«L’editore, come il musicista, non è altro che un traghettatore di storie». È una frase che mi è piaciuta molto nella sua pulita metafora. L’ho letta in un’intervista a Olivia Sellerio, mi pare l’avesse pubblicata La Repubblica, cantante (il disco Zara Zabara: 12 canzoni per Montalbano è un piccolo gioiello) ed editrice con il fratello Antonio dell’omonima casa editrice palermitana.
Mi è venuta in mente ascoltando un disco uscito a settembre dal titolo Point Of No Return dei siciliani Libertango 5tet. La Sicilia come crocevia di popoli e di artisti vanta un bel parterre di musicisti, a partire da Franco Battiato che ha raccolto l’essenza di quelle contaminazioni mediterranee, alla pianista jazz Cettina Donato, da Mario Venuti ad Alborosie, da Salvatore Sciarrino a Sade Mangiaracina, da Daniela Spalletta, di cui vi ho parlato pochi giorni fa, al sassofonista Francesco Cafiso. Musicisti di varia estrazione, dal jazz alla classica, dal pop al reggae, ne ho citati solo alcuni, non me ne vogliano gli altri che ho dimenticato. E, a questi, aggiungo i Libertango 5tet, band che sta insieme dagli anni Novanta, che s’è eclissata per una quindicina d’anni e che, nel mezzo del cammin della sua vita, è ritornata con un disco davvero interessante.
I cinque componenti sono tutti bravissimi e pignoli musicisti che sanno il fatto loro, venuti su a cultura e musica, ascoltata e suonata. Francesco Calì alla fisarmonica e al pianoforte, Gino De Vita alle chitarre, Marcello Leanza ai fiati, Giovanni Arena al contrabasso e basso elettrico, Ruggero Rotolo alla batteria.
Point Of No Return è proprio un traghettatore di storie e stili musicali. Sembra – provatelo ad ascoltare in sequenza di brani – un racconto che inizia forte in Argentina con Five or Four Tango, quello alla Astor Piazzolla (non a caso hanno deciso di chiamarsi Libertango!), per poi proseguire con il brano che dà il titolo all’album, Point Of No Return, un’ariosa, brasileira bossa jazz che tanto mi fa ricordare la scuola “mineira”, quella dei vari Milton Nascimento, Wagner Tiso, Beto Guedes, o le influenze di Egberto Gismonti, con la sua musica estremamente colta, contaminata da folk, jazz, classica… A proposito, anche la madre di Egberto, Ruth Gismonti, dotata di una gran voce, è di origini siciliane…
Un’orchestra d’archi, molto cinematografica, riprende le redini nel terzo brano, I’ll Be There, dove il pianoforte di Calì si fonde con una struggente chitarra di De Vita. Siamo ancora in America Latina, ma si inizia ad avvertire la sicilianità in temi musicali cari alle colonne sonore tipiche di un film alla Giuseppe Tornatore.
Il viaggio ha una sterzata improvvisa, allegra, popolare con una fisarmonica da festa e da danze paesane con Alysia’s Dance. Sezioni ritmiche al massimo (vero divertimento per Ruggero Rotolo che lancia stimoli continui alla serotonina) e una chitarra acustica che racconta la gioia di una serata d’allegria in riva al mare in una notte d’estate.
I brani si alternano, da sognanti session latin jazz ad accenti di jazz classico, oserei, liberty, con gli strumenti che si richiamano e il contrabbasso che marcia che è un piacere, camminando felpato su sax, chitarra e fisarmonica (Three Brothers).
Brano complesso, in chiave contemporanea, Mal d’Afrique, è tecnicamente perfetto da rischiare di sembrare senz’anima. Pensiero che svanisce presto nel successivo Dr. Tomas e in Life and Death, intensi e struggenti.
Fine col botto con Tango for Sigfred, dove si fa tango, secco, vellutato, sensuale, ma si usa la lingua jazz intrecciandola a una chitarra rock, quasi acida, che ricorda come la musica sia interconnessa e i generi siano solo un aspetto secondario di quel fiume di note placido o impetuoso che ha traghettato l’ascoltatore lungo un disco che vale davvero la pena mettere nella propria collezione.