Siamo arrivati alla fine. Altri cinque dischi, più un sesto, la mia colonna sonora di questo 2020, anno che resterà impresso nella memoria di ognuno di noi. Ancora una volta c’è di tutto, dal jazz al desert blues, dall’eclettismo al rock – con il monolitico Boss -, passando per un altro grande, Nick Cave, in versione solitaria e unplugged, come si diceva una volta. Divertitevi!
16 – HH Lionel Loueke (uscito il 16 ottobre)
Il signore in questione è nato in Benin, Africa Occidentale, ha 47 anni e una naturale predisposizione alla chitarra. Anzi, è un autentico virtuoso dello strumento, che domina con tecnica ferrea, insuperabile. Il segreto di questo disco sta tutto nel titolo, in quelle due misteriose acca maiuscole che, sulla cover del disco, hanno un bell’impatto grafico. HH sta per Herbie Hancock. L’ottantenne pianista e compositore è stato il suo maestro, mentore, guida. Probabilmente non è un caso che a HH segua LL: Hancock ha selezionato Loueke per l’ingresso al Thelonious Monk Institute of Jazz – organizzazione senza scopo di lucro che viaggia tra insegnamento della cultura musicale e lavoro sociale e che, dopo oltre trent’anni d’attività, nel 2018, ha cambiato nome in Herbie Hancock Institute of Jazz, omaggio al lavoro svolto dal pianista nell’istituto – lo ha, quindi, voluto in sue produzioni, come Possibilities, River: The Joni Letters e The Imagine Project, ed è parte integrante del gruppo che lo segue quando si esibisce dal vivo. HH, dunque, vuole essere un omaggio alla persona che più ha creduto nelle sue qualità artistiche e musicali. Un disco in cui Lionel e la sua chitarra, rivedono e ripropongono brani scritti da Hancock tra il 1962 e il 1983, il periodo d’oro del compositore (vedi Watermelon Man (1962), Cantaloupe Island (1964), Butterfly (1974)… Un disco che mi sta accompagnando fra le tante facce del jazz e la gioia dell’essenza della musica.
17 – Optimisme – Songhoy Blues (uscito il 23 ottobre)
Optimisme! Ne abbiamo bisogno. E non è un titolo nato a caso quello dei Songhoy Blues, band del Mali al suo terzo disco. Un gran bel lavoro, a dirla tutta, un desert blues di prim’ordine, che sprizza gioia, potenza, pur trattando argomenti delicati dalla politica, al riscatto femminile, alla pandemia…. L’ottimismo è il profumo della vita diceva Tonino Guerra, parafrasando Gianfranco Giannini, suo amico di Pennabilli, in uno spot di qualche anno fa. E per questi quattro musicisti maliani è proprio questo il senso del nuovo lavoro curato dal chitarrista e producer Matt Sweeney per la Fat Possum. La loro storia è esemplare: tre, Aliou Touré, Garba Touré e Oumar Touré, provengono dal Nord del Paese. A causa della guerra civile e del regime islamico che si era instaurato, sono stati costretti all’esilio, a Bamako, Sud del Mali, dove hanno conosciuto il batterista Nathanael Dembele. Sono stati notati da Damon Albarn (frontman dei Blur, e nei Gorillaz), Julian Casablancas dei The Strokes e da Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs, che ha prodotto il loro primo album, Music In Exile (2015), al quale è seguito Résistance (2016), che ha avuto la partecipazione di Iggy Pop nel brano Sahara. Ascoltate Badala, il brano che apre il disco e poi ne parliamo!
18 – Letter To You – Bruce Springsteen (uscito il 23 ottobre)
Camminare e perdersi tra i ricordi è stata una delle prerogative di questo 2020. Lo ha fatto, con un album ben costruito, toccante e coinvolgente al punto giusto, quel gran cantastorie rock che è Bruce Springsteen con Letter To You. Di lui, dell’album e del docufilm che porta lo stesso titolo ne ho parlato a lungo in questo post. Cosa resta da dire di un uomo che a 71 anni decide di guardarsi indietro, con nostalgia, certo, ma con tutta la saggezza e il senso di ringraziamento per una vita che gli ha fatto incontrare veri amici, colleghi, musicisti, persone straordinarie con cui ha condiviso praticamente tutta la sua esistenza? Un album istruttivo, malinconico nel ricordo di chi non c’è più, ma consapevole che il tempo non passa mai invano e che alla fine ciò che ti resta, il tuo lascito, è cosa sei stato e come hai visto il mondo intorno a te. ‘Neath a crown of mongrel trees /I pulled that bothersome thread/Got down on my knees/Grabbed my pen and bowed my head/Tried to summon all that my heart finds true/And send it in my letter to you (da Letter To You).
19 – Hey Clockface – Elvis Costello (uscito il 30 ottobre)
E siamo arrivati al cambiamento. Nel lungo tour di questi 20 album (più uno) sembra fatto apposta per il momento attuale che stiamo vivendo. Costello, gran musicista e vecchia volpe della musica, pubblica un album che eclettico è dir poco. È nel suo stile, questa volta però ha osato in modo provocante ed eccentrico saltare da un genere all’altro, a dimostrazione che può farlo solo chi la musica la conosce (e la suona) per davvero. Registrato una parte in solitaria in piena pandemia nello studio Suomenlinnan di Helsinki e, quindi, a Parigi con un quintetto jazz costituito per l’occasione, ha partorito 14 canzoni, ognuna un mondo a sé, che parlano di tutto quello che siamo e siamo stati. A partire da Revolution #49, primo brano (parlato) con un attacco “magico” alla Dhafer Youssef: «Love is the one thing we can save», dice con voce scura e ben scandita. Da qui in poi è un crescendo. In No flag sembra un punk che tira le somme del suo credo: «I’ve got no religion, I’ve got no philosophy, I’ve got a head full of ideas and words that don’t seem to belong to me». E così andando. C’è anche del swing, omaggio a Fats Waller, pianista famoso (e corposo) in attività negli anni Trenta, noto per le sue espressioni facciali e per quegli occhi che roteava come un posseduto (Hey Clockface/How Can You Face Me). Cambiare non solo si può, ma si deve…
20 – Idiot Prayer – Nick Cave – Alone at Alexandra Palace (uscito il 20 novembre)
È un docufilm trasmesso in steaming a pagamento in luglio (doveva essere nelle sale in Italia dal 16 al 18 novembre, ma il lockdown che ha messo il lucchetto anche ai cinema i e ai teatri ha fatto saltare il tutto) e un disco uscito in Italia a novembre. In questo mese sembrava d’essere ripiombati a marzo: la seconda ondata di contagi era un fiume in piena. Come lo sono le canzoni registrate dal magico musicista australiano nel vittoriano Alexandra Palace di Londra a giugno, nelle fasi finali del lockdown inglese. Radio 3 della Rai ha trasmesso l’intero concerto nella notte tra domenica 8 novembre e lunedì 9 in collaborazione con EBU (European Broadcasting Union). All’Ally Pally, da solo senza i sui Bad Seeds, Cave ha voluto dar vita a quello che è un suo progetto, al di là del momento storico, cercare l’intima essenza del suo lungo percorso artistico e personale, soprattutto dopo la morte del figlio Arthur nel 2015, destrutturando 22 suoi brani, riducendoli all’osso: la sua voce baritonale e un pianoforte. La magia di questo lavoro sta propio in questo momento di estrema intimità dell’artista che cerca di tessere un filo, sottile ma solido, della sua vita, in modo da non perdere l’essenziale, che poi è quello che conta, senza sovrastrutture né make up. Ed ecco, dunque, Papa Won’t Leave You, Henry (1992) qui nella versione originale con i Bad Seeds e qui in quella “alone”. Lo stesso dicasi per Galleon Ship, qui e qui: solo due esempi del lavoro di questo straordinario artista. Arie novembrine che mi hanno fatto riflettere…
E siamo arrivati al “più uno”. Si tratta di un disco uscito il 4 dicembre per la prestigiosa etichetta Deutsche Grammophon. Un disco piuttosto particolare, di musica classica contemporanea, di non facile ascolto, ma in qualche modo catartico. Sto parlando di L.I.T.A.N.I.E.S del belga Nicholas Lens. Una piccola opera da camera il cui libretto è stato scritto da Nick Cave, sì ancora lui! Opera minimalista, essenziale, frutto, anche questa, del lockdown. Lens l’ha eseguita con 11 musicisti che, a turno, sono andati a casa sua per registrare i singoli “interventi”. Nel comporla ha voluto rappresentare la pace – che ha anche un senso di cupa bellezza e dolcezza – che lui stesso ha avvertito nei templi Zen giapponesi, durante un viaggio nel Sol Levante. Suono minimal, testi altrettanto “ossuti”. Vere e proprie litanie «Where are you? Become yourself so I can see you» sussurra Clara-Lane, moglie di Lens, coinvolta nel lavoro perché in quarantena, nella prima litania, Litany of Divine Absence. E così, una per una, come in un rosario, scivolano le 12 litanie, tra archi, accenni di pianoforte, qualche fiato, e qualche intervento canoro dello stesso Cave come in Litany of Gathering Up. Disco per me preparatorio alla fine di questo 2020. Una sorta di cammino meditativo e di purificazione.