Interviste: il “prossimo passo” di Roberto Occhipinti…

The Next Step. Il Prossimo Passo. È il titolo di un album uscito venerdì scorso firmato da Roberto Occhipinti. Una frase, oserei, lapidaria, che significa molto nella musica. Avanzare, trovare nuove sonorità, raccontare un futuro in note, evolvere, rischiare, rispettare.

Roberto Occhipinti è un canadese, nato a Toronto 66 anni fa, figlio di genitori siciliani di Modica emigrati in cerca di lavoro dall’altra parte dell’Oceano. È un grande contrabbassista e bassista. Viene dalla musica classica – che suona tutt’ora – è passato per la musica contemporanea, ha suonato con i Gorillaz di Damon Albarn e, da sempre, ha una grande passione per il jazz. Compositore e musicista, aperto e gioviale come il sole di quell’isola che considera il suo paradiso. Ha un fratello, Michael, chitarrista jazz di fama mondiale, 54 anni, e un cugino, David, stessa età, altro abile chitarrista. Tutti nati in Canada, cittadini canadesi ma con anche, in mano, il passaporto italiano.

The Next Step è suonato in trio. Assieme a lui, Adrean Farrugia al pianoforte e Larnell Lewis alla batteria. Per un musicista che ha frequentato le grandi orchestre, il trio è il modo migliore per esprimersi come compositore e arrangiatore. In trio Roberto ha suonato molto, per lo più con musicisti cubani, a partire dal grande Hilario Duran con cui ha condiviso per oltre vent’anni i palchi di mezzo mondo.

Prima di leggere l’intervista telefonica che ho fatto a Roberto, qualche annotazione sul disco. Un lavoro molto bello, appassionato, dove il contrabbasso viene suonato con grande tecnica perché Occhipinti passa dall’archetto alla percussione con grande naturalezza, anzi li suona contemporaneamente: la formazione classica e contemporanea viene fuori di prepotenza. L’improvvisazione non è mai esasperata, tutto calibrato tra il pianoforte di Farrugia e la batteria di Lewis che si dedica a un complesso lavoro ritmico.

Nove brani, in tutto (54 minuti e 65 secondi), sei di questi scritti da Roberto e tre riarrangiati. Il primo è di Alessandro Scarlatti, il musicista barocco con natali siciliani (sarà un caso?): O Cessate di Piagarmi, trasposto in jazz, con la voce di Ilaria Crociante, un adagio trasformato in un piccolo capolavoro “smooth” ricco di sfumature, con un evocativo assolo al contrabbasso. Il secondo è la rivisitazione di Opus Pocus, brano del mitico Jaco Pastorius, pubblicato sul primo, omonimo disco solista del bassista degli Weather Reports, uscito nel 1976. Un pezzo piuttosto difficile per tecnica di esecuzione che Roberto ha arrangiato senza snaturare la linea di basso. D’altronde Jaco amava suonare il fretless che gli permetteva certe escursioni sonore che Roberto bene interpreta nel contrabbasso… Sempre in Opus Pocus, complimenti ad Adrean Farrugia per come ha sostituito con il pianoforte l’immensa bravura di Herbie Hancock e pure la partitura al sax di Wayne Shorter.

The Peacocks, il terzo, brano, di Jimmy Rowles, è la sintesi della tecnica di Occhipinti di cui vi parlavo prima, corde suonate con l’archetto e percosse per esaltare al massimo il suono poliedrico del contrabbasso, simile a una sezione d’archi. Three Man Crew è il titolo della sesta traccia, ed è un omaggio al  concetto di trio jazz, inteso come luogo fisico e artistico, la perfezione musicale: pianoforte, basso e batteria, cosa volete di più? E i tre non fanno di certo fatica a spiegarne il concetto. Un’intesa complice e divertita di tre amici affiatati che se la raccontano davanti a un buon bicchiere di rosso morbido dai caldi tannini.

Di Occhipinti vi consiglio anche un bellissimo album del 2018 titolato Lei: Music for Solo Bass (2018), dove il musicista sfrutta al massimo la conoscenza dello strumento, per un lavoro iconografico. Altro album da tenere nella vostra collezione di ascolti è A Bend in the River del 2008, in quartetto con David Virelles, pianoforte, Luis Deniz, sax, e Dafnis Prieto alla batteria, dove trovate una bella versione di Naima di John Coltrane. Vi lascio anche un terzo disco che vale la pena ascoltare, ed è Stabilimento (2016), dove c’è un pezzo che mi ha colpito molto, ed è Dom de Iludir, bellissimo brano di Caetano Veloso

Roberto sei un contrabbassista, un compositore, hai un’etichetta discografica (Modica Music), suoni classica, contemporanea, musica latina, afrocubana, jazz e anche rock e hip hop sperimentale, vista l’esperienza con Damon Albarn e i Gorillaz…
«(Ride, ndr). È vero, mi dice in un ottimo italiano con inequivocabile inflessione sicula. Dopo il conservatorio ho iniziato a suonare musica classica nelle grandi orchestre sinfoniche, ho suonato anche in ensemble di musica contemporanea, con Luciano Berio e Salvatore Sciarrino. Però mi piace molto anche il jazz. Ho suonato tanto con musicisti cubani: con Dafnis Prieto e Horacio “El Negro” Hernández, due virtuosi batteristi, sono stato per vent’anni in trio con Hilario Durán, pianista cubano che vive a Toronto… Sono fortunato, perché grazie a tutte queste esperienze ho creato il mio linguaggio musicale».

Apriamo una parentesi: sei nato a Toronto, dove vivi, ma sei figlio di italiani. Così anche Durán, nato a Cuba ma cittadino canadese…
«Credo che Toronto sia la città più multiculturale del mondo. È un luogo effervescente, dove vivono tante etnie diverse, si parlano altrettante lingue diverse. Toronto ha una ricca popolazione di origine italiana che continua a parlare italiano. I miei genitori sono partiti da Modica agli inizi degli anni Cinquanta, per venire qui a lavorare. I Canadesi sono diversi dagli americani: qui praticamente tutti si sentono orgogliosamente canadesi ma anche inglesi, francesi, italiani… C’è sempre un piede in due mondi e credo sia per questo che abbiamo doppie, triple mentalità.  Anche riguardo al cibo siamo così: io mangio a mezzogiorno italiano, la sera tailandese, il giorno dopo cinese, l’altro ancora indiano. Mi piace cambiare, è naturale per me. E come per il cibo è così per la musica. Siamo un popolo cortese, siamo neutrali, c’è da aver paura solo quando giochiamo a hockey!».

Perché il contrabbasso?
Da ragazzo nella biblioteca della scuola ho ascoltato Oscar Peterson (mitico pianista, ndr). Suonava in trio con Ray Brown al contrabbasso ed Ed Thigpen alla batteria. Il contrabbasso di Ray Brown mi ha incantato e grazie a lui ho deciso cosa volevo suonare e cosa sarei diventato».

Hai dedicato un disco al tuo strumento, Lei: Music for Solo Bass
«Tutto è nato perché avevo affittato una casa a Ortigia, Siracusa. Nella chiesa di San Cristoforo c’era una mostra dell’artista romagnolo Mauro Drudi, chiamata “Lei”: (Drudi è un artista che, partito da un volto, quello della Vergine Annunciata di Antonello da Messina, lo ha reinterpretato in diversi modi, tonalità, colori, dipinti su tavola e su tela, ndr). In quella chiesa avevo fatto un concerto e ne ricordavo l’acustica. Così, una volta tornato a casa, a Toronto, ho acquistato un nuovo microfono e l’ho provato da solo, suonando un’oretta, nella cantina di casa mia. Quel lavoro, riascoltandolo, l’ho visto bene come sottofondo alla mostra di Drudi. L’ho inciso e l’ho mandato a Mauro dicendo che poteva usarlo come colonna sonora. Se ascolti bene, c’è anche, a tratti, il rumore di sottofondo della caldaia (ride, ndr)».

Un disco che ho apprezzato molto! La Sicilia, comunque, ce l’hai sempre nel cuore. In Stabilimento, l’immagine di copertina sono le rovine della Fornace Pennisi, sempre di Siracusa…
«Vero, ci andavo a fare il bagno da bambino. Ho iniziato a frequentare la Sicilia da quando avevo sei anni! Scherzo sempre con i miei amici siciliani. Dico loro che sono l’Ultimo dei… Modicani! Allora era sconosciuta, oggi è famosissima perché è diventata uno dei simboli della saga del commissario Montalbano. Mio padre e mia madre se ne andarono da Modica nel 1953. Non perché volevano andare all’estero, ma perché costretti. Non avevano nemmeno il pane per mangiare…».

Rispetto a Toronto l’isola ha un clima più… mite!
«Sono di Toronto ma non ho mai sopportato il freddo! Per questo amo la Sicilia, è una terra ricca di cultura, calda!».

Sei un artista affermato. Hai all’attivo numerosi premi vinti per la tua professione, tra cui ben 5 Juno Awards. Anche tuo fratello Michael ne ha vinti tre…
«Pensa che a un’edizione dei Juno Awards eravamo entrambi candidati, uno contro l’altro. È stato divertente: lui per aver lavorato a un progetto, diventato un disco, sulla musica tradizionale siciliana, basato sul viaggio in Sicilia dell’etnomusiocologo Alan Lomax fatto tra il 1953 e il 1954, The Sicilian Jazz Project, io per il disco A Bend in the River! Siamo una famiglia musicale, è vero! Ma siamo stati anche fortunati di essere nati in Canada. Ai miei tempi, in Ontario, i college avevano l’orchestra sinfonica, la banda e il coro. C’era la possibilità di studiare, e bene, la musica. In Ontario ci sono molte altre famiglie musicali oltre alla nostra! Se fossi nato in Sicilia in quegli anni, sarei finito a fare il mestiere di mio padre, di mio nonno e del mio bisnonno, e cioè, il muratore… Il sistema di studio che avevamo in Ontario era fantastico. Nel corso degli anni, colpa della crisi economica, di altri modi di pensare, i tagli alla cultura sono stati sempre più sostanziosi, con i risultati che vediamo ora, un appiattimento musicale e culturale…».

Comunque in famiglia la musica doveva avere un ruolo importante!
«È chiaro che nella famiglia Occhipinti ci fosse già una propensione allo studio della musica. Ho cugini a New York che fanno i musicisti. Mio padre, come sai, faceva il muratore, scalpellino, ma conosceva l’opera e la cantava! A Modica lavorava anche per il Teatro cittadino, un vero gioiello, contribuiva alla manutenzione e così si ascoltava le opere in cartellone. Sono cresciuto ascoltando tanta musica. Mio papà comprava molti dischi… Ho anche un “figlio musicale” che però non ha avuto le stesse opportunità nostre. Purtroppo non c’è valore oggi per la musica e la cultura…».

C’è molto appiattimento, tanta banalità nel mainstream…
«Vero, però in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna sto vedendo una generazione preparata e colta, con un livello musicale altissimo che sta cercando di uscire allo scoperto. Io, mio fratello, mio cugino abbiamo frequentato l’Humber College, istituto prestigioso, l’equivalente del Berklee College of Music di Boston. Questi ragazzi vengono dalle stesse scuole… In più, i giovani, grazie alla tecnologia, hanno informazioni che noi non avevamo prima, tutto gira molto più velocemente».

Roberto raccontami dei Gorillaz e di Damon Albarn…
«Si parla di vent’anni fa, al primo tour dei Gorillaz in Nord America. Il loro bassista, un jamaicano che aveva avuto problemi non risolti con la giustizia americana, venne arrestato non appena misero piede a Toronto La band si trovò inguaiata e Albarn iniziò a cercare convulsamente un sostituto. Grazie a conoscenze, allora i Gorillaz e io eravamo sotto contratto della stessa casa discografica, la EMI, arrivarono a me. Per farla breve, mi ascoltarono, eseguii la partitura dei loro brani e mi ritrovai sul palco senza aver ascoltato il disco che stavano portando live. Con loro ho fatto praticamente tutta la tournée americana e tra di noi s’è creata una vera amicizia. Damon Albarn successivamente mi ha coinvolto in un progetto musicale in Mali e, grazie sempre a quest’amicizia, ho conosciuto Tony Allen, che faceva parte di un’altra band-progetto di Albarn, The Good, The Bad & The Queen. Ho suonato con Tony, ed è stato un grande onore…».

Scivolo nell’attualità: cosa pensi della guerra di Putin in Ucraina e dell’allontanamento di Valerij Gergiev dalla Scala di Milano?
«Mi ha colpito molto, e con me i canadesi, visto che il mio Paese ospita una grandissima comunità ucraina: qui a Toronto quasi tutti hanno un amico/a ucraino/a. Sono stato in Russia a suonare e incidere tre volte e ti devo dire che è un Paese stranissimo. Il mio primo maestro di contrabbasso classico, Joel Quarrington, oggi uno dei più grandi contrabbassisti classici del mondo, conosce piuttosto bene Valerij Gergiev, il direttore d’orchestra molto amico di Putin. So che in Italia s’è sollevato un caso per il suo allontanamento dalla Scala perché non s’è dissociato da questa guerra. Credo che noi musicisti dobbiamo prendere posizione, non sono d’accordo che la musica sia altro. La musica fa parte della vita e i musicisti devono dire che c’è qualcosa che non va in tutto questo, dobbiamo marcare una linea sulla sabbia oltre la quale non si deve andare. Per quello che sta succedendo oggi e per come s’è comportato, devo abbandonare tutto il rispetto che ho per Gergiev. È una questione di umanità e non di politica».

Roberto, porterai in Italia il tuo The Next Step?
«Ora è molto difficile. Vorrei venire in Europa, ci sarebbe il Jazzahead! in Germania a fine aprile (quest’anno la kermesse di Brema incontrerà il jazz canadese, ndr). Sto comunque cercando di organizzare per settembre, magari direttamente in Italia!».

Grazie del tuo tempo Roberto, spero di sentirti presto…
«Aspetta, aspetta, prima ti faccio un regalo, un secondo di pazienza…».

Rumori di sottofondo, poi arriva il suono del contrabbasso. «Lo senti?», mi urla. «Sì, sì, forte e chiaro!», rispondo. Un paio di minuti di musica, tutta per me! Che emozione… «È Chelsea Bridge di Billy Strayhorn! Ora ti lascio, stasera ho un concerto…».

Com’è nata la musica? Risponde Stefano Zenni

Vi siete mai chiesti, almeno una volta, come e quando sia nata la musica? Chi abbia cantato per la prima volta, chi, dei nostri antichi progenitori, abbia avuto l’intuizione di inventare un flauto, pizzicare una corda, far vibrare un tronco, insomma trasformare un semplice rumore in suono? Ultimamente sto leggendo alcuni libri che parlano proprio di questo. Uno in particolare mi ha colpito: si intitola Musica dal Profondo (Codice Edizioni) lo ha scritto un musicologo e musicista americano, Victor Grauer, nel 2011.

Nove anni fa fece molto scalpore per le ipotesi che lo studioso metteva a disposizione dopo anni di ricerca (Grauer ha lavorato anche con il famoso etnomusicologo Alan Lomax, con lui ha messo a punto la cantometrica, un sistema di codifica dei popoli in base ai canti): per riassumere velocemente la teoria dello studioso, sappiate che la musica per Grauer è nata in Africa, e questo è assodato da tempo.

Quando parlo di musica, però, intendo quella polifonica, costruita, pensata con uno sviluppo preciso dove anche l’improvvisazione libera era incanalata in una forma ragionata e condivisa. Una musica che forse risale a ventimila anni fa, creata da Boscimani e Pigmei, popolazioni che abitavano il continente africano in zone molto distanti tra loro. Alcuni erano raccoglitori, cioè vivevano dei frutti della terra, altri erano cacciatori. Proprio attraverso i canti tradizionali di questi due popoli, Grauer ha notato come ci fossero molte basi comuni, ipotizzando dunque una lontana matrice comune. Queste popolazioni, poi, hanno dato vita a migrazioni (la teoria dell’out of Africa) che nei millenni li ha fatti disperdere in molte aree del mondo portandosi dietro anche il canto, dote straordinaria, aspetto culturale e spirituale…

Chi ha scritto la prefazione di Musica dal Profondo per l’Italia è stato un musicologo, docente e musicista. Uno dei maggiori esperti internazionali di musica afroamericana, Stefano Zenni. Classe 1962, Zenni, titolare della cattedra di Storia del jazz e della musica afroamericana al Conservatorio di Bologna, dove insegna anche Analisi delle forme compositive e performative del  jazz, è stato l’unico vero “addetto ai lavori”, pianista, jazzista, studioso di musica, ad aver scritto l’introduzione del libro a Grauer. Negli altri Paesi dove è stato publicato, il compito è stato affidato ad antropologi ed etnomusicologi… «Il sostegno di Zenni è stato di gran lunga il più entusiasta ed efficace…» confidava Grauer in un’intervista rilasciata allora al quotidiano Il Manifesto.

Stefano Zenni, 58 anni, è musicologo, docente al conservatorio di Bologna e musicista jazz

Dunque Stefano, da dove iniziamo? Partiamo dal libro di Grauer…
«Devo dirti che la teoria di Grauer, seppur continui a essere valida nell’intuizione primaria, è stata radicalmente sovvertita dai nuovi studi sul DNA antico. Anzi, tutte le teorie più importanti sulla nascita e la diffusione di homo sapiens sono state messe in dubbio dai nuovi approcci scientifici sullo studio del genoma attraverso le mappe genetiche ricavate da ossa millenarie. A una decina d’anni dalla pubblicazione di Musica dal Profondo, le cose sono cambiate molto. L’intuizione di Grauer, e cioè che la musica sia un’attività coltivata da ben prima di quanto si sia pensato finora, è giusta. Ma quello che s’è rivelato sbagliato è tutto il resto, soprattutto le ipotesi sulle migrazioni, che si basavano su studi come quelli del genetista e antropologo Luigi Luca Cavalli Sforza, poi superati proprio da un allievo di Sforza, David Reich, autore di uno splendido libro pubblicato lo scorso anno, Chi siamo e come siamo arrivati fin qui (Raffaello Cortina Editore) dove lo scienziato racconta i progressi enormi fatti sul DNA antico che hanno rivisto – e continuano a rivedere – la storia dell’uomo».

Grauer ha comunque avuto un grande merito…
«Con Grauer il tema di una storia “profonda” della musica è diventato un fatto assodato. Da tempo, grazie alla tecnologia e ai progressi nella genetica siamo stati in grado di estendere il concetto di storia dell’uomo retrocedendo di millenni. La storia “profonda” ha partorito riflessioni inevitabili sulla cultura che spesso sono ancora senza risposta. Per esempio: come e quando è nato il linguaggio? Cosa ci dicono i manufatti o le pitture rupestri scoperti negli anni? Sono segni simbolici, segni culturali? Si discute molto anche se anche l’uomo di Neanderthal manifestasse un comportamento simbolico. Ora il discorso si fa ben più complesso: le ricerche sul DNA hanno portato addirittura alla scoperta di popoli di cui non si conosceva l’esistenza, quelli che Reich nel suo libro definisce “fantasmi”, di cui abbiamo le tracce genetiche ma non archeologiche, sviluppati, cresciuti ed estinti nell’arco di pochi secoli».

Sulla musica cosa possiamo sapere o intuire?
«La musica è sempre stata estranea a queste riflessioni, per il fatto che non abbiamo tracce concrete, come le pitture rupestri, che impongono riflessioni e consentono una convergenza tra studiosi. Questo, secondo me, è accaduto per due motivi. Il primo, oggettivo: la musica lascia molte meno tracce di una pittura rupestre. La prova fattuale più antica della musicalità di Sapiens sono dei flauti d’osso risalenti a 35mila anni fa scoperti in Germania. Ma non sappiamo che tipo di musica venisse suonata con questi strumenti… ciò scoraggia i musicologi dal fare ipotesi. Il secondo è la chiusura culturale che la musicologia ha avuto verso le conoscenze delle discipline storiche. Il musicologo lavora su documenti scritti, l’etnomusicologo su culture esistenti. Nessuno si azzarda a fare ipotesi senza alcuna prova. È un modo di studiare tipicamente anglosassone: si rimane attaccati alle prove più palpabili ma si fanno poche ipotesi».

Qual è la tua opinione in proposito?
«Se posso, io sono ancora più audace di Grauer. Fare musica implica determinate capacità cognitive, per cui possiamo parlare di musica anche dove non ci sono manufatti a supportarne l’esistenza. Pensa, ad esempio, a un un nostro progenitore che migliaia di anni fa ha concepito una pietra tagliente bifacciale. Progettare e realizzare un simile manufatto implica il riuscire a concepire ragionamenti complessi, avere in testa un set di operazioni ben precise, un progetto e una finalità… Perché mai, quindi, un essere dotato di queste capacità progettuali e cognitive non avrebbe potuto fare anche musica?».

La tavoletta di Blombos

Cioè mi stai dicendo che era impossibile che un nostro progenitore capace di progettare utensili complessi non facesse anche musica…
«Ti faccio un esempio: hai presente le tavolette di Blombos? Un tesoro ritrovato in una grotta a 300 chilometri da Città del Capo negli anni Novanta. Oltre a vari manufatti (punte di pietra finemente lavorate, gusci forati per farne collane, N.d.R.) ci sono, appunto, due tavolette di ocra rossa incise con decorazioni geometriche risalenti a 75mila anni fa. Osservale: pensare ed eseguire incisioni così perfette che danno vita a figure geometriche è esattamente l’espressione di quanto sostenevo prima: per concepire un simile manufatto questi individui dovevano essere dotati di un principio combinatorio, su una base di linee astratte hanno creato il concetto di angolo per poi formare un rombo… Se 75mila anni fa erano capaci di questo, certamente potevano anche combinare un set di altezze musicali, cioè cantare e suonare delle melodie».

La genetica sta rivoluzionando l’idea che gli studiosi si erano fatti della diffusione dell’uomo e del suo sviluppo.
«Alcuni mesi fa ho letto un interessantissimo articolo pubblicato sulla rivista Internazionale, dove in sostanza si dice che sulle origini di Sapiens la scienza sta facendo passi talmente veloci che spesso studi e libri freschi di stampa sono già sorpassati. L’affascinante è che in pochi anni le lancette del tempo per lo sviluppo cognitivo dell’uomo si sono spostate indietro in modo drastico. Il DNA antico ha evidenziato molto altro, ad esempio che c’erano molti più gruppi di ominidi, alcuni più sviluppati di altri, gruppi che si sono formati, sviluppati, incrociati con altri, e poi estinti… l’unica cosa chiara è che le vecchie teorie sull’evoluzione umana sono fatalmente cadute. Dopo il libro di Grauer la storia dell’umanità è stata profondamente ridisegnata, soprattutto quando si parla di migrazioni».

Frame dal film di Werner Herzog “Cave of Forgotten Dreams” (2011)

Quindi non possiamo più sostenere un’evoluzione dalla pietra al computer!
«No, questi studi hanno sparigliato le carte. Non è più così chiaro come e quando sono avvenuti certi sviluppi cognitivi. Inevitabilmente anche la musicologia dopo 150 anni di certezze comincia a scontrarsi con l’evidenza. Dovremmo tutti guardare un docufilm illuminante su questi argomenti. Si tratta di Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog, pellicola sugli splendidi disegni trovati nelle grotte di Chauvet in Francia (tra l’altro, splendida la colonna sonora di Ernst Reijseger!). Disegni spettacolari fatti da mani esperte e da menti capaci di elaborare concetti moderni: vedi ad esempio il bufalo in corsa dipinto con molte zampe per simulare, come in un’immagine cinematografica, il movimento… In quel film c’è anche un accenno alla musica che è molto suggestivo. Quello attuale sulla ricerca dell’origine dell’uomo è un momento esaltante, una fase di sviluppo tumultuosa, anche frustrante perché non abbiamo ancora tante risposte, ma in sé straordinaria».

Veniamo a oggi: la musica che ben conosciamo secondo me ha subìto come una improvvisa decelerazione. Mi sembra che ci si appiattisca su modelli oliati senza cercare nuove frontiere, ovviamente le eccezioni ci sono sempre, ma sono poche…
«La musica oggi è frutto della globalizzazione del gusto. All’occidentale, però. Mi viene da pensare alla Cina, con cui intratteniamo rapporti continui. L’Occidente ha influenzato la musica pop e classica in Cina ma non sta succedendo il contrario. Ciò significa che un modello di gusto  occidentale si è imposto e uniforma altri possibili modelli, complice la tecnologia: gli strumenti a disposizione sono gli stessi in tutto il mondo e il mercato detta le sue regole globali. Questo inevitabilmente impone a chi è creativo sfide diverse. Il problema della musica oggi non è la qualità ma la possibilità di farla emergere. Il fatto, poi, che grazie alla tecnologia sono venuti meno gli intermediari (produttori, case discografiche, ecc) amplifica il problema.

Cioè una massificazione che si porta dietro una mediocrità costante?
«Non tanto una mediocrità, quanto uno scollamento dalla realtà. È una mia sensazione, ma rispetto ad altre forme d’arte, come il cinema, il teatro o la letteratura, la musica oggi mi sembra sia meno in grado di raccontare quello che siamo, le nostre inquietudini, le nostre insicurezze. Mi riferisco a tutti i generi, con l’eccezione forse dell’hip hop. Il cinema, ad esempio, racconta le domande che oggi si pone la nostra società, sa tradurle in forme artistiche anche innovative. È come se invece i musicisti fossero disconnessi dal mondo… in questo non vedo segnali di cambiamento a breve termine».