Ode al legno, Marco Bardoscia tra Musica e Natura

Marco Bardoscia – Foto Roberto Cifarelli

Il 30 giugno scorso è uscito, per Tǔk Music, il nuovo lavoro di Marco Bardoscia, Legnomadre. Un disco che ho ascoltato più e più volte, di alta cifra stilistica. Bardoscia è uno dei nostri musicisti più apprezzati, contrabbassista di grande versatilità, pulito, preciso. Con lui, insieme a William Greco, al pianoforte, e Dario Congedo alla batteria, membri “storici” del suo trio, c’è l’Orchestra da camera di Perugia, ci sono due musicisti che stimo e amo particolarmente, Gabriele Mirabassi al clarinetto e Simone Padovani alle percussioni. Oltre a un cameo di Alessandro Mannarino, Lágrimas Negras, di cui vi parlerà tra poco lo stesso Marco. Mannarino sta portando in giro il suo live che ha battezzato Corde, e con lui in tournée c’è Bardoscia. Praticamente un atto dovuto, visto che i due artisti in comune hanno lo stesso modo di concepire musica e palco.

Ho chiamato Marco, al momento dell’intervista, era a Perugia per Umbria Jazz, dove si è esibito con Paolo Fresu. Mi ha intrigato molto il concept e quel titolo Legnomadre, diventato un’unica parola, una fusione nemmeno troppo simbolica tra un elemento della Natura e la Natura stessa. Il legno da migliaia di anni è “compagno dell’uomo”. Serve a scaldare, a riparare, è una delle forme di vita più importanti per l’umanità (e non solo). Con il legno si fanno anche gli strumenti. Il legno calore dell’anima. Tutti gli strumenti suonati nel disco a partire dal contrabbasso, sono fatti di legno, clarinetto di Mirabassi e parti delle percussioni incluse. 

Il lavoro di Marco si compone di dieci brani con uno svolgimento logico dove la musica classica si fonde con il jazz, lo Choro, il Son cubano, il Samba. Il legno ricorre nei titoli, a partire dalla title track Legnomadre, sviluppata nel pezzo che apre il disco in versione orchestrale e scarnificata, essenziale quanto struggente, a chiudere il concept album. In mezzo, oltre a Lágrimas Negras, ecco Madeira, Sequoia, Palo Santo. Bardoscia in un titolo ricorre anche a un libro di Christian Bobin, Abitare poeticamente il mondo, che racchiude il senso di una visione postumanista, dove l’uomo è uno dei tanti esseri viventi coabitante lo stesso pianeta, non il fulcro della Terra. La lezione più grande ci viene proprio dalla Natura e dall’armonia che la regola, come in un consesso musicale ben organizzato in cui c’è spazio per ognuno e tutti sono importanti allo stesso modo e, proprio grazie a questa pluralità, il suono diventa armonia. 

Marco, il legno è una chiave di lettura di un mondo che così non può andare avanti?
«È esattamente quello, hai colto il corpo del disco, il messaggio fondamentale. Soprattutto nel post pandemico c’è stata e c’è la tendenza a essere molto concentrati su se stessi e molto poco rispetto a quello che succede intorno a noi. La pandemia sotto questo punto di vista è stata terribile. Ha enfatizzato l’attenzione all’uomo e non all’uomo immerso nella Natura, come elemento della stessa e non come prepotente padrone».

La decisione di titolare i brani con i nomi degli alberi va in questa direzione?
«Legnomadre è la title track del lavoro. L’ho scritta per ultima, melodicamente ci ha messo un po’ a venire fuori, non avevo l’idea musicale. Legno-madre è una parola fusa perché il legno appartiene alla terra ma è anche il materiale degli strumenti dell’orchestra, del clarinetto che, appartiene alla famiglia dei legni. Mi sembrava che tutto tenesse. L’ispirazione mi è venuta da un pezzo di Coltrane, After The Rain, un pezzo meditativo. La versione finale in duo con il pianoforte è ispirata a quel mondo lì. Il brano d’inizio sembra Morricone, ma viene da tutt’altra parte. Alla fine il jazz, anche se non mi reputo un jazzista puro e nemmeno mi interessa esserlo, è una radice forte».

In Otto il pirata il brano inizia con una canzoncina cantata da un bimbo…
«La voce è quella di mio figlio Otto che ha 5 anni e mezzo. È una cantilena che ha inventato lui, io gliel’ho armonizzata al pianoforte, una registrazione fatta con il telefonino in casa. Da quella cellula madre mi è venuta l’ispirazione di tutto il pezzo».

Come definiresti questo disco? Non è jazz e nemmeno classico e nemmeno latino…
«Non mi sono posto il problema di come farlo, mi è piaciuta l’idea di avere un’orchestra, il clarinetto di Gabriele Mirabassi e le percussioni di Simone Padovani. Rispetto al trio del precedente album (The Future is a Tree, 2020, ndr) tutto ciò ha portato la musica in una direzione nuova. Mentre scrivevo le partiture mi venivano in mente tanti mondi. Poi, sai, l’appetito vien mangiando, man mano che lavoravo mi venivano idee, suggestioni, non saprei darti una definizione di genere e non mi preoccupa darla, volevo un lavoro  il più universale possibile. Poi, è vero, c’è il mondo della classica, il jazz, il clarinetto, c’è Brasile, Cuba, mondi che frequento da molto tempo. La mia anima latina che si coniuga con tutto il resto…

Sono un “drogato” di brasiliana… soprattutto lo Choro, sono pezzi vivi che ti lasciano tracce…
«Il rischio quando prendi quella strada era di costruire un disco latino. Niente di male, ci sono musicisti che lo fanno infinitamente meglio di me. In questo senso mi è venuta in aiuto l’orchestra da camera: usata in quel modo stempera quella muscolarità che a volte c’è nella musica cubana, fatta da musicisti cubani veri, non da me che sono cresciuto a Lecce. Mi sono salvato dallo scimmiottare, lavorando sulla timbrica, usando il fagotto, l’oboe…».

Marco Bardoscia – Foto Roberto Cifarelli

Anche Mannarino ha fatto un’interpretazione non proprio “fedele” in Lágrimas Negras, che contiene un assolo di Mirabassi fantastico!
«È una versione… post moderna! In stile con il suo modo di vedere la musica e di approcciare le cose. Ed è stato intelligente ad affrontarla in quel modo. Ne abbiamo parlato un po’, avevamo fatto una prima versione ma non mi aveva convinto. Poi mi manda questa nuova interpretazione e sono caduto dalla sedia. Ho pensato: Madonna ma che ha fatto! Poi in realtà più la sentivo più ne capivo la forza».

Una versione che ti prende. Non è il classico bolero…
«Di versioni ce ne sono tante, da Compay Segundo a Diego el Cigala».

Anche la copertina del disco è raffinata, mantiene il genere Tǔk Music!
È un’immagine di Anjana Iyer, designer, videografa, illustratrice di origini Hindi che vive in Nuova Zelanda (Nota di redazione: è una illustrazione digitale del 2014 che fa parte di uno specifico progetto intitolato Found in Translation e per il quale ha disegnato trenta parole che esistono in una lingua ma non sono traducibili nelle altre. Il vocabolo del disegno prescelto è Ilunga, parola della lingua banthu Tshiluba dell’Africa Centrale che riconosce “una persona che è pronta a perdonare qualsiasi abuso per la prima volta, a tollerarlo una seconda volta, ma mai una terza”… ). Paolo di solito sottopone agli artisti una serie di immagini, quella è stata la prima o la seconda che mi ha sottoposto e l’abbiamo scelta subito. Con Paolo siamo sulla stessa lunghezza d’onda, lavoriamo insieme da anni, è un musicista che mi ha insegnato tanto anche su come si sta al mondo e nello stesso tempo ti lascia molta libertà, non mette in dubbio il lavoro degli altri musicisti».

Il contrabbasso, è uno strumento che devi abbracciare, un piccolo albero! Che cosa ti ha fatto innamorare di questo “legno”?
«Racconto sempre questa storia: l’innamoramento è nato un pomeriggio nella casa dei miei genitori: suonicchiavo la chitarra e il basso elettrico, c’era una cassetta che ho messo sul registratore di casa, si intitolava Jazz Renegade ed era di uno dei miei fratelli, sono il quarto di quattro fratelli maschi. Parte un assolo di contrabbasso, lì ho avuto la folgorazione e ho detto: ok da grande voglio fare gli assoli di contrabbasso. Ho messo su un’orchestra perché così mi faccio il mio assolo!».

Sei con Mannarino in tournée?
Sì, me l’ha chiesto. Di solito sono restio a lavorare nel mondo pop, ma proprio perché Alessandro non lo è e poi lo stimo molto ho deciso di accettare. “Se devo fare una cosa così, la faccio con lui», mi son detto. Lo spettacolo è molto bello si chiama Corde, solo strumenti a corde con tre cantanti, ha una sua struttura molto bella».

Porterai in giro Legnomadre?
L’ho suonato nella mia città a Lecce il 29 giugno, era importante per me presentarlo ai miei concittadini. In quintetto sarò a novembre a Verona. Ci sarà anche l’orchestra dove possibile (sono 13 elementi). Cerchiamo festival di musica classica che hanno una direzione più moderna, più aperta».