Africa Unite, quarant’anni di impegno e amicizia. Parola di Madaski

Quarantan’anni insieme senza essere mai banali. Capita a pochi gruppi, si contano sulle dita delle mani. Gli Africa Unite appartengono a questo club esclusivo. Veramente il quarantesimo si sarebbe dovuto festeggiare lo scorso anno, visto che la formazione di Bunna&Madaski nacque nel 1981, l’anno successivo alla mitica venuta a Milano di Bob Marley and The Wailers, il 25 giugno, nello stadio di San Siro, ma soprattutto nell’anno in cui il padre del reggae morì. Il nome della band è un omaggio al giamaicano più famoso della terra, tanto per ricordarlo anche a coloro che nell’81 erano ancora in fasce. La band di Pinerolo pubblicò il primo disco nel 1986, si chiamava Mjekrari, album che conteneva Nella mia città, una delle hit del gruppo. Se siete interessati, il 19 marzo su Sky Arte nel palinsesto My Generation, ci sarà uno speciale tutto per loro.

Il quarantesimo ha portato un altro bel regalo ai fan della band: tutta la vasta produzione fatta di brani, album, live, collaborazioni, è disponibile in streaming. Il 1 marzo sono stati caricati gli ultimi “pezzi” mancanti. «Ma ce ne sono ancora altri che rilasceremo presto», mi dice Madaski, tastierista e produttore eclettico, intrippato di dub.

Ammetto, era un po’ che non mettevo in cuffia al giusto volume gli Africa. Ed è sempre una gran bella carica. Per il loro modo di fare reggae, molto simile a quello di Marley, rigoroso, ben piantato, con testi impegnati, lontano da quello che viene prodotto oggi sull’isola caraibica, contaminato da sound confusionari e molto più “leggero”.

Quella degli Africa, e poi mi taccio e lascio la parola a Madaski, è anche una fruttuosa e importante esperienza di vita. Gli Africa sono una famiglia, oltre ai pochissimi rimasti dall’inizio dell’avventura, nella band sono passate decine di musicisti. Tutti amici prima che membri della band, gente a cui l’esperienza negli Africa scorre ancora nelle vene, un timbro nell’anima, indelebile…

Mada, dopo quarant’anni di reggae suonato sempre ad alti livelli, hai l’autorità per dirmi com’è la situazione attuale in Giamaica…
«Il reggae giamaicano oggi è del tutto indigeribile, ed è così da parecchi anni. Il mio rapporto con lui risale agli anni Settanta, Ottanta e un po’ dei Novanta. A livello attitudinale, o ha iniziato a scimmiottare roba americana o è diventato molto mistico, un misticismo di facciata che non ha prodotto più dei capolavori. Se ti dico che il miglior artista reggae in circolazione è un italiano ci crederesti? È Alborosie!».

Molto bravo, condivido! Tra l’altro non l’avete iniziato voi? Allora si faceva chiamare Stena!
«Gli ho prodotto cinque dischi quando suonava nei Reggae National Tickets. Vive da anni in Giamaica, ed è l’unico che riesce a ancora a suonare il reggae senza banalizzarlo».

Permettimi una divagazione sulla musica italiana, visto che hai uno studio discografico e sei un produttore, insomma, uno del mestiere… Cosa ne pensi?
«Vuoi proprio saperlo? Oggi è un pretesto per vendere un personaggio, né più né meno. Una trovata come un’altra, le stesse che usi per vendere qualsiasi prodotto. Si tratta di un’economia di gestione mediatica che avviene attraverso web, televisione e radio che implica un fiorire di cantanti, cantautori più o meno criptici, rapper più o meno colti o del tutto imitatori della scena americana. Tutto si basa su un’ostentazione della ricchezza della violenza, della bella vita…».

Sono sparite soprattutto le band come voi, i Modena City Ramblers, i 99 Posse…
«Non c’è granchè, i gruppi sono pochi, perché la figura solista è molto più facile da gestire e il management, con uno solo, esercita meglio il proprio potere. Queste figure vengono usate, sfruttate per pochi anni o addirittura meno, e poi scaricate».

Perché si è arrivati a ciò?
«Non ci sono più confini. Negli anni Ottanta c’erano tanti gruppi alternativi che proponevano modelli internazionali. Oggi ci siamo rinchiusi nei nostri studi con basi musicali fatte in serie. E si sente. Prima si usciva per scoprire gli artisti, ora si costruisce a tavolino un personaggio, ci sono alcuni produttori, sempre gli stessi, che preparano basi che poi vengono smistate a quello o a quell’atro che si vuole lanciare».

Uno può salire sul palco senza saper cantare e suonare – come spesso avviene!
«Non punto molto sulla preparazione musicale, ma almeno un libro di storia della musica dovrebbero leggerselo tutti per capire la differenza tra Bach e Chopin, Beethoven e Ravel… È tutto il sistema che è bacato: produce piccole meteore commerciali con, ripeto, una durata medio-corta. Non si basa su progetti di album, sul significato di quello che si vuol comunicare, su un linguaggio più ricercato…».

I vostri brani sono sempre stati molto legati al sociale, alla politica, all’attenzione per il lavoro, al criticare chi al governo agiva male o per nulla…
«Vero, questi sono temi molto poco affrontati dalle nuove generazioni. Per noi, invece, erano fin troppo sottolineati. Per me era naturale guardarmi intorno e cercare di capire cosa stesse succedendo, e di argomenti “politici” in quarant’anni ce ne sono stati tanti. Stiamo assistendo a un preoccupante peggioramento che coincide con un progressivo impoverimento culturale e politico dell’attuale classe dirigente. A parte Draghi, al potere ci sono degli analfabeti!».

E i musicisti, gli artisti, che avrebbero dovuto accorgersene prima e più di altri sono stati, salvo rare eccezioni, silenziosi…
«È una conseguenza che il mondo musicale ha subito molto… Sto vedendo un individualismo spinto nei musicisti, invece di aprirsi al mondo si chiudono. Il risultato che avverto è che purtroppo non c’è mai nulla che salti all’orecchio, che ti riesca a stupire. Penso che sia cambiato l’approccio alla musica. Sicuramente i nuovi artisti pensano la stessa cosa, al contrario, di noi!».

Torniamo agli Africa Unite, la vostra è una storia soprattutto di amicizia e di condivisione di valori… Di musicisti sul palco degli Africa ne sono passati tantissimi…
«Una quarantina! Io, Bunna e Papa Nico, il percussionista arrivato nel 1989, siamo i tre più longevi. Nel lungo albero genealogico degli Africa siamo rimasti tutti quanti con rapporti molto forti, ci troviamo spesso per suonare insieme, ed è bello! La musica deve essere prima di tutto un piacere, e forse è anche per questo che oggi manca. Il Tal dei Tali che esce da Amici spesso non ha nessuno, sul palco è solo, suona con altri musicisti ma non c’è quel legame che si forma in anni di convivenza sul palco. Lo vedi quando un artista suona con gli amici, quel legame profondo il pubblico lo avverte eccome! Oggi c’è un bel livello tecnico di persone che spesso suonano per qualcuno ma non con qualcuno…».

Tu e Bunna siete inseparabili…
«Ci conosciamo da 52 anni, dunque, avevamo io 4 e lui 5 anni. Tutt’ora abitiamo a 400 metri di distanza uno dall’altro. Ci vediamo molto, quasi tutte le sere per un aperitivo. Stamattina, per esempio, prima di sentirti, abbiamo fatto colazione insieme. Sicuramente gli Africa senza questo rapporto, questa vicinanza, non si sarebbero potuti esprimere così. Io e Bunna siamo diversi, per carattere, facciamo cose diverse, ma per questo siamo così uniti».

A proposito, tu Madaski e lui Bunna… ma chi vi ha dato questi nickname?
«Beh, Bunna… è sempre stato Bunna! È un adattamento del suo cognome, Bonino, sai i bimbi come fanno! Il mio me l’ha dato un amico musicista, Silvio Quarrozzo dei Persiana Jones. Credo sia l’anagramma di Adamski un musicista e produttore inglese.

Presto pubblicherete un nuovo album…
«Dovevamo farlo uscire l’anno scorso per celebrare i quarant’anni di attività, ma con tutto quello che è successo abbiamo deciso di rinviare. Il disco si chiamerà Non è Fortuna, è stato scritto durante il lockdown e in questi mesi lo abbiamo ampliato e modificato».

Ritorno sul vostro repertorio: ma avete pubblicato tutto, davvero?
«Abbiamo voluto fare gli Africa Unite dalla A alla Z. Ma non è ancora tutto! Per esempio manca un disco di dub version pubblicato solo in Germania che aggiungeremo presto. Non sono escluse anche alcune ristampe in vinile e in cd…».

Memento/ Bob Marley e il suo magnifico lascito

Particolare del Bob Marley Museum di Kingston – Foto Beppe Ceccato

Mancano 21 giorni al 39esimo anniversario della morte di Bob Marley, uno degli artisti più iconici e fortemente marcanti la storia della musica. Quest’anno, il 6 febbraio, a Kingston l’artista è stato celebrato per il 75esimo anniversario della nascita. In realtà, c’è un’altra data, forse quella più significativa per ricordarlo: il 20 aprile 1981 il governo giamaicano decise di premiare il figlio più famoso (e anche molto scomodo) dell’isola con il Jamaican Order of Merit, riconoscimento dato a chi si distingue nella scienza e nelle arti. Onorificenza dell’ultimo minuto: Marley se ne andrà per un tumore alla testa l’11 maggio. Nel 1978, nel famoso One Peace Love Concert, organizzato a Kingston per contribuire a mettere fine alla guerra civile che stava massacrando il Paese, fu proprio Marley, dal palco, ad obbligare i leader dei due partiti Manley e Seaga a stringersi la mano. La storia ci racconta che le violenze continuarono e i due capi politici si rividero solo al funerale dell’artista.

Se esistono delle linee di confine che definiscono la vita di un popolo, di uno stato, di una società, ebbene, una di queste è stata proprio quel ragazzo esile nato in un paesino, Nine Mile, tra il verde delle colline del distretto di Ocho Rios, da padre bianco e madre nera, povero e ribelle, intelligente e riflessivo, che ha cambiato per sempre la vita dei jamaicani. Quando atterri sull’isola lo vedi dappertutto, come Che Guevara e Castro a Cuba, murales, magliette, gadget utili per il turismo, libri… La sua faccia, come quella del Che, è un’icona, fa parte della storia del Novecento. Profondamente devoto al culto rastafari, profondamente convinto che i poveri dovessero avere la forza di alzare la testa, è stato anche un leader politico suo malgrado, la forza dirompente della sua musica è entrata nei palazzi del potere, quella musica che, dopo di lui, non è stata più la stessa. Bob, il re del levare, l’uomo che sapeva toccare le corde della gente su problematiche difficili, cresciuto a Trenchtown, quartiere ghetto di Kingston, la capitale, ha finito i suoi giorni, ad appena 36 anni, in una grande villa trasformata in quartier generale, al 56 di Hope Road, vicino al palazzo del Governatore, dal ghetto ai quartieri alti. La sua casa, diventata un museo (60mila presenze l’anno), era aperta, si suonava, registrava, pianificavano concerti, si discuteva di politica, di sociale. Qui, nel 1976 tentarono pure di assassinarlo: ci sono ancora i segni delle pallottole sul muro. Noi italiani lo ricordiamo per il mega concerto di San Siro a Milano tenutosi il 27 giugno del 1980 (con replica il giorno dopo a Torino). Allora tutti i giornali parlarono di una Woodstock italiana. Sul palco prima di lui salì anche Pino Daniele. Oreste del Buono, giornalista del Corriere della Sera, certo non privo di qualche pregiudizio, così scriveva un paio di giorni dopo l’evento: «Fumerà erbe giamaicane di ogni tipo, predicherà una religione bizzarra, non si laverà i capelli da mesi, avrà un numero eccessivo di mogli, guadagnerà moltissimo, ma è uno straordinario professionista, capace di affascinare centomila persone per due ore smezzo filate. Magari il calcio disponesse di uno così. Ci accontenteremmo di novanta minuti, anche di quarantacinque, via».

Bob Marley Museum, Kingston, dettaglio della statua dedicata all’artista nel giardino

Commemorare il Jamaican Order of Merit puntato sul petto di Bob Marley oggi significa guardare al suo lascito artistico. Il reggae, come tutta la musica, si evolve, è diventato più elettronico, eccessivo per certi aspetti. Ma l’importante è che molti giovani continuino a dedicarvicisi con passione. Ricordo che la nostra guida alla casa museo ci dimostrò, intonando qualche verso, come anche lui suonasse e cantasse reggae. «Lo abbiamo nel sangue», disse. «È una parte di noi, del nostro esistere come giamaicani».

Tra i tanti musicisti che si applicano con dovere al reggae, provate ad ascoltare due ragazze, Kelissa e Kim Nain, più commerciale, ma anche Jesse Royal, trentenne rasta, che il 13 marzo scorso ha rilasciato un singolo Natty Pablo, propedeutico a un nuovo album, dopo l’interessante Lily Of Da Valley del 2017 – ascoltate Always Be Around. Anche il non più giovanissimo Chezidek, 46 anni, cantante che lavora spesso in Europa, pubblica tra quattro giorni con i The Ligerians, gruppo reggae francese, il suo nuovo lavoro Timeless. Il 10 aprile ha rilasciato, sempre con i The Ligerians, un singolo, Babylon Virus. A questo punto non possiamo dimenticare un artista di casa nostra, il siciliano Alberto D’Ascola, in arte Alborosie. Vive da anni in Jamaica dove lavora e “alleva” nuovi adepti al levare. Insomma, uno quotatissimo nel mondo del reggae isolano. Dall’ultimo suo lavoro, Alborosie Meets Roots Radics: Dub for the Radicals uscito agli inizi del 2019, un’altra faccia del reggae, non meno interessante, una ricerca del ritmo primario, senza fronzoli, il basso suonato da Flabba Holt che fa da padrone assoluto.