Disco del Mese: Porcupine Tree, C/C

Parlare dei Porcupine Tree non è facile. Attiva tra il 1987 e il 2010, sparita per undici anni, la band britannica capitanata da Steven Wilson s’è “riaccesa” dallo scorso novembre pubblicando un paio di brani, anticipazione dell’album C/CClosure/Continuation, uscito il 24 giugno scorso. Lo faccio con un po’ di ritardo visto che abbiamo già passato la prima settimana di luglio. Non vogliatemene!

Il disco, nato in formazione “ridotta” ma sostanziale dei vecchi Porcupine – oltre a Wilson, c’e il tastierista e pianista Richard Barbieri e il batterista-percussionista Gavin Harrison – a un primo ascolto fa tirare un sospiro di sollievo: eccoli lì, riconoscibili nei loro complicati percorsi sonori, nei cambi ritmici improvvisi, nelle accelerazioni, vere galoppate lungo le verdi praterie del pentagramma, nei riff secchi di Wilson, fraseggi metallici, nell’effettistica (sempre made in Wilson). Ascoltatevi, per esempio, Rats Return. 

Nella migliore tradizione linguistica del progressive rock si trovano anche lunghe ballad tanto care ai Genesis del tempo che fu: Chimera’s Wreck, 9 minuti e 39 secondi, è una di queste. Parte con una chitarra gentile alla Steve Hackett&Mike Rutherford in The Cinema Show, poi un’organo morbido, soffice tappeto di note, il basso e la batteria che entrano progressivamente quanto prepotentemente scomponendo il tempo e permettendo, così, alla chitarra elettrica di penetrare sempre più solidamente verso un potente assolo con wah wah.

Il disco è stato accolto molto bene dai tanti fan e da chi ricerca un Rock solido, figlio degli anni Settanta. Siano benedette le dissonanze del prog in un mondo dove si costruisce musica con beat preconfezionati! I Porcupine Tree oggi fanno la differenza, ribadiscono che in un mondo omologato la musica può esprimere ben altro. Anche se sono strade già battute, ma totalmente dimenticate dal mainstream.

D’altronde, come racconta Jonah Lehrer nel suo libro Proust era un neuroscienziatoanche Stravinskij, sull’onda di Schönberg, quando presentò a Parigi la sua Sagra della Primavera, personale manifesto di rottura con la musica mainstream del periodo (che era la classica, tonale, su cui si basavano le composizioni di allora), destò scalpore, svegliando coscienze e provocando inconsulti e feroci moti di rabbia… quelli sì, dissonanti. Per placare gli animi infuocati intervenne addirittura la Gendarmerie! 

Siamo a questo, purtroppo, almeno per come la vedo io, però all’incontrario. Il vecchio diventa provocazione moderna e il nuovo appiattimento lezioso. Riproporre musica intelligente come quella della band britannica dà comunque una scossa ai nostri canali uditivi, risvegliando un ricordo per chi – causa età o passione – già aveva introiettato il genere, e una scossa fastidiosamente diversa nei più giovani, abituati all’appiattimento urbano di questi anni.

Leggevo settimana scorsa un’intervista di Steven Wilson al Corsera, dove cinicamente rigirava il coltello nella ferita: oggi non si è più in grado di fare una musica complessa e originale in un presunto rock mainstream. A riprova citava i Greta Van Fleet e i nostri Måneskin: i primi schiavi – per nulla originali perché copie dichiarate – dei Led Zeppelin, i secondi perché troppo semplicisti: nulla a che vedere con le complessità armoniche del Rock (doverosa la maiuscola) anni Settanta. 

Il mio giudizio su Closure/Continuation, quindi, non può essere che positivo. Per molti, e mi annovero tra questi, nulla di nuovo sotto il sole: è “solo” un grande prog, composto ed eseguito da musicisti che fanno bene il loro mestiere. Spessore, necessario in tempi così magri e inflazionati.

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