Manòglia, le riflessioni folk di Davide Van De Sfroos

Davide Van De Sfroos – Foto Alessio Pizzicanella

Manòglia, in laghée, il dialetto della gente del lago di Como, è la magnolia. Ed è il titolo del lavoro che Davide Van de Sfroos pubblica oggi, 15 ottobre, per per BMG/MyNina in versione vinile, Cd e download, oltre a un vinile colorato in edizione limitata e numerata (nessuna uscita in streaming).

Undici brani per 43 minuti d’ascolto dove il songwriter di Mezzegra racconta con maestria personaggi, siano essi di fantasia come El Mekanik, o veri come Zia Nora, farfalle, boschi, funghi, spore, foglie…

Mi sono letto i testi più volte prima di ascoltare il disco: Davide riesce a creare, in quel magico mix di dialetto e italiano, mondi fantastici dove entri come Alice nel Paese delle Meraviglie e dove tutto non è come sembra. L’ovvio con Van de Sfross diventa stupore, una raffica di vento si trasforma in una carezza liberatoria, le foglie sono punti cardinali in un bosco fitto: Quattro foglie come bandiere/ Quattro foglie come pesci nel vento/ Quattro lacrime della foresta/ Quattro sorrisi della stagione, sussurra in Foglie al Vento, brano che chiude il disco.

Sono riflessioni personali, pensieri di un cantastorie raccolti insieme a comporre un lavoro che ha il sapore della nostalgia ma ancor di più della speranza. Intimo quanto basta e universale, in tempi sempre più omologati dove pensare a un fiore è un atto rivoluzionario.

La musica prende forme diverse nell’album, dalle chitarre slide de La ballata del mascheraio, primo brano, alle chitarre manouche di Forsi, la seconda traccia, al pianoforte solo di Crisalide, all’ambient di Foglie al vento, che riporta alla psichedelia anni Settanta. Nel mondo strumentale di Van de Sfroos ci sono violino, violoncello, contrabbasso, banjo, dobro, baglama, old, mandolino, bouzuki, clarinetto, duduk armeno, flauto dolce, il nel persiano, l’oboe del Languedoc, l’organo Hammond, ocarina, scacciapensieri, tamburi come il darabukka… 

Lavoro complesso che merita una lunga chiacchierata con Davide.   

Manòglia è un disco con gran bei testi, un piccolo romanzo intimistico… Perché hai deciso di pubblicarlo ora?
«È una domanda che vola nel vento come quella di Bob Dylan, e la risposta vola nel vento come le foglie di magnolia di cui tanto ho parlato. Da anni si parlava di un disco acustico di Van De Sfroos, i giornalisti me lo chiedevano spesso: “Quando fai il tuo Nebraska…”. Però Nebraska esiste già fatto e Springsteen è Springsteen, non possiamo emularlo. Però è vero che la voglia di un bel disco mormorato, scendendo dal palco, magari mettendosi in veranda seduto sulla sedia a dandolo, era fortemente voluto, da me per primo. Ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: “Abbiamo la primavera senza impegni, e se prendessimo queste canzoni che erroneamente pensavo di tenere chiuse nel mio erbolario personale? Queste foglie devono volar via perché sono state qui tanto di quel tempo da diventare importanti”. Nel frattempo leggevo molti libri di autori che mi colpivano per la loro poetica, uno su tutti Cormac McCarthy. Mi chiedevo come questi autori potessero avere la forza di scrivere cose così intense sulla natura, mi domandavo come potessi io riuscire a scrivere tutta la natura che ho attraversato, poi mi son detto: “Ma tu un libro così ce l’hai già, nel tuo taccuino. Se la canti e se gli dai una chiave questa volta meno strutturata e più intimistica, più acustica e minimale puoi raccontare anche le cose più complesse come Ankainköö, un testo che non doveva essere una canzone, piuttosto un talking, un pezzo di lettura. Devi soltanto spogliare la musica da tutto quello che non serve per raccontare questa natura e arricchirla di quei suoni e di quelle tinte, però ricordati bene che il disco lo devi far uscire in ottobre perché, se vuoi fare un’operazione alchemica, la gente lo deve ascoltare in quel periodo dell’anno, perché queste cose le hai sempre scritte con questa luce, questa verve e quel tipo di proiezione mentale”».

Ankanköö è più uno spoken word, quasi un… folk rap!
«È solo stato messo in metrica quello che scrivevo alla mattina mentre accompagnavo i miei figli alla corriera, alle sei, sei e mezzo, col buio. Queste anime che si svegliano, che cominciano a pensare a come arriveranno a sera. Poi, nella seconda strofa, tutto si popola di natura di funghi, di sottoboschi…».

Infatti lì inizi a raccontare la vita del bosco: C’è un amore da funghi che spalancano ombrelli, sulla pelle dubbiosa di una nuova stanchezza/ E si lanciano spore in quel bel sottobosco, dove a volte rinasce tutto quello che muore…
«È la speranza! Se vuoi leggere questo disco con una poetica di apertura verso l’antidoto a tutto ciò che ci sta soffocando, guerre, Covid, violenze sociali e familiari, governi che si attorcigliano l’uno con l’altro, nel disco troverai il tentativo di antidoto. In Shandemé canto: Arriva il vento della sera, senza rabbia e senza mira. La Natura non ti privilegia, lei c’è per tutti. Il raggio di sole ti arriva addosso non perché sei stato bravo ma perché lui è senza mira, lui si dona e basta, poi se arriva la grandine la te ciapa non perché sei stato cattivo ma perché anche lei se ne frega, te la prendi e ti rovina la macchina. Questa è la Natura, non fa sconti ma è sempre lì. Poi devi essere capace tu di dribblare, di avventurarti, di muoverti, di rispettarla. Si dice: “la Natura può essere tremenda”. Ma noi siamo molto più terribili: lei si dona totalmente senza pensare, noi invece ci pensiamo eccome! Magari costruendo un deposito di rifiuti in mezzo all’oceano…».

Mi ha colpito una frase da El Mekanik: la mia vendetta è farti avere quello che non mi hanno dato
«Chi è el mekanik? È una di quelle persone che hanno vissuto ai bordi della decenza. E, invece di andare avanti carichi di rabbia, sono diventati dottori, meccanici, sistematori delle altre persone. I meccanici sono guaritori feriti che, proprio per questo, riescono a mettere a posto i tuoi ingranaggi. Anch’io lo sono stato, nei momenti nei quali ho avuto problemi di depressione, ansia, disagio mentale, mi sono adoperato per aiutare quelli che avevano il mio stesso problema e che non erano capiti dagli altri. ». 

In Forsi chiudi la canzone con una stilettata: Non son riuscito ad essere Batman, non son riuscito ad essere il Joker/ ma se mi impegno magari tra poco, posso riuscire a fare il Tiktoker
«Forsi è nata come una canzone sull’incertezza, saltellante e un po’ guascona. L’amore è un cerotto, l’amore è una ferita, è una luce che spacca gli occhi e un buco nella divisa. Quando sei innamorato diventi insicuro. Poi prosegue: E forse passerà una nave… e forse io resterò. Qual è la nave? Quella dove vogliono che tu salga per fare quello che tutti fanno, ma io scelgo di non salire, di non omologarmi. Alla fine se mi guardo indietro non sono riuscito a essere né Batman né la sua antitesi, se tutto va bene, con ironia, posso mettermi a fare quello che fan tutti, il tiktoker, che non so esattamente come si faccia. Il brano ha un sound alla Buster Keaton, è manouche con un chitarrista (Dani Alessio, ndr) e un clarinettista (Arturo Garra, ndr) che la fanno suonare fuori dal tempo, proprio perché sei incerto in questo tempo».

Foglie al Vento ha delle atmosfere prog, anni Settanta soprattutto sul finale, non trovi?
«Alessandro Gioia, di Verona, mio grande amico che si è occupato della produzione di molti dei miei lavori e in questo disco dei brani Manòglia e Foglie al Vento, ha proposto questo “finale oltre il finale” sapendo il mio amore per la musica Ambient e poi perché consapevole che in questo modo dava al pezzo un lungo respiro: si ha l’impressione che il disco non sia finito. Sono sei minuti di volo dove c’è tutto il tempo di digerire l’ascolto di undici canzoni. È una trovata geniale. Io che suono la chitarra in modo ipnotico, psichedelico, una chitarra legnosa che ricorda quella acustica dei Led Zeppelin, Anga (Angapiemage Galiano Persico, ndr) che fa i suoi passaggi di violino, i nostri mantra sussurrati, le voci etniche venute da chissà dove. È proprio il finale a sorpresa!».

È un disco di speranza, di ripartenza: dopo 30 anni di carriera ha ancora un senso?
«Il mio rapporto con la musica è stato reale quando ho avuto la possibilità di farla e di usarla come pharmakon, autoindagine, ritmo, apertura, accompagnamento alle cose della vita. Ha senso fare musica al di là delle epoche quando sei tu a farla e vedi che ti corrisponde. Non ha senso, invece, quando sei prigioniero della musica che non è la tua e di un marketing che impone, quando devi cambiare tutto quello che fai perché altrimenti “il disco non vende, non funziona, non picchia, non pompa”. La musica è una grandissima alleata nel momento in cui sta dalla tua parte. Se cominci a essere tu un artefatto cacciatore – e lo dice bene La canzone che non c’è – per andarla a prendere devi fare delle magie, altrimenti ti trovi a scrivere le solite banalità che fanno rima e ritmo. E che poi vendi perché passano nelle emittenti nazionali più importanti, tanta gente le ascolta e tu potrai riempire gli stadi cantando cose di cui non te ne frega niente. Non scrivo trattati di filosofia, mi piace il nazionale, il popolare, il discorso dell’osteria, parlo di foglie, di magnolie, di cose semplici che capirebbe anche un bambino. Il problema è: tu stai veramente bene con quello che fai oppure no? A me è capitato di andare in crisi in quei lunghi mesi di promozione di un qualcosa in cui non facevi più musica ma dovevi continuare a essere il promoter di te stesso, un gioppino avanti e indietro per l’Italia, per dire che avresti fatto un concerto grosso di lì a sei mesi. Quei periodi lì mi hanno avvelenato, impoverito e fatto capire come possa essere brutto il mondo senza la musica».

Il fatto che tu canti in dialetto nel 2023 ha ancora un fondamento solido?
«Ormai sì, perché il dialetto si switcha con l’italiano che è un piacere. E poi è una lingua che ancora vive. I miei amici che frequento al bar hanno 80, 90 anni e parlano prevalentemente il dialetto. Ancora oggi sono in grado di darmi delucidazioni su una filosofia di vita validissima che mi aiuta a interpretare quello che ora stiamo vivendo. Non ho problemi a cantare ancora in laghée, ma non ne sono prigioniero. Zia Nora, per esempio, è cantata tutta in italiano e ascoltando il disco manco te ne accorgi. Non bisogna essere dei fanatici altrimenti fai la fine di Bob Dylan a cui diedero del Giuda perché prese in mano la chitarra elettrica. Pensa che palle se avesse suonato sempre chitarra e armonica!».

Hanno tentato più volte di etichettarti politicamente. Tu hai sempre difeso la tua libertà d’espressione. Ti ha influenzato artisticamente?
«Ero molto libero ma anche molto ingenuo e fiducioso sul fatto che una persona distantissima dalle varie politiche partitiche potesse andare ovunque e da chiunque a cantare le proprie canzoni. Purtroppo, questa mia “libertà” ha avuto un prezzo, quello di essere poco capito da alcuni, che magari non avevano approfondito cosa cantavo ma ti vedevano appiccicato un po’ di qua un po’ di là, e che facevano due conti visto che cantavo in un dialetto del Nord… Sono stati episodi dolorosi che mi hanno messo in crisi. Alla fine ho deciso di andarmene dalla mia isola felice sulla quale volevo che tutti fossero liberi di ascoltare tutto. La politica è diventata un qualcosa difficile da comprendere e da identificare, mi sono allontanato da tutti e da tutto e sto bene dove sono. Le mie canzoni sono ricche di umanità, di persone, l’individuo è al centro. Non parlo di politica perché essendone molto distante non ho la convinzione di dire cose sensate, magari andrei a far dei danni visto che qualcuno mi ascolta… lo faccio anche come protezione per gli altri!».

Cosa pensi della musica italiana attuale?
«Dobbiamo fare la distinzione tra quello che riusciamo ad ascoltare in radio o perché un amico ci dà un disco, e quello che in realtà c’è ma non sentiamo, tra un mondo fatto di grandissimi artisti che nemmeno conosciamo e un altro fatto di persone che conosciamo fin troppo ma che non ci interessano, perché parlano con uno strano biascichìo della voce e hanno un ritmo non riconoscibile. Alcuni di questi sono dei geni nei testi, altri semplicemente dei ragazzi che ci stanno provando. Non mi dispiace la musica dei Måneskin e di altri giovani gruppi rock, non me ne frega niente di come si vestono, non li vado a vedere ma se li ascolto non mi danno nessun fastidio. Vado avanti ascoltando il metal, l’elettronica, il jazz, il blues, la classica e quando sento qualcosa di nuovo e di interessante riconosco se mi piace o meno. Ci sono cantanti italiani che fanno dei gran pezzi. C’è la Nuova Scuola genovese, sono quasi tutti dei trapper, che scrivono testi degni dei loro antenati, ovviamente in un modo completamente nuovo che può far storcere il naso agli estimatori di De Andrè o Paoli. Alcuni hanno parecchio da dire, stanno facendo i cronisti del loro tempo!».

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