Venerdì prossimo, 27 ottobre, uscirà sugli scaffali fisici e digitali un disco che vi consiglio d’ascoltare con una certa libertà d’udito e di pensiero. Loro sono i Bright Magus, formazione tutta italiana che arriva con un lavoro di sei brani intitolato Jungle Corner. Il genere? Una fusion anni Settanta, ma non una fusion qualsiasi, bensì quella ispirata dal padre del genere, Miles Davis, nel suo periodo elettrico che va dal 1969 al 1975, quando l’artista era sotto contratto con la Columbia.
Dischi come A tribute to Jack Johnson, In a Silent Way, On the Corner, Big Fun e Bitches Brew (quest’ultimo celebrato con l’uscita di London Brew, progetto musicale di cui vi ho parlato in questo blog) sono ancora oggi materia di studio e di ascolto. E se Nubya Garcia, Shabaka Hutchings, Theo Cross, la creme del new jazz inglese, hanno voluto ricordare il mezzo secolo di vita di Bitches Brew e quanto l’album sia stato dirimente, qui in Italia sono stati cinque musicisti con base a Milano a riportare la psichedelia, l’Afrobeat e il Funk con punte rock all’attenzione di un pubblico desideroso di scoprire nuove uscite non banali.
Il progetto nasce da due musicisti e produttori dediti al Rock, al Pop e alla musica elettronica, Giovanni Calella e Leziero Rescigno. Entrambi, il primo bassista e il secondo batterista, sono cultori del periodo elettrico di Davis. A tal punto da chiamare altri tre musicisti, jazzisti di professione e adoratori del dio Miles, Mauro Tre al piano Rhodes, Alberto Turra alla chitarra e Gianni Sansone alla tromba, per creare nuovi percorsi muovendosi sui sentieri tracciati dal trombettista, basati sull’improvvisazione. Interplay, dialogo, conoscenza di quel mondo hanno prodotto un lavoro che vale la pena, come vi dicevo all’inizio, di essere ascoltato.
Davies, come pochi altri geniali artisti del Novecento, ha lasciato un segno. Un musicista che spingeva sempre più in alto l’asticella della sua creatività prendendo spunto dal mondo della musica dell’epoca, basti pensare al rock psichedelico, al prog, a Jimi Hendrix («Andava persino dallo stesso sarto del chitarrista», ricorda Giovanni Calella).
Quello che Miles insegna è la libertà, il non porre confini ai generi e al talento, il non aver paura di assorbire, contaminare, rielaborare: nulla è intoccabile, tutto è possibile se filtrato dalla propria coscienza e conoscenza. In quest’ottica si pongono i Bright Magus (il nome della band si rifà a Dark Magus, moniker dell’artista e anche titolo di un album che Davis registrò dal vivo al Canergie Hall nel 1974). Anche Jungle Corner si rifà a On The Corner, disco pubblicato nel 1972. Tutto, dunque, ruota intorno a quel mondo che, grazie al trombettista dell’Illinois, produsse grandi musicisti, del calibro di John McLaughlin, Wayne Shorter, John Coltrane, Tony Williams, Jack DeJohnette, Joe Zawinul, Herbie Hancock, Chick Corea, i quali a loro volta segnarono i nuovi del jazz.
Ho fatto una bella chiacchierata con la “sezione ritmica” dei Bright Magus, Giovanni Calella e Leziero Rescigno…
Miles Davies ce l’avete proprio cucito nel cuore…
Giovanni: «Io e Leziero ci siamo conosciuti una trentina d’anni fa. Facciamo musica insieme da tantissimo tempo. Avevamo molte passioni in comune, nell’arte, nel cinema…nella musica erano l’Indie, il Rock, il Krautrock, l’elettronica e Miles Davies. Uuno dei primi progetti che avevamo messo insieme – si chiamava Panthalassa – era un trio con un suono più post rock, che prendeva il nome da quel disco meraviglioso che Bill Laswell aveva rielaborato con le tracce di Davies, in versione un po’ più moderna con dub ed elettronica. L’anno scorso abbiamo pensato di riproporre in chiave più jazzistica un’idea che avevamo da tanto tempo. Per realizzarla abbiamo contattato altri musicisti, un chitarrista, un pianista e un trombettista, che sono Alberto Turra, Mauro Tre e Gianni Sansone. Abbiamo fatto una jam session e, dopo la prima registrazione casereccia, ci siamo detti: “Caspita, siamo tutti in linea!”. Abbiamo fatto prima dei concerti per testare se al pubblico poteva piacere. Così è stato, quindi siamo entrati in sale di registrazione».
Avete registrato il disco in presa diretta, buona la prima?
Leziero Rescigno: «A noi interessava esplorare il sound più che citare la scrittura delle composizioni di Miles Davies, una commistione di tanti generi. Ascoltando quei dischi di riferimento come In a Silent Way, Bitches Brew, A tribute to Jack Johnson, registrati per la Columbia dal 1969 al 1972, la sensazione che abbiamo sempre avvertito è questo senso di libertà, di imprevedibilità dove ci sono delle coordinate precise di partenza ma tutto è lasciato alla capacità espressiva dei musicisti che Miles ha, volte per volta, ingaggiato e poi lanciato. Come loro ci siamo trovati a improvvisare senza dirci quasi nulla, parlando quella lingua lì. Può sembrare un esercizio di stile, in realtà è un omaggio sentito, sincero. Un po’ come suonare un qualcosa che ci apparteneva, un DNA antico che avevamo assimilato nel tempo e mai espresso in forma così compiuta. Costruire questo progetto è stato, dunque, molto naturale e semplice. La registrazione in presa diretta era l’unica soluzione, visto l’approccio dell’interplay, dell’ascolto reciproco e dell’idea corale che avevamo di questa band senza pensare a un solista che guidasse tutte le session come era con Davies, un collettivo corale, da band. Per me e Giovanni è stato il primo disco veramente jazz, anche se ha una matrice ritmica più vicina al Rock, al Funk e all’Afrobeat. Le tensioni armoniche, invece, rientrano di più nel jazz. Ma non ci sentiamo jazzisti, piuttosto degli ospiti».
Giovanni: «Il cortocircuito nasce dal fatto che io e Leziero, la sezione ritmica, arriviamo da un background legato al Rock, alla psichedelia, al Pop, abbiamo prodotto tantissimi dischi in quella direzione. I veri jazzisti sono gli altri del gruppo. Questa “fusion” richiama proprio quello che Davies cercava allora, e cioè un suono più Rock, simile alla musica di Hendrix».
Perché secondo voi Miles Davies ha segnato così tanto i musicisti e continua a farlo ancora oggi?
Leziero: «È una mia idea: credo che molti musicisti traggano ispirazione da Miles non tanto per quello che ha suonato ma per lo spirito pionieristico, lo spostare sempre in alto l’asticella, nel cambiare le carte in tavola. La sua curiosità, ricerca ed etica è un esempio. Con quello spirito trasgressivo del “si può fare”, con la sua magia e con la consapevolezza e la qualità dei suoi collaboratori è riuscito a spostare quel limite oltre. Il fatto che tutti oggi possono far musica bisogna vedere dove porterà. È interessante che tutti possano esprimersi, vero è che c’è una tendenza a lavorare poco sugli strumenti, al non costruire nel tempo il proprio linguaggio, al non avere quello spirito di sacrificio che porta a fare una ricerca profonda sul proprio suono. Non sono “moralista”, non credo debba esserci un’élite di musicisti che fa certe cose e poi tutti gli altri, bisognerà per forza trovare un equilibrio. Miles per noi ha rappresentato quel tipo di input».
Giovanni: «Quando Miles ha avuto la svolta elettrica tantissimo suo pubblico ha rinnegato la sua musica. È successo anche a Bob Dylan, quando dal folk passò all’elettrico. Non era gente che trovava una formuletta garantita per andare avanti in eterno. Per noi fare musica dopo trent’anni significa avere la necessità di imparare ancora».
Un disco come Jungle Corner nel 2023 che senso ha?
Leziero: «Siamo in un momento in cui in cui le strutture della forma canzone si riducono sempre di più, la fruizione della musica è veloce, istantanea, le playlist hanno sostituito l’ascolto degli album. Da un alto ci siamo preoccupati poco, avevamo il desiderio di liberarci di queste strutture legate alla forma canzone, avevamo voglia di esprimerci in maniera più libera, un nostro processo che ha messo da parte il mercato e la forma musicale sempre più diffusa, dall’altra è anche il tentativo di stimolare l’ambiente musicale. Durante nostri live abbiamo visto che molti ragazzi sono rimasti colpiti e coinvolti dalla nostra musica, Ciò ci ha confortati, basta fornire alternative agli ascolti attuali. Sarebbe bello che attraverso input come il nostro o quello di altri progetti si possa tornare all’origine, allo stesso Davis, scoprire quanto quei dischi sono belli e interessanti ancora oggi. Band come i Pink Floyd e i Led Zeppelin se pubblicassero ora i loro capolavori risulterebbero comunque attuali. Il che ci porta a una necessità e a un pensiero di divulgazione di una certa forma musicale slegata dal marketing e dal mercato. In questo momento la rete fa il trend, si fa musica seguendo standard non dettati da musicisti e da addetti ai lavori».
Anche i club e i talent scout sono scomparsi, la rete sostituisce tutto…
Giovanni: «Hai toccato un altro tasto dolente. Lo stiamo vivendo anche a Milano, dove, tolti luoghi come Santeria e Alcatraz che fanno un grosso lavoro, i club minori, quelli da 200 posti per intenderci, non ci sono praticamente più. Il 29 novembre faremo una presentazione ufficiale del disco al Biko, uno dei pochi luoghi rimasti di questo tipo».
Tornando ai Bright Magus, avevate previsto tutto questo percorso?
Giovanni: «No, affatto. Ci è praticamente esploso tra le mani. È nato un pomeriggio in cui io e Leziero eravamo un po’ pigri. Ci siamo detti: “Perché non facciamo questa cosa?”. Così tra un “Ah, io conosco questo chitarrista, io il pianista, ma c’è anche quel trombettista” abbiamo costituito un gruppo che si è rivelato coeso senza aver mai suonato prima insieme. Questa è la magia che crea la musica fatta in una certa maniera. Noi siamo dei vecchiardi, fuori dalle logiche di TikTok, il nostro è stato un ritorno alla musica prima del computer, ci si vede, si fanno le prove, si registra, si mixa, non abbiamo usato sovraincisioni né ritoccato, abbiamo fatto un lavoro molto filologico. A parte Selim, il primo brano che è una dedica a Davies, non siamo una tribute band né una cover band di Miles, abbiamo solo preso ispirazione da lui per proporre la nostra musica. Come dice Leziero, che bello sarebbe che qualcuno che incappa nei Bright Magus scopra che sono qualcosa che nasce perché c’è stato prima un qualcos’altro».
Nel disco ci sono due camei di Enrico Gabrielli?
Leziero: «L’idea è arrivata quando avevamo già registrato il materiale. Ci è venuto in mente Enrico perché ha una sua trasversalità e poliedricità, sa calarsi in diverse situazioni musicali, è uno sperimentatore, un ospite perfetto. Ha ascoltato il disco, gli è piaciuto molto, ha registrato i suoi interventi, ce li ha mandati, noi abbiamo aperto queste tracce come le aveva messe giù lui. Ha arricchito il sound del disco, anche se in soli due brani, completando una tavolozza di suoni».