Calipso Island, il mondo onirico di Fabrizio Prando

Fabrizio Prando – Foto Daniele Catenazzi

Fabrizio Prando, 29 anni, di Verbania, con studio a Cannobio, lago Maggiore. Chitarrista, diplomato al conservatorio Verdi di Milano, viaggiatore onirico e onnivoro. Mi sono appuntato queste poche parole quando ho ascoltato Calipso Island, disco autoprodotto nel Grottino, il suo studio di registrazione e rifugio, uscito un paio di mesi fa, tutto suonato da lui, eccezione fatta per la fisarmonica con un bell’intervento di Gino Zambelli tutto da ascoltare in Mediterranean Tango e Alessandro Lipari al flicorno in Sky Ship. 

Un disco a cavallo tra jazz, flamenco, atmosfere latino americane, tango alla Astor Piazzolla,  fughe dal sapore gipsy, immaginato come un viaggio molto intimo, personale, tra ricordi, nostalgie e un nuovo presente. Migliore? Forse sì, forse no, il dubbio resta. Un equilibrio ritrovato dopo anni di difficili – sarà lui, tra poco, a spiegarvi il perché – costruito su una favola che Fabrizio s’è immaginato e sul quale ha fondato dieci brani molto espressivi. 

Il mare è mosso, le onde sovrastano le navi, il vento soffia inquieto! Il viaggio che ci aveva portato per terre misteriose ci ha spinto su un’isola molto particolare, Calipso. Un panorama mediterraneo e fiabesco, con giardini naturali, boschi sacri dai grandi alberi, sorgenti magiche e figure soavi piene di mistero che danzano balli sconosciuti. Fino a che Calipso lo desidererà saremo intrappolati sull’isola, rapiti dalla sua bellezza. Un galeone, spinto dal vento di Zefiro vola sopra di noi portandoci in luoghi senza tempo dove una clessidra scandisce le giornate a suo piacere, facendoci viaggiare verso antichi castelli dove risuonano vecchi valzer. Sotto terra, in un luogo enigmatico, creature di vario genere sedute ai tavoli di un vecchio locale giocano a carte fumando grossi sigari, una piccola orchestra di scheletri suona uno swing, mentre nobili vampiri ordinano da bere strani infusi al bancone. Lungo i fiumi, vecchi pirati suonano un tango, rivivendo le loro avventure per mari. Saranno quei mondi onirici e quelle terre distanti da esplorare che spezzeranno l’incantesimo per ripartire verso l’orizzonte, alla scoperta di nuove isole e infiniti universi. 

Un musicista spontaneo Fabrizio, la cui giovinezza tradisce a volte certe ingenuità, tutte perdonate perché, nella sua forma compositiva poco complessa riesce a costruire un qualcosa di bello e intenso, che ti resta dentro. In fondo è questo il valore della musica, colpire, catturare, non essere banale…

Tutto parte da un lavoro precedente, firmato Simone Prando, il fratello di Fabrizio, un contrabbassista affermato e particolarmente dotato che a un certo punto della sua vita scopre di avere un astrocitoma, un tumore al cervello. Simone non si darà per vinto, lotterà duramente per quattro anni, prima di cedere. Lo farà con l’unica arma che conosce e maneggia alla perfezione, la musica, ma anche con le parole, aprendo un blog e scrivendo un libro, Con una Stella nel Cervello (Araba Fenice, 2021). Incide un disco dove suona anche Fabrizio, With A Star In The Brain accompagnato da Achille Succi, Gino Zambelli e Marco Tiraboschi. 

Deve essere stato un cammino difficile per Simone e per tutti voi…
«È stato un disco molto sentito. Non so se hai letto qualche pagina del blog o del libro: è tutta la storia di quello che è successo fino a due anni fa, quando è mancato. Sono stati momenti forti, però da questi eventi è nato questo disco fantastico, elegante nei fraseggi e nell’impostazione. Ci siamo trovati in studio insieme un giorno senza aver mai provato prima. Purtroppo Simone non riusciva tanto a muoversi, non potevamo incontrarci perché eravamo tutti in luoghi diversi. Ci siamo trovati nell’aprile del 2017 e, in un giorno, abbiamo registrato. È stata un’esperienza emotivamente molto forte per tutti noi».

Dove l’avete registrato?
«Da Carlo Cantini a Mantova, è un bravo un violinista». 

Due fratelli musicisti, una bella fortuna!
«Mio papà suonava nella banda del paese, a Cannobio. In casa c’era sempre musica, bella musica. Sono cresciuto ascoltando e vedendo mio fratello suonare nei primi gruppi, rockband fine anni Novanta primi anni Duemila. Da lì la cosa si è tramutata in iazz, musica sempre più ricercata. Poi sono venuto a Milano, per frequentare il Conservatorio». 

La storia di Calipso, questa isola misteriosa che ti sei inventato da dove è partita?
«Da un viaggio fatto un paio d’anni fa, a quasi due anni e mezzo da Wind Rose, il mio primo disco da solista, attraverso l’Europa, soprattutto tra Spagna e Italia. È così che mi sono innamorato di queste atmosfere, del flamenco, del tango, anche se non è prettamente mediterraneo».

Calipso Island l’hai inciso tutto tu?
«Sì, a parte la collaborazione di Gino Zambelli alle fisarmoniche e Alessandro Lipari al flicorno».

Sei legato a un pezzo in particolare dell’album?
«A Sky Ship, è l’ultimo brano che ho fatto ascoltare a mio fratello Simone. Mi sono immaginato questa isoletta dove eravamo confinati e ho cercato di uscire da quello spazio finito per cercare un po di infinito… È un brano magico, ancora oggi quando lo ascolto dico: “Boh, l’ho scritto io?”. Quando lo suono mi lascia sempre qualcosa, riesce a emozionare. Sarà per il periodo che ho passato, però mi lascia ogni volta quella magia che tanti altri brani non fanno».

È un’isola affascinante e rigogliosa ma che ti sta stretta…
«Non per forza un’isola che ti fa star bene. Rimanere troppo non va bene, bisogna muoversi per progredire, e forse è un po’ anche quello il messaggio che ho voluto dare. C’è bisogno di stimoli, di staccare, di andare oltre, di nuove energie».

Oltre a essere un musicista, insegni?
«Sì, nel mio studio a Cannobio ma anche a Verbania in scuole di musica. Poi, faccio concerti, sia in Svizzera sia in Italia».

Gli svizzeri hanno un altro modo di ascoltare la musica, rispetto a noi?
«Sono più disposti, ma forse dipende dalla loro cultura. Spesso quando suono in Italia in qualche locale o club, ti usano come sottofondo, come se stessero ascoltando la radio. Non frega niente a nessuno di capire quello che voglio dire con quel brano… Invece gli svizzeri vengono, soprattutto se è un artista poco conosciuto, perché vogliono capire che musica fai, per ascoltarti».

Fabrizio Prando – Foto Davide Colombo

Che cos’è – o cosa dovrebbe essere – per te la musica?
«La musica rispecchia il momento storico che stai vivendo. Ascolto di tutto, non ho preferenze di generi o artisti. È un po come chiedere qual è il tuo colore preferito? Boh… Oggi è stata una bellissima giornata, ho apprezzato il blu del cielo, l’azzurro del lago, il verde fantastico delle piante. Ecco, questo per me è musica. Una cosa che mi fa stare bene. Vista dalla parte di chi la musica la fa… beh, la considero una missione. Il musicista dovrebbe essere una sorta di sacerdote del suono, vedila come un’iperbole».

Vuoi dire che offrire cultura è una missione?
«Dev’essere un’azione che ti deve far stare bene, rappresentare, ma non per forza deve piacere agli altri».

Condivido, altrimenti cadresti nel commerciale…
«È come un pittore che fa un quadro, non è che lo faccia per venderlo, ma per trasmettere qualcosa di suo all’interno della tela… Le canzoni sono quadri, la mostra allestita è l’album. Poi, se fai il vernissage e vengono tre persone o ne arrivano tremila, non importa. Certo che a un artista farebbe piacere vedere il tutto esaurito. Però, l’importante è che devi comunque rappresentare te stesso. I miei brani sono per lo più di facile ascolto. Potresti chiedermi se l’ho fatto apposta per ampliare il pubblico… ti rispondo che mi sono venuti così, questo sono io che mi metto a nudo».

C’è comunque un appiattimento nella musica…
«Uno schiacciamento verso il basso, si tende a sfruttare canali che tendono a bruciarti, e magari sei pure un talento! Purtroppo le regole del gioco sono quelle e noi, essendo “piccolini”, possiamo fare poco, se non educare i nostri allievi, mandando dei messaggi chiari. Però da lì a far la rivoluzione…».

Non siamo più negli anni Settanta…
«Il gioco è quello, devi stare alle regole o sei un pesce fuor d’acqua. Purtroppo è così. Che senso ha per me mettermi a fare un disco che strizza l’occhio al mainstream? Devi essere un pittore che fai il suo quadro, basta! Se piace bene, altrimenti… Amen!».

Se potessi cambiare questa situazione, visto che la musica si evolve in base alla società, cosa faresti?
«Ultimamente vedo sempre meno interesse per la musica. In generale è dei giovani: ai miei allievi, per esempio, chiedo cos’abbiano ascoltato durante la settimana. Mi rispondo: “Boh, non ricordo, nulla”! La musica adesso scorre nelle storie di TikTok, sottofondo veloce, purtroppo è così. Non c’è più nessuno che ascolta un album intero».

Hai 29 anni, sei praticamente un “quasi” un nativo digitale!
«Sono nato senza Internet, lo smartphone l’ho avuto quando ho finito le superiori. I social li uso per lavoro. Per fortuna o purtroppo! Le regole del gioco sono quelle lì, se non sei in queste dinamiche sei fuori».

Noto una certa rassegnazione in quello che stai dicendo.
«Non è rassegnazione, è che oggi il mondo cambia velocemente, mese dopo mese, devi stare al passo. Con i social sono risuscito a crearmi un mio bacino d’utenza, un piccolo pubblico che mi supporta e mi ascolta. Grazie a un crowdfunding ho potuto pubblicare il disco… Se sfruttato bene, è un’ottimo mezzo da utilizzare».

Una nota di favore alla cover del disco…
«È di Giulio Noccesi, un artista di Firenze che ha disegnato anche la copertina del mio primo disco. Gli ho mandato da ascoltare i brani e dicendogli solo: “Vai!”. È molto bella, sono proprio quelle atmosfere che mi ero immaginato componendo, perfette».

Cosa ti piacerebbe dire con la musica?
«Il messaggio che sto dando è proprio quello contenuto nell’ultimo disco, un mondo meticcio. È questo il filone che sento mio ora, che mi fa dire “sono sulla strada giusta!”. Poi, magari, l’anno prossimo mi metterò a fare musica elettronica…».

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