Furio Di Castri al Genius Loci di Firenze, musica e accoglienza

Parte il 28 settembre a Firenze Genius Loci: alla scoperta di Santa Croce, due notti e un’alba di musica, incontri e performance nello storico complesso francescano, organizzati da Associazione Controradio Club, Opera di Santa Croce e Controradio in collaborazione con associazione culturale La Nottola di Minerva. Si tratta di un festival “anomalo”, giunto alla sesta edizione. Il tema 2023 è di un’attualità imbarazzante: ospitalità e accoglienza, due parole su cui le arti, soprattutto la musica, hanno tanto da dire. 

Il post che ho pubblicato venerdì scorso conteneva già una piccola parte di quello che tratterà questo prezioso evento: la musica come accoglienza, fusione di culture, il viaggio come conoscenza e apertura mentale. E poi il valore profetico, spesso provocatorio, che la musica porta con sé, un bagaglio civile. 

Ieri sera sono stato a vedere Io Capitano di Matteo Garrone, film durissimo, dove il protagonista un sedicenne senegalese con il cugino cercano di raggiungere, in uno di quei viaggi disumani, l’Europa per realizzare il loro sogno di fare musica, di diventare famosi ed essere “applauditi dai bianchi”. 

Il bisogno di comunicare è più forte dei confini e dell’ottusità di certa politica stolta che naviga a vele spiegate tra le paure di un Occidente fragile. 

Il festival di Santa Croce è un piccolo granello di speranza, doveroso per uno dei luoghi storici del francescanesimo. Scrive bene Cristina Acidini, presidente Opera Santa Croce: «L’accoglienza e l’ospitalità, più di ogni altra caratteristica, definiscono e rendono unica l’identità di Santa Croce. Il tema prescelto quest’anno per la manifestazione Genius Loci: alla scoperta di Santa Croce è dunque intimamente legato alla vocazione secolare del complesso monumentale, fondata sulla spiritualità francescana. Sicuramente ne valorizza il ruolo anche nella prospettiva futura, contribuendo ad attualizzare e condividere il patrimonio di memoria che qui viene custodito attraverso i linguaggi della contemporaneità. Per questa edizione è stata scelta come parola chiave il temine ospite che, in forza del suo duplice significato, crea una suggestiva circolarità tra l’accogliere e l’essere accolto come straniero, tra l’abitare un luogo e, al tempo stesso, l’essere in cammino».

È una programmazione fitta – la potete scaricare in pdf qui – che vede artisti contemporanei, jazzisti, docenti, operatori, tutti chiamati a elaborare a modo loro il senso dell’accoglienza e del cammino. Tra questi c’è Furio Di Castri, contrabbassista che ha suonato con artisti incredibili, Chet Baker, Michel Petrucciani, Ornella Vanoni, Freddie Hubbard, Kenny Clarke, Franco d’Andrea, Sal Nistico, Enrico Pieranunzi, Paolo Fresu, Enrico Rava, Lee Konitz, Steve Lacy, Pharoah Sanders, Steve Lacy, Joe Lovano, Joe Henderson…  Milanese di nascita, «ma lì ho vissuto solo i primi quattro anni della mia vita», dal 2000 abita stabile a Torino, dove ha famiglia e lavoro, in conservatorio. A Santa Croce farà suonare, attraverso il contrabbasso e i riverberi, la Cappella Pazzi. Del riverbero vi avevo parlato qualche tempo fa quando ho intervistato Paolo Forte, fisarmonicista friulano che “ha suonato” un gigantesco serbatoio di petrolio per navi da guerra costruito negli anni Quaranta del secolo scorso nelle Highlands scozzesi.

Furio, il jazz ti ha portato a essere nomade per cultura e a capire il valore dell’accoglienza
«Ho girato tanto, in effetti mi sento abbastanza nomade. Mi piace conoscere, confrontarmi con tutto, essere aperto a ogni esperienza. La musica per me è stata uno dei migliori sistemi di conoscenza dell’umanità. Sono stato in Africa, Palestina, Filippine, Sudamerica, Europa: quando sei un musicista tendenzialmente vieni accolto e inserito nella società di quel paese. Ho ricordi spettacolari di tanti luoghi, posti in cui da solo, senza la musica, non ci sarei mai andato».

Ti sei dato una spiegazione del perché di questo tuo nomadismo?
«Credo sia casuale. I miei per lavoro si spostavano spesso in molte località. La strada e la geografia mi hanno sempre affascinato e il jazz mi ha permesso di conoscere tantissimi artisti di tutto il mondo e di suonare in posti in cui non avrei mai immaginato. A giugno, per esempio, mi hanno offerto di fare due serate al volo in Libano: ho detto sì, senza esitazione! Sono stato in Yemen per un mese e anche un anno in Tunisia, quando avevo 21 anni ed ero in crisi esistenziale. Allora mi avevano riformato dal servizio militare, non sapevo cosa fare, Torino negli anni Settanta era una città buia, grigia, tristissima e piena di conflitti. Proprio allora mi chiamarono per fare una stagione intera, nove mesi, in un club in Tunisia con un gruppo algerino (chi mi cercò fu il pianista, di Torino). Facevamo una musica allucinante in un club, facevamo ballare la gente, abitavo in una casetta in una comunità di musicisti tunisini e algerini, la notte suonavano la loro musica tradizionale, così mi sono messo a studiare un po’ di musica araba… Quando sono tornato, ho cominciato a suonare il contrabbasso portando la mia passione per il free jazz, per le contaminazioni mediterranee, per tutte le esperienze che avevo accumulato. Ho cercato di non fare il “giapponese”, ovvero imitare pedissequamente i contrabbassisti americani, ma di trovare una mia strada.».

Il jazz da questo punto di vista è molto inclusivo…
«È musica del mondo, dentro c’è contemporanea, indiana, africana è un genere che si è allargato tantissimo, fin troppo, aggiungo. Nei festival oggi si vedono cose che con il jazz non hanno nulla a che vedere…».

Hai ragione, una brutta piega…
«È preoccupante, il jazz è una musica che ha bisogno di rinnovarsi di continuo, assorbire le musiche altre. È una crisi generale iniziata negli anni Novanta. In televisione è sparito, se non nelle forme più commerciali o monopolizzate da certe istituzioni, i giovani sono completamente a digiuno di questa musica, l’età media del pubblico supera i 50, non ci sono più i produttori (sono i manager che li sostituiscono!)… Nel ’78 a Roma andavo con il mio contrabbasso al Music Inn e beccavo Charles Mingus, Ornette Colemann, Enrico Pieranunzi, Franco D’Andrea. Vedere oggi l’equivalente di un Mingus a due metri di distanza che paga da bere con un biglietto da 5 mila lire è impossibile».

È una questione culturale, tutto deve essere semplice, le cose più complesse non vengono capite…
«Il paradosso è che se oggi dovessi ascoltare la musica che Coltrane suonava nel 1966, il festival non farebbe biglietti. Non conta più il concetto di avanguardia, coinvolgimento, passione».

A proposito di coinvolgimento e sperimentazione veniamo a Firenze: cosa proporrai?
«Un repertorio per solo contrabbasso ce l’ho ed è molto variegato. Sarà un concerto riservato allo spazio e al peso del suono. Il basso da solo è importante perché ha un suono lento, calmo, rilassante, quello della meditazione dell’Om tibetano, ma al tempo stesso è anche la potenza della terra, il terremoto e il tuono. Mi piace questo contrasto. Cercherò di prendere per mano la gente e portarla nella dimensione del suono e dello spazio». 

Userai anche l’archetto?
«Questa volta farò solo pizzicato. Lavorerò sugli armonici, voglio muovermi, girare in mezzo al pubblico, devo capire se sarò fisso o se potrò spostarmi, in modo da far capire lo strumento, la sua poetica fatta di terra, passione, pancia».

Genius Loci non è un semplice festival, ma un evento complesso: da te a Rob Mazurek, da Zola Jesus a Ghemon… Di manifestazioni così ne fai tante?
«Sì, ho gestito e partecipato a molti eventi del genere. Il Festival del Silenzio e il Jazz Fringe Festival a Firenze l’ho portato io, nel 2017 con la zattera sul fiume, la danza verticale per pianoforte solo…Sono aperto a suonare ovunque, in alta montagna o in una gola, mi piace la musica elettronica, ho molto apprezzato il concerto di Franco D’Andrea con Dj Rocca. Credo che la gente debba riavvicinarsi al jazz vedendola per quello che è, una musica che include tutte le musiche».

Lavori in preparazione?
«Un disco in uscita, una rilettura di Mingus basato su un lavoro che ho portato nelle sale lo scorso anno in occasione del centenario della nascita del musicista. Poi ho ripreso e ripresentato un mio progetto del 2008 chiamato Zapping: utilizzare il sistema di scrittura di Frank Zappa, con bruschi cambiamenti di stili su musiche originali e su diversi repertori, in sette musicisti».

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