese Cortili
15 settembre – Polcenigo (PN) – Jazz River

 

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