Gegè Telesforo, classe 1961, foggiano. Musicista, polistrumentista, ma anche conduttore, ricercatore affamato di nuovi talenti, professore, cantante, jazzista con il funk nel cuore, onnivoro ascoltatore di note dal mondo… Inquadrarlo non è facile. Si è esibito e ha collaborato con i grandi nomi del jazz internazionale e non solo. Comunque la giri, lui è un esperto. Sarà il carattere, una naturale predisposizione al pentagramma, un genio eternamente curioso e vorace, sta di fatto che Gegè sta alla musica come la batteria al ritmo, l’improvvisazione al jazz… Insomma, due atomi inscindibili. Con lui, che del suo divertimento ne ha fatto una professione ad altissimi livelli, ho voluto scambiare quattro chiacchiere (forse qualcuna in più, concedetemela!), sul suo nuovo lavoro uscito in pieno lockdown, Il Mondo in Testa, su cosa significhi musica di qualità oggi e sugli artisti che preferisce. Importante: il prossimo 29 ottobre, in occasione del JazzMi, sarà al Blue Note di Milano, con un quintetto fantastico: oltre a lui, Domenico Sanna al pianoforte, Ameen Saleem al contrabbasso, Michele Santoleri alla batteria e Alfonso Deidda al sassofono, voce e tastiere. Torniamo all’intervista e mettetevi comodi…
Gegè, iniziamo con Il Mondo in Testa, il tuo lavoro uscito il 27 marzo scorso…
«Ho deciso di esprimere in un nuovo album tutto quello che ho imparato e assimilato negli anni, libero di fondere vari linguaggi e basi ritmiche che ho adattato alle mie composizioni. Un impegno notevole, abbiamo impiegato un anno e mezzo per confezionarlo. È stata una produzione vera e propria che mi ha occupato tantissimo. I tempi di realizzazione si sono dilatati perché ho voluto che suonassero con me musicisti che conosco e apprezzo, sia affermati sia emergenti, rispettando i loro impegni di lavoro. Inevitabilmente i tempi si sono allungati… È una produzione indipendente, artigianale, che ha richiesto una cura notevole».
A sei mesi dall’uscita com’è stato accolto il disco?
«Mi sta dando molte soddisfazioni. Ho deciso, vista la situazione, di presentare dal vivo i brani del disco il prossimo anno. È un lavoro che richiede la presenza di più musicisti sul palco. Quest’anno ho deciso di proporre solo alcuni brani del disco dal vivo e portare un repertorio adatto al mio quintetto…».
Perché questo titolo?
«Il Mondo in Testa si presta a una doppia lettura. Perché ho viaggiato tanto, e in tutti questi miei viaggi ho scoperto e imparato a usare le tante spezie che esaltano il sapore della musica. E poi perché il mondo in questo momento è una priorità, visto tutto quello che sta succedendo. Questo mio lavoro vuole essere una riflessione sulla vita, sulla natura».
Hai deciso di cantare in Italiano…
«Sì, ci sono tre brani cantati (Il Mondo in Testa, Genetica dell’Amore e Mille Petali, n.d.r.), nei restanti uso la vocalità. Non sono un cantautore che parte dalle parole e le mette poi in musica. Faccio il processo inverso: scrivo la melodia e poi cerco di dare un senso letterario al brano. Ho utilizzato l’italiano come si fa con l’inglese, assegnando a ogni nota una sillaba. La scelta delle parole è stata un lavoro molto complicato, per agevolare il canto di chi ha collaborato al disco».
Sei famoso per usare la vocalità nella tua musica. Insomma, sei il re dello scat!
«Servirsi della vocalità è come suonare uno strumento, bisogna allenarsi tanto, impararla. Nei conservatori che hanno aperto al jazz si studia la voce e lo scat. In sostanza, si creano frasi musicali sillabando parole senza senso. Non sono il solo in Italia a praticare questa disciplina. Ti cito, ad esempio, Maria Pia De Vito, Roberta Gambarini, Walter Ricci. E poi c’è una siciliana, una musicista completa, Daniela Spalletta, che ha cantato nel mio disco, un’artista devota allo studio, completa, canta lirica e jazz contemporaneo. È bravissima. Questi sono i musicisti che mi piacciono, onnivori, versatili».
Tu come hai scoperto lo scat?
«Una mania che avevo da bambino, senza ovviamente sapere cosa fosse. Papà, che di professione è architetto, ama il jazz, in particolare quello del periodo bebop. E io da piccolo ascoltavo quei dischi, memorizzavo tutto e li “suonavo” con la voce. Era una vera fissazione, passavo le ore, tanto che i miei a un certo punto si erano anche preoccupati. Per me era soltanto il mio gioco preferito e su questo gioco ho costruito una carriera».
Passiamo alle mille altre cose che fai. Uno degli appuntamenti fissi (che io ascolto con interesse perché non finisco mai di imparare) è SoundCheck il programma che da anni tieni su Radio24…
«La radio di Confindustria mi dà la possibilità di lavorare in assoluta libertà e trattare, dunque, la musica in maniera assolutamente naturale per me. Vedi (sorride, n.d.r.), tu e io, coetanei, siamo arrivati a un’età che ci permette di dire quello che pensiamo. E questa libertà me la prendo anche nel presentare la musica che mi piace. Faccio un programma da musicista e racconto di musica. Quando presento gli artisti mi informo, voglio sapere tutto, il loro background, da dove arrivano, come si sono formati. Non ho nessuna casa discografica che mi impone questo o quell’altro».
SoundCheck va alla grande…
«Sì, sono contento. Sebastiano Barisoni, il vicedirettore di Radio24, ogni volta mi dice che supero me stesso. Il programma va bene, ci sono ascoltatori, c’è pubblicità, c’è interesse per una musica diversa dal mainstream. SoundCheck lo posso fare perché viviamo nell’era digitale. Ai tempi in cui ho iniziato avevamo contatti diretti con le case discografiche. Era la musica che ci raggiungeva e si parlava di quegli artisti che le case discografiche volevano spingere. Oggi questo non succede più. Per fortuna possiamo bypassare le discografie ufficiali e cercare su siti che propongono artisti straordinari, molto interessanti, come SoundCloud o Bandcamp. Basta saper cercare».
Ti impegna molto?
«Dedico due giorni alla settimana alla ricerca, all’acquisto, all’ascolto. Poi catalogo e quindi inizio a formare i vari airplay…».
Ultimamente mi sono appassionato al trombettista Christian Scott aTunde Adjuah. Non smetto di ascoltarlo… ha una sezione ritmica incredibile…
«L’ho conosciuto e intervistato. È un ragazzone atletico, simpatico e aperto, non si droga né beve, il classico bravo ragazzo. Vive per la musica, fa tutto in funzione della musica. È questa dedizione, come ti dicevo prima, che mi fa apprezzare il lavoro di artisti come lui. Hai notato, parte con una tromba dal sapore messicano per buttarsi poi in altri territori d’improvvisazione…».
Tu hai un mentore e amico, il mitico Renzo Arbore. Possiamo definirlo musicista o è riduttivo?
«Lo conosco da quando ero piccolo, è amico di papà da sempre. Renzo secondo me è l’Artista, nel vero senso della parola. Una persona squisita, di grande cultura, un grande appassionato di jazz, un grande conoscitore della musica napoletana, uno che ha rivoluzionato la televisione. E poi conosce repertori messicani, portoghesi, spagnoli, segue concerti di jazz contemporaneo. Ha una memoria incredibile, ricorda nomi di musicisti, dischi, tutto! Penso che molti degli artisti di oggi debbano qualcosa a lui e a Gianni Boncompagni. Sì, poi Renzo è anche un musicista, uno che ha calcato palcoscenici importanti in tutto il mondo».
Hai lavorato molto con lui…
«Stavo negli Stati Uniti e collaboravo con Ben Sidran, il mitico Ben Sidran. Si era creato un’etichetta musicale sua, la Go Jazz e, oltre a pubblicare se stesso, cercava e spingeva giovani talenti. Ho inciso per la sua etichetta. Nel 1998 Renzo mi chiese di partecipare alla sua tournée sudamericana. Così sono rientrato in Italia per seguirlo. A fine tour, il suo manager, Adriano Aragozzini, mi fece la proposta di restare per 70 date. È finita che sono rimasto con Renzo per vent’anni, sempre in tour. Finché il tam tam primordiale, la mia passione, complice un esaurimento nervoso (stavamo fuori casa per 250 giorni all’anno), mi ha fatto dire basta e sono ritornato all’attività da solista, fondando una mia etichetta, la Groove Master Edition, assieme a Roberto Lamberti, che è anche il mio manager».
Da Arbore hai imparato tanto?
«Nella musica c’è sempre da imparare. Il problema è fermarsi. Si apprende dai grandi maestri ma anche dai giovani talenti. Quelli nei quali ho visto e vedo una luce, come Stefano Di Basttista, Tosca, Giorgia, il pianista Domenico Sanna, i batteristi Michele Santoleri (che con Sanna suona nel mio quintetto) e Dario Panza.
Tosca, la adoro! La sua versione di Piazza Grande di Lucio Dalla a Sanremo con Silvia Pérez Cruz, per me, è stata l’unica nota di vera musica del festival…
«Tosca è la mia cantante preferita in Italia. Quando inizia a cantare senti il grande studio che c’è dietro, è un’artista che sa stare sul palco, lo avverti il fuoco della musica».
La musica mainstream è piuttosto piatta, non trovi?
«Perché mercato e comunicazione dettano legge. In televisione anni fa c’erano programmi che cercavano di raccontare storie, indagavano, informavano. Oggi si cercano popstar che possono durare solo una stagione… Quando appare il grande talento, questo è preso dalla casa discografica e spremuto perché c’è necessità di fare numeri. I ragazzi da parte loro hanno un unico obiettivo, quello di raggiungere il successo immediatamente. Il risultato è che quest’ultimo arriva su pattern noiosi. Hai notato che il nostro Paese d’estate diventa tropicale? Ascolti solo basi Reggaeton, si cerca di semplificare al massimo, tutto deve essere ridotto a prodotto facile, che non impegna, da consumare subito».
Una specie di fast food della musica. Ma per fortuna non è tutto così…
«Esistono i musicisti, cioè quelli che, usciti dal conservatorio, non si vedono destinati all’insegnamento, ma vogliono imparare l’arte del vivere di musica. Un’arte che si apprende scoprendola sulla propria pelle. Ci sono ragazzi che scrivono con una certa complessità, che non passano in radio perché il pop deve fare visualizzazioni, streaming, download. Nessuno li conosce. Io sì, li cerco e spesso incidono con la mia etichetta indipendente».
Secondo te questo decadente appiattimento culturale è una fase di passaggio?
«Ora è tutto indie-trap-hip hop, un miscuglio di vari stilemi. Ma chi è appassionato di musica va a cercare altro. C’è tanta musica di qualità, credimi! Perciò, no, non penso che stiamo vivendo un periodo decadente».