Aqualung, l’opera prog dei Jethro Tull, compie 50 anni

Il 1971, sulla scia del 1970, è un anno proficuo per la musica e il rock in particolare. Tra gli album degni di nota di quell’anno c’è anche Aqualung dei Jethro Tull. Disco molto discusso, a tratti incomprensibile soprattutto nei testi, ma decisamente importante per la storia del prog non solo britannico. Il quarto album in studio di Ian Anderson & Soci è considerato il migliore di tutta la loro produzione, oltre a Thick as a Brick pubblicato nell’anno successivo. Con Aqualung la band capitanata dallo scozzese vestito da folletto diventa un riferimento autorevole, vende milioni di copie, si fa conoscere ovunque. Grazie a un mix di folk, jazz, musica classica, hard rock, blues che, nel suo insieme, va a comporre una storia compiuta.

Aqualung è un disco diviso in due parti distinte. Nella prima – che corrisponde al lato A del disco in vinile – si parla della decadenza dei costumi inglesi, di un’Inghilterra puritana ma zozzona, impersonificata, appunto nel vecchio Aqualung, che in sé riunisce tutte le meschinità e la lussuria del Paese, che predica bene e razzola male. Aqualung – la cover lo mostra stranamente somigliante a Ian Anderson – è vestito da straccione con un ghigno cattivo, curvo, un personaggio quasi mefistofelico. È il mendicante che sbava dietro alle ragazzine e occhieggia la strabica Mary la puttana, Cross-eyed Mary, il secondo brano del disco. Nella seconda, il lato B, invece, il racconto vira decisamente su un argomento piuttosto sentito all’epoca, il rapporto tra uomo e divinità, qualunque essa sia. Pensiamo a George Harrison, John Lennon, Peter Green, Eric Clapton, Peter Townshend, alla Mass in F Minor, Messa in Fa Minore, degli Electric Prunes, album del 1968 – il brano Kyrie Eleison è stato inserito nella colonna sonora di Easy Rider, del 1969 (film di Dennis Hopper, con Peter Fonda, Jack Nicholson, Karen Black e lo stesso Hopper), assieme agli Steppenwolf, The Byrds, The Jimi Hendrix experience. I Tull si confrontano con la religione cristiana, dove regna l’ipocrisia di piegare e manipolare le intenzioni di Dio ai propri scopi. Giustificare la propria misera esistenza: ne escono brani diventati storici come My God Locomotive Breath.

Ma è proprio Aqualung la canzone che apre il disco e che dà il titolo all’album a essere il paradigma dei Jethro Tull, una canzone che, come bene recensiva quell’anno Ben Gerson su Rolling Stone, racchiude tre brani in uno, seguendo lo stato d’animo del narratore Anderson. Da un riff secco e graffiante di chitarra elettrica si passa alla tranquillità di una chitarra acustica e di un pianoforte, per poi risalire in un crescendo e a un improvviso cambio di ritmo, fino a un’unificazione delle precedenti versioni, con assolo di chitarra elettrica di Martin Barre.

Sitting on a park bench
Eyeing little girls with bad intent
Snot’s running down his nose
Greasy fingers smearing shabby clothes
Hey, Aqualung
Drying in the cold sun
Watching as the frilly panties run
Hey, Aqualung
Feeling like a dead duck
Spitting out pieces of his broken luck
Oh, Aqualung…

Ian Anderson, istrione del flauto traverso, polistrumentista, visionario è stato ed è, a oggi, a 73 anni, l’anima di un gruppo, che, pur avendo cambiato pelle, chiuso bottega nel 2011 e rivissuto in nuove formazioni, continua a portare la sua musica in giro per il mondo, Italia inclusa, dove il magico folletto diventato un distinto signore che sul palco si copre la calvizie con una bandana, è di casa. Per chi non li conoscesse o per coloro che non mettono sul piatto un loro disco da decenni, è l’occasione per rispolverarlo e ascoltarlo. D’altronde con la loro musica i Jethro Tull hanno contribuito a costruire quella grande casa, geniale, imprevedibile, fantastica che è il Rock.

“Power Up”, a voi il nuovo disco degli AC/DC!

Ed eccoli, son tornati… Dopo sette anni di silenzio dall’ultimo album pubblicato il 28 novembre del 2014, Rock Or Bust. Lì, a suonare la chitarra ritmica, non c’era già più Malcolm, ammalato e poi passato per sempre nelle praterie del Rock il 18 novembre 2017.

Gli AC/DC son tornati. Riapparsi plasticamente con Power Up, ve ne avevo parlato lo scorso ottobre, quando misero on air il brano di anticipazione del disco, Shot in the Dark, uscito, per una strana coincidenza, lo stesso giorno della morte di Eddie Van Halen. Oggi, 13 novembre ecco l’album in gran spolvero. In tanti lo aspettavano, anche il mio amico Andrea, avvocato di professione e collezionista seriale di vinili e cd di hard rock, punk e metal (17mila dischi e 14mila cd, mi inchino dinanzi a tanta potenza!).

A questo punto dovrei tentare una recensione. Fossi un critico, direi che i grandi maestri dell’hard rock ora sono dei ricchissimi pensionati pieni di acciacchi, sopravvissuti alle vicende di una band immolata al più puro istinto Rock. Brani più o meno simili e via discorrendo. Ma non voglio farlo, perché sarebbe sommamente ingiusto. La Young Family e i loro cari fratelli di palco sono degli strepitosi, potenti, onesti, indefessi lavoratori Rock. Si muovono all’unisono, non sono una band ma un uomo solo, un Mazinga perfetto, che esiste grazie al cuore e al sangue di tutti, anche di Stevie, nipote di Malcolm e Angus (detta così, può sembrare un ragazzino, ma  in realtà il figlio di Stephen Crawford Young Sr, fratello di Malcolm e Angus, morto a 56 anni nel 1989, l’11 dicembre prossimo compirà 64 anni, uno in meno di Angus…).

Lo ha confermato più o meno così lo stesso Angus, il boss del gruppo: gli AC/DC sono un palazzo con fondamenta profonde, ben costruito che difficilmente crollerà. Brani nuovi e ripresi da vecchie canzoni composte anche con Malcolm. Angus ci tiene a dirlo al mondo. Malcolm era duro, critico con se stesso e gli altri. È così che si sono mossi anche per Power Up. Lo spirito di Malcolm aleggiava a Vancouver dentro lo studio di registrazione…

Questo nuovo lavoro suona forte e chiaro. L’ho messo in cuffia e ho chiuso gli occhi. Sono loro, gli AC/DC, inconfondibili. Angus risolve i brani con riff che riescono ancora a sorprendere, Brian Johnson il cui canto suona, come ricorda il critico di Rolling Stones nella review del disco, come il tubo di scarico di un camion incazzato, ce la mette tutta e, credetemi, non è facile fare quel falsetto all’acido puro, soprattutto se l’anglo-italiano annovera 73 primavere.

Sono loro, certo, Angus stretto nel suo costumino infantile, Brian con la coppola British, Cliff Williams, 70 anni, con i suoi jeans attillati e un basso che ha l’effetto del martello di Polifemo, Phil Rudd, 66 anni, la faccia da duro e la cassa simile a un metronomo. E poco importa che il riff di Code Red assomigli decisamente a quello di Back in Black (album storico di cui si sono festeggiati i 40 anni in luglio, il vero grande successo planetario della band scritto per ricordare Bon Scott, l’allora cantante della band,morto per eccessi d’alcol, ufficialmente), o che la potente Demon Fire ricordi particolarmente Whole Lotta Rosie (brano tratto dall’album Let There Be Rock del 1977). La musica degli AC/DC è questa. Non si pretenda altro.

Una macchina oliata che esegue alla perfezione quel Rock incazzato e battuto che, partito dal Blues è diventato Hard Rock e che è stato imitato da generazioni. Questi sono e questi rimarranno, consapevoli di essere, nonostante gli anni e gli acciacchi, sempre i migliori. Pochi possono permetterselo. Forti dei milioni e milioni di dischi venduti, della potente presenza sul palco e dei riff di Angus che hanno fatto studiare centinaia di chitarristi o aspiranti tali.

Ascoltare e – si spera – andare anche a vedere gli AC/DC è come entrare in un Luna Park dove sai quello che trovi, persino le emozioni che proverai. O come degustare un invecchiato e buon whisky delle Highlands. I sapori, i retrogusti, l’esplosione dell’alcol in bocca… tutto quello che ti aspetti. Anzi, meglio!

Triste addio a Eddie Van Halen, il ritorno degli AC/DC

Due le notizie che oggi tengono banco, musicalmente parlando, e delle quali non si può esimersi dal parlarne.

Parto dalla morte di una rockstar. Un cancro s’è portato via a 65 anni Eddie Van Halen, uno dei grandi chitarristi rock del Novecento, un “Superhero”, come lo ha definito Gene Simmons dei Kiss. L’olandese, fumatore accanito, sapeva come far vibrare le corde della sua chitarra, era un virtuoso nel suo genere, anche se, confesso, lo ascoltavo alla fine degli anni Settanta (il primo album del 1978, chiamato semplicemente Van Halen, era un percorso forte e fantastico nel mondo dell’hard rock in tempi punk, basti pensare alla mitica Eruption) e non mi ha catturato, invece, l’evoluzione degli anni Ottanta, dove la band sfodera una delle canzoni più famose dell’universo Rock, Jump, dall’album 1984, hit che passa ancora in radio con regolarità.

L’hard rock anni Ottanta viene rivisto da Eddie e dalla band, rielaborato, riscritto, fa storia, anche se l’hard vira, passatemelo, verso il glam: i capelli cotonati, le “uniformi” da palco curate del cantante David Lee Roth, le vocine in falsetto tirate al massimo, i synt ad ammorbidire la ruvidezza di quella chitarra che generava note a profusione millimetrica. Quello stesso strumento, agitato e perfetto, che lui aveva battezzato Frankenstrat (costruito da lui stesso, un mix di pezzi sulla base di una Stratocaster, come ben ricorda Valeria Rusconi nel bel pezzo uscito oggi su Repubblica), aveva cambiato timbro, pur rimanendo estremamente affascinante. Bravura e genio – era il re incontrastato del tapping, difficile tecnica che consiste nel suonare con entrambe le mani sul ponte della chitarra – condizioni essenziali per essere una rockstar quale era. Rip, Eddie…

Altra news da tenere in conto. Sempre ieri, 6 ottobre, e sempre nel mondo del Rock, a una morte risponde una rinascita: gli AC/DC mettono on line il singolo, Shot in the Dark – della serie: uno “shottino” non si nega a nessuno – brano-presentazione del loro nuovo album in arrivo il prossimo 13 novembre, Power Up, dopo sei anni di silenzio. Della formazione storica, quella di Back in Black per intenderci, sono rimasti in quattro, Angus Young, chitarra solista, Brian Johnson, voce, Cliff Williams al basso e Phil Rudd alla batteria. Con loro alla chitarra ritmica c’è sempre Stevie Young, nipote di Angus e del defunto fratello Malcolm, già in attività con la band nel 2014. Quanto alla canzone: la definirei, rassicurante. Insomma, da AC/DC allo stato puro. Con un Brian Johnson in ottima forma, rinato dalla sordità grazie a un apparecchio che usa le ossa del cranio come ricevitore e che gli ha permesso di tornare a cantare, agli assoli del navigato Angus, alla sezione ritmica di Williams e Rudd, potente e “scudisciante”, as usual. Spesso tutto ritorna, anche gli AC/DC…

Anniversari/ I 72 anni di Ian Paice, mitico batterista dei Deep Purple

È stato – e lo è tuttora – uno dei miei idoli. Idoli di gioventù, quelli che ti rimangono appiccicati al cuore e all’anima. Più che un uomo, un metronomo: perfetto, secco, senza sbavature, con il genio del ricamo. L’effetto? Una musica sempre piena, adrenalinica, potente, espressiva all’estremo. Sto parlando di Ian Paice: il batterista di Nottingham, oggi compie 72 anni.

Famoso per la sua militanza nei Deep Purple e negli Whitesnake, Paice merita d’essere ricordato e celebrato. Il suo assolo di oltre sei minuti nel brano The Mule  (ascoltatelo!), dall’album live Made in Japan dei Deep Purple nella formazione Mark II, per me la migliore (con Ritchie Blackmore, John Lord, Ian Gillan e Roger Glover), del 1972, resta scolpito nelle piste di registrazione come uno dei migliori della storia del Rock, assieme a quelli del compianto John “Bonzo” Bonham dei Led Zeppelin e agli altri di Ginger Baker dei Cream, volato pure lui nei palchi del cielo, lo scorso anno, entrambi conterranei.

Paice, tanto per celebrarlo fino in fondo, ha suonato con molti grandi della musica, George Harrison, Paul McCartney, il sassofonista Eddie Harris nell’album E.H. in the UK (disco del 1973 registrato dal musicista jazz con personaggi del calibro di Steve Winwood, Jeff Beck, Rick Grech, Neil Hubbard…).

Il prossimo 7 agosto uscirà Woosh!, il ventunesimo album in studio dei Deep Purple, prodotto da Bob Ezrin (ascoltate Throw My Bones). Possiamo fare tutti i discorsi che vogliamo sul fatto che la band abbia fatto la sua strada, che forse Paice e compagni potrebbero smetterla lì… Ma come possiamo fermare la loro voglia di musica? Si divertono, eccome, lo hanno dichiarato loro stessi (Ezrin incluso). Finché la salute li accompagna avremo ancora la sensazione di averli vicini, un lungo pezzo di strada percorso insieme. Piccole gioie della vita. Auguri Ian!

Power Up, a voi il nuovo album degli AC/DC

Ed eccoli, son tornati… Dopo sette anni di silenzio dall’ultimo album pubblicato il 28 novembre del 2014, Rock Or Bust. Lì, a suonare la chitarra ritmica, non c’era già più Malcolm, ammalato e poi passato per sempre nelle praterie del Rock il 18 novembre 2017.

Gli AC/DC son tornati. Riapparsi plasticamente con Power Up, ve ne avevo parlato lo scorso ottobre, quando misero on air il brano di anticipazione del disco, Shot in the Dark, uscito, per una strana coincidenza, lo stesso giorno della morte di Eddie Van Halen. Oggi, 13 novembre ecco l’album in gran spolvero. In tanti lo aspettavano, anche il mio amico Andrea, avvocato di professione e collezionista seriale di vinili e cd di hard rock, punk e metal (17mila dischi e 14mila cd, mi inchino dinanzi a tanta potenza!).

A questo punto dovrei tentare una recensione. Fossi un critico, direi che i grandi maestri dell’hard rock ora sono dei ricchissimi pensionati pieni di acciacchi, sopravvissuti alle vicende di una band immolata al più puro istinto Rock. Brani più o meno simili e via discorrendo. Ma non voglio farlo, perché sarebbe sommamente ingiusto. La Young Family e i loro cari fratelli di palco sono degli strepitosi, potenti, onesti, indefessi lavoratori Rock. Si muovono all’unisono, non sono una band ma un uomo solo, un Mazinga perfetto, che esiste grazie al cuore e al sangue di tutti, anche di Stevie, nipote di Malcolm e Angus (detta così, può sembrare un ragazzino, ma  in realtà il figlio di Stephen Crawford Young Sr, fratello di Malcolm e Angus, morto a 56 anni nel 1989, l’11 dicembre prossimo compirà 64 anni, uno in meno di Angus…).

Lo ha confermato più o meno così lo stesso Angus, il boss del gruppo: gli AC/DC sono un palazzo con fondamenta profonde, ben costruito che difficilmente crollerà. Brani nuovi e ripresi da vecchie canzoni composte anche con Malcolm. Angus ci tiene a dirlo al mondo. Malcolm era duro, critico con se stesso e gli altri. È così che si sono mossi anche per Power Up. Lo spirito di Malcolm aleggiava a Vancouver dentro lo studio di registrazione…

Questo nuovo lavoro suona forte e chiaro. L’ho messo in cuffia e ho chiuso gli occhi. Sono loro, gli AC/DC, inconfondibili. Angus risolve i brani con riff che riescono ancora a sorprendere, Brian Johnson il cui canto suona, come ricorda il critico di Rolling Stones nella review del disco, come il tubo di scarico di un camion incazzato, ce la mette tutta e, credetemi, non è facile fare quel falsetto all’acido puro, soprattutto se l’anglo-italiano annovera 73 primavere.

Sono loro, certo, Angus stretto nel suo costumino infantile, Brian con la coppola British, Cliff Williams, 70 anni, con i suoi jeans attillati e un basso che ha l’effetto del martello di Polifemo, Phil Rudd, 66 anni, la faccia da duro e la cassa simile a un metronomo. E poco importa che il riff di Code Red assomigli decisamente a quello di Back in Black (album storico di cui si sono festeggiati i 40 anni in luglio, il vero grande successo planetario della band scritto per ricordare Bon Scott, l’allora cantante della band,morto per eccessi d’alcol, ufficialmente), o che la potente Demon Fire ricordi particolarmente Whole Lotta Rosie, brano tratto dall’album Let There Be Rock del 1977). La musica degli AC/DC è questa. Non si pretenda altro.

Una macchina oliata che esegue alla perfezione quel Rock incazzato e battuto che, partito dal Blues è diventato Hard Rock e che è stata imitato da generazioni. Questi sono e questi rimarranno, consapevoli di essere, nonostante gli anni e gli acciacchi, sempre i migliori. Pochi possono permetterselo. Forti dei milioni e milioni di dischi venduti, della potente presenza sul palco e dei riff di Angus che hanno fatto studiare centinaia di chitarristi o aspiranti talii.

Ascoltare e – si spera – andare anche a vedere gli AC/DC è come entrare in un Luna Park dove sai quello che trovi, persino le emozioni che proverai. O come degustare un invecchiato e buon whisky delle Highlands. I sapori, i retrogusti, l’esplosione dell’alcol in bocca… tutto quello che ti aspetti. Anzi, meglio!

Ozzy Osbourne, arriva “Ordinary Man”, ma non è il solo… uomo comune

Oggi esce il tanto atteso disco di Ozzy Osbourne, Ordinary Man, un gran bell’album, perfetto, rètro al punto giusto, chitarre cupe ed esplosive, voce metallica ancora da “Principe delle Tenebre”, collaborazioni prestigiose (sir Elton John, Post Malone, Tom Morello, Trevis Scott, il produttore Andrew Watt alla chitarra, Duff McKagan dei Guns N’ Roses al basso, Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers alla batteria, Slash nell’assolo finale del brano che apre l’album, Streight To Hell, e in Ordinary Man).

L’ex-frontman dei Black Sabbath è un signore di 71 anni che ha vissuto senza risparmiarsi tra droghe, alcol e mattane varie, da vera rockstar. Si rende conto che sta invecchiando e che deve fare i conti con la propria vita, a maggior ragione ora che ha annunciato d’essere ammalato di Parkinson. Addio alle provocazioni, dunque? C’è da dubitarne, anche se Ozzy appare più riflessivo. Ma come dimenticare, tra le mille, quella che fece esattamente 38 anni e tre giorni fa, il 19 febbraio del 1982, quando venne arrestato a San Antonio (Texas) per aver urinato sul monumento in ricordo degli americani che morirono nella battaglia di Alamo? Intervistato, calcò la mano, dichiarando che il suo prossimo obiettivo era pisciare sul prato della Casa Bianca a Washington (allora era presidente Ronald Reagan).

Visto che stiamo parlando di Ozzy, tanto per rimanere in tema riflessivo, anche la sequenza dei titoli delle canzoni rientrano in questa sua elaborata cupezza senile. Provate a recitarli, tradotti, come se fossero l’insieme di un testo poetico…

Straight To Hell
All My Life
Goodby
Ordinary Man
Under The Graveyard
Eat Me
Scary Little Green Men
Holy For Tonight
It’s A Raid
Take What You Want

Dritto all’inferno,
Tutta la mia vita…
Arrivederci
Uomo Comune.
Sotto la tomba,
Mangiami.
Oggi è la Fine,
Spaventoso, piccolo uomo Verde,
Santo per questa notte.
È un assalto
Prendi quello che vuoi…

Oltre all’Ordinary Man di Ozzy – qui sotto le prime strofe del brano – nella storia recente della musica ci sono molti brani (e qualche titolo di disco) che portano lo stesso nome, “Uomo Comune”. Ne ho selezionati alcuni, tra i più conosciuti. 

I was unprepared for fame
Then everybody knew my name
No more lonely nights, it’s all for you
I have traveled many miles
I’ve seen tears and I’ve seen smiles
Just remember that it’s all for you
Don’t forget me as the colors fade
When the lights go down, it’s just an empty stage

Non ero pronto per la fama
Poi tutti hanno conosciuto il mio nome
Non più notti solitarie, e tutto per te
Ho percorso molte miglia
Ho visto lacrime e sorrisi
Ricorda che è tutto per te
Non dimenticarmi mentre i colori sbiadiscono
Quando le luci calano, è soltanto un palco vuoto…

 

Christy Moore artista folk irlandese impegnato, pubblica nel 1985 Ordinary Man. Il brano è stato ripreso anche da altri musicisti, come il chitarrista inglese Alvin Lee.
«I’m an ordinary man, nothing special nothing grand
I’ve had to work for everything I own
I never asked for a lot, I was happy with what I got
Enough to keep my family and my home
Now they say that times are hard and they’ve handed me my cards
They say there’s not the work to go around
And when the whistle blows, the gates will finally close
Tonight they’re going to shut this factory down
Then they’ll tear it d-o-w-n…»

«Sono un uomo normale, niente di speciale, niente di eccezionale
Ho dovuto lavorare per tutto ciò che possiedo
Non ho mai chiesto molto, ero contento di quello che avevo
Abbastanza per mantenere la mia famiglia e la mia casa
Ora dicono che i tempi sono difficili e mi hanno dato le mie carte
Dicono che non c’è lavoro abbastanza per tutti
E quando il fischio soffia, le porte si chiuderanno finalmente
Stasera chiuderanno questa fabbrica
Visto che poi l’abbatteranno…»

Eels, Una versione molto sentita questa Ordinary Man di Mark Everett, leader della band indie rock americana.
«Well, it’s another warm day in the city of cold hearts
They all just play the part of who they are
And I’m here on my own, I’d rather be alone
Than try to be someone that I’m not
And you seem like someone who could
Appreciate the fact that I’m no ordinary man…»

«Va bene, è un altro giorno caldo nella città dei cuori freddi
Tutti recitano la parte di quello che sono
Io sono qui da solo, preferirei essere solo
Piuttosto che cercare di apparire qualcuno che non sono
E tu sembri quello che potrebbe
apprezzare il fatto che non sono un uomo normale…»

Johnatan Coulton Anche il 49enne artista indie folk newyorkese ha la sua Ordinary Man dall’album Solid State del 2017…
«Now your heart’s all done
But your head won’t let you run
You’re dying where you stand.
All this “wait and see”,
All this “what will be, will be”,
That sounds like the plan
Of an ordinary man…»

«Ora il tuo cuore è finito
Ma la tua testa non ti lascia correre
Stai morendo lì dove sei.
Tutto questo “aspetta e vedi”,
Tutto questo “ciò che sarà, sarà”,
Sembra essere il piano
Di un uomo normale…»

Mika Michael Holbrook Penniman Jr., in arte Mika, può vantare una emozionante Ordinary Man, tratta dall’album No Place in Heaven del 2015.
«So you say it’s ordinary, love?
That’s impossible to do.
No such thing as ordinary, love.
I was ordinary just to you…»

«Quindi dici che è comune, amore?
Questo è impossibile.
Non esiste una cosa che sia normale, amore.
Ero normale solo per te…»

Lloyd Parks, in versione reggae pubblicata nel 1972 dal musicista jamaicano, ecco la sua Ordinary Man.
«Something told me, it was like an holiday,
And something say now: that I should stay.
It’s that crazy kind of feeling in my soul!
It’s that crazy kind of feeling, that sets me wheeling.
Why should I, now, be working this way?
And when I work, yeh, I can’t get my pay.
See, I’m just an ordinary man, yeh, yeh, yeh.
I’m just an ordinary man and you know it’s true…»

«Qualcosa mi dice che era come una vacanza
e qualcosa mi dice ora che dovrei restare.
È quella folle sensazione nella mia anima!
È quella folle sensazione, che mi fa muovere.
Perché, ora, dovrei lavorare così?
E quando lavoro, non vengo pagato.
Vedi, sono solo un uomo normale, sì, sì, sì.
Sono solo un uomo normale e sai che è vero…»

The Doobie Brothers C’è un Ordinary Man tratto da Sibling Rivalry (2000) anche per la longeva rock blues band a stelle e strisce…
«In between the doubts and the dreamin’
Comes my humble quest for a plan.
I’ve been out there hoverin’ by,
Don’t forget to pull me in sometimes.
Will you be with me as I make my journey
Through the labyrinth of time?
And I’m still waitin’ for the good Lord
To show me the way, babe.
This is who you see, this is who I am.
Please forgive me if I fall sometimes,
Just an ordinary man…»

«Tra i dubbi e il sogno
Arriva la mia sommessa ricerca di un piano.
Sono stato là fuori in bilico,
Non dimenticare di coinvolgermi qualche volta.
Verrai con me nel mio percorso
Attraverso il labirinto del tempo?
E sto ancora aspettando il buon Dio
che mi mostri la strada, piccola.
Questo è quello che vedi, questo è quello che sono.
Per favore, perdonami se a volte cado,
Sono solo un uomo normale…»

The MacQueens Una coppia nella vita e un duo alternative folk indie nel lavoro. Così cantano la loro Ordinary Man
«I’m not a hero or a villain too,
I’m not a liar, I’m an honest dude.
I might have a complex but so do you
I’ve got no love for all yours rules.
I’m just my own kind of ordinary man…»

«Non sono un eroe e nemmeno un malvagio,
Non sono un bugiardo, sono un tipo onesto.
Potrei avere un problema, ma così anche tu
Non mi appassiono per tutte le tue regole.
Sono solo il tipo di uomo normale…»

Oltre a questi autori, molti altri hanno intitolato la loro canzone Ordinary Man, dall’irlandese John Donohoe con la sua musica “folk gospel” ai Chinese Man, collettivo di dj francese, ai veronesi Kiowa, stoner rock band che ha appena rilasciato il suo primo lavoro, Bloom. E ancora, la metal band americana del Connecticut GoRJA, i Day One, band di Bristol, il cui primo album, pubblicato 20 anni fa, si intitolava proprio Ordinary Man.