Pierpaolo Vacca, il disco di un Bastian contrario

Pierpaolo Vacca – Foto Alessia Zedde

Il 19 gennaio scorso è uscito per per Tǔk Music Travessu, il primo lavoro solista di Pierpaolo Vacca, 32enne organettista sardo di Ovodda (Nuoro). L’avevo visto suonare dal vivo un paio di anni fa al Teatro Carcano di Milano sul palco con Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura per Tango Macondo, di cui vi avevo parlato qui. Nipote di Beppe Cuga, famoso – e unico – suonatore di launeddas della Barbagia, ha iniziato a suonare l’organetto a sei anni, andando a lezione dal maestro Peppino Deiana, Tziu Peppinu. 

Come definire la musica di Pierpaolo? Bella domanda: «Non mi pongo il problema di che tipo di genere suono, la musica viene da dentro, è libera, perché incasellarla?», mi dice candido durante l’intervista. Un po’ complicato farci l’abitudine: l’artista viene da un altro mondo, antichissimo, con solide regole a cui non rinuncia. La musica è la sua vita, il resto è un di più. Stupisce la sua sincerità, la sua umiltà ma anche la consapevolezza di essere uno dei pochi eletti che siedono di diritto al desco della Musa Euterpe.

Musica e danza sono inscindibili in Travessu. L’organetto, filtrato da una pedaliera da chitarra che con enorme pazienza s’è settato, assume tante voci, un’onda sonora che si propaga e che avvolge, contraltare alle incursioni di altri artisti, dal pianista Dino RubinoCappotto è autentica World Music made in Ovodda, l’organetto viene “ricamato” dal tocco gentile di Rubino che improvvisa pulito – al percussionista senegalese Pape Ndiaye in Campid Afro, a Dj Cris, al secolo Cristian Orsini, in Danzas Sardstep, fino a Nanni Gaias e al chitarrista Fabio Calzia in Tziu Soddu.

Un lavoro autentico, che può spiazzare a un primo ascolto. Ne è ben consapevole Pierpaolo, tanto da averlo chiamato Travessu, che in sardo significa “contrario”. Travessu è il contrario di quello che normalmente si fa, parola che in sé contiene sperimentazione, provocazione, amore per la musica. Tǔk Music non a caso ha scelto questo lavoro e questo artista per inaugurare una nuova collana, EtnoTǔk, dedicata alla World Music.

Una bella responsabilità inaugurare una nuova sotto-etichetta della Tǔk Music!
«Un onore per me. Eravamo in giro proprio con lo spettacolo Tango Macondo quando Paolo (Fresu, ndr) mi ha comunicato l’intenzione». 

Travessu è un disco World Music, musica popolare, interventi jazz, musica elettronica… Tutto voluto?
«In realtà non ho ragionato troppo su quello che stavo cercando di fare. Mi è venuto così. Quando suono parto da un’idea, di solito mi piace cominciare da frasi attinte dalla musica tradizionale, e poi mi faccio portare dalla musica, quello che viene, viene. Mi piace pensare che la musica si liberi anche in questo senso, partire con un’idea ben ben precisa, ma non sapere dove arrivare».

Cosa significa Travessu?
Contrario, inteso anche come bastian contrario! Un po’ come la musica che ho pensato: partire con una cosa, cercare di rovesciarla stando un po’ di traverso tra un mondo e l’altro, rompere scatole e schemi!».

Tziu Soddu è un gran bel brano. Com’è nato?
È una registrazione di un canto a tenore degli anni Sessanta o Settanta, registrata in un bar.  Giorgio Soddu, che per motivi d’età non ho conosciuto (ho incontrato invece il nipote anche lui bravissimo), aveva registrato questa melodia intensa, in presa diretta con un registratore non professionale. In un punto c’è, addirittura, una incertezza del coro. Mi piaceva l’idea di poter suonare con lui accompagnarlo con la mia visione, con l’elettronica, la chitarra elettrica: con questo brano ho voluto omaggiare il canto a tenore e lui, icona del mio paese, la più bella voce di Ovodda. Il testo è triste, parla di due figli morti e di uno rimasto, eppure quel canto di dolore ha fatto partire il ballo, questo lato della musica tradizionale sarda mi ha sempre colpito, l’idea che la vita continua, non puoi farci niente».

Con Dino Rubino in Cappotto si fa un altro viaggio!
«È l’unico pezzo in cui non sono partito da una melodia popolare. L’ho composto per un reportage fotografico che si basava sull’omonimo racconto di Gogol. La storia narra di un umile impiegato che aveva un sogno, farsi confezionare da un sarto un bel cappotto: ci riesce ma la sera stessa che lo indossa viene derubato del suo prezioso capo d’abbigliamento. Non mi piaceva che la storia finisse tristemente, così alla fine ho inserito una parte più melodica, perché a tutti è capitato che venisse tolto “un cappotto”, ma la vita comunque va avanti, fino a quando il tuo cuore batte bisogna lottare, crederci in ogni circostanza. Dino è stato bravissimo!».

Subito dopo parti con un brano esplosivo Campid Afro dove suona Pape Ndiaye.
«Pape è un percussionista che ho conosciuto alcuni anni fa in Senegal. Lui è un musicista professionista, suona nell’Orchestra Nazionale del Senegal. Anni fa abbiamo organizzato una residenza artistica dove la musica tradizionale sarda incontrava quella senegalese. Ci siamo trovati fin da subito, siamo diventati amici ci sentiamo tutte le settimane. Il pezzo è poggiato su un ritmo campidanese, per quello che si chiama Campid Afro, nel quale si innesta un ritmo costante senegalese».

E poi ci sono i balli tradizionali, una bella esplosione…
«Tutti i balli in Sardegna sono in tonalità maggiore, Ballu travessu è il ballo del mio paese portato in minore, suoni molto lunghi, un po’ diverso dal tradizionale. In chiave minore è il contrario di quello che dovrebbe essere, travessu, appunto… Mai mi sognerei di suonare quel pezzo in una piazza che balla in Sardegna, mi arriverebbero quintalate di pomodori addosso! Per chi è abituato a sentire da sempre quella melodia, il brano ha un impatto mollo forte! Nella seconda parte del disco ci sono invece i balli tradizionali più stretti, quelli che mi ha insegnato Tziu Peppinu, il mio maestro. Li ho voluti “fissare” per tutti quelli che si avvicinano al mondo della musica tradizionale e dell’organetto. Li ascolto da dopo Ispossoriu, gli ultimi cinque brani».

Parlami di Ispossoriu!
«Ispossoriu è la melodia che suonava mio zio Peppe Cuga con le launeddas per accompagnare i matrimoni. C’era tutto un cerimoniale, prima si andava dallo sposo e poi sempre al suono delle launeddas, sotto casa della sposa… Credo che tutti i matrimoni degli ultimi 30 anni nel mio paese li abbia accompagnati mio zio. Alla melodia ho unito un Ballu tundu, danza che si usava dopo la cerimonia. Un omaggio a mio zio che è stato l’unico suonatore di launeddas della Barbagia, essendo queste uno strumento tipico del Campidanese».

Foto Alessia Zedde

Come ti sei appassionato all’organetto?
«Sono nato in una famiglia dove suonavano mio zio e mio nonno, mia mamma e le mie zie cantavano nei cori. Un giorno alla televisione ho visto un bambino che suonava l’organetto e ho detto deciso a mia mamma: “Voglio imparare a suonare l’organetto”. Avevo sei anni. Lei mi rispose: “Se vuoi imparare vai da zio Peppino, un signore anziano vicino di casa, punto di riferimento dell’organetto per molti suonatori». Così, ho preso la mia bicicletta e, da solo, sono andato da lui. Mi ha guardato, studiato, mi ha dato in mano un organetto dicendomi: “Portatelo a casa, stasera prova, giocaci e poi, se ti piace, torna». Così ho fatto e da lì è partito tutto. In Sardegna l’organetto è lo strumento più suonato e più diffuso».

Poi ti sei avvicinato alle contaminazioni sonore?
Ho iniziato con i gruppi folk, mi è sempre piaciuto suonare in situazioni di socialità, di festa. Così mi è capitato di suonare anche altra musica, altre canzoni, per esempio i cantautori. Ho capito che l’organetto è uno strumento, non lo strumento della musica popolare e che la musica viene da quello che hai in testa tu. Da questa presa di coscienza ho iniziato a lavorare sul suono, usando una pedaliera per chitarra, piano piano ho iniziato a settarmi tutte le mie cose, cercando di capire come dialogare con la musica elettrica ed elettronica».

Come hai conosciuto Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura?
Paolo l’ho incontrato al matrimonio di Luca Devito (assistente di Fresu, ndr), mi ha invitato a Berchidda… Lui ha sempre tante idee, te le propone e tu non puoi fare altro che dire di sì! Un giorno mi ha chiesto di suonare al festival jazz di Alghero assieme a Daniele che non conoscevo di persona: “Magari fate due set separati e poi suonate assieme”. Così è stato, è andata molto bene… non pensavo che arrivasse un disco e una tournée con Tango Macondo. Ci siamo trovati a Udine nello studio Artesuono di Stefano Amerio, dove ho registrato anche Travessu (Stefano è un grande professionista). In tre giorni abbiamo registrato l’album. Prima di entrare in studio ero in ansia, Paolo mi ha tranquillizzato, lo sai com’è fatto, lo stesso ha fatto Daniele».

Cos’è per te il Jazz?
«Non amo le etichette. Non riesco a inquadrare la mia musica in un genere particolare. Non ho studiato musica, sì la so leggere, ma tutto quello che faccio lo faccio per istinto, a mio gusto. Mi piace pensare che la musica sia uno dei pochi mondi dove hai la piena libertà di fare quello che vuoi, senza barriere. Non mi piace incanalarmi in un genere particolare. Il jazz, secondo me è anche questo. Se è inteso così, mi sta bene che sia jazz!».

Quanti anni hai Pierpaolo?
Trentadue, sono del 1991. E tu? “Trenta di più”. La stessa età di mia madre e di Paolo! Quando si sono incontrati è stato bellissimo: si chiamavano cummare e cumpare!».

Cosa ti aspetti dal disco?
«Innanzitutto era molto importante riuscire a realizzarlo, per me già questo è un ottimo risultato. E poi, spero che il disco piaccia, che sia una cosa bella anche per Ovodda, perché sono partito da lì. Poi, sto già pensando al prossimo disco».

Fai il musicista per professione?
«Sì da quando ho suonato in Tango Macondo. Prima lavoravo in un’impresa privata a Cagliari a tempo indeterminato. Quando Paolo mi ha coinvolto e dovevo restare fuori 2/3 mesi non riuscivo a fare l’uno e l’altro, così mi son messo in aspettativa per due anni. È stato il mio datore di lavoro a spingermi, quando ha saputo che dovevo partire con Paolo era felice: “Se non va ti licenzio!”, mi ha detto. Ecco, ho scelto la musica».