Interviste: Dan Costa, la pace e la musica di Randy Brecker

Dan Costa – Foto Alon Levin

Non so quanti di voi conoscano Dan Costa. Per chi non lo ha mai sentito suonare, sarà una bella scoperta. Non solo perché è un pianista di gran talento, e già questo basterebbe a segnalarne l’ascolto. Ma soprattutto perché ha quel modo curioso e romantico di approcciarsi alla musica, quella sana ingenuità di chi riesce a tradurre in note le sensazioni e gli attimi.

Poi, ha un atout in più, permettetelo, molto soggettivo. È un appassionato di musica brasiliana, l’ha studiata a fondo, e il suo modo di comporre e ricercare quelle giuste pause e quelle armonie sapide che hanno fatto la fortuna della musica brasileira da Heitor Villa-Lobos in poi, è una delle sue cifre compositive. Nel suo Suite Três Rios, album pubblicato nel 2016, c’è il Brasile di Tom Jobim, lo Choro di Villa-Lobos ma anche quello di Jacob do Bandolim, di Pixinguinha, Noel Rosa e, in tempi più recenti del Trio Madeira Brasil e di quel geniaccio intemperante di Yamandu Costa. Con lui hanno suonato – tenendo conto anche del successivo lavoro del 2018, SkynessJaques Morelembaum, Teco Cardoso, Roberto Menescal (uno dei padri della bossanova), Romero Lubambo, Nelson Faria. Per lui ha cantato Leila Pinheiro, rarissima eccezione, visto che le sue composizioni sono quasi esclusivamente strumentali.

Conosciamo, dunque, un poi meglio Dan, prima di leggere la bella chiacchierata che ho fatto con lui un sabato mattina di qualche settimana fa. Trentadue anni, mamma sorrentina, papà portuense (portoghese di Porto), nato a Londra, vissuto nella Francia Meridionale, dove ha iniziato seriamente lo studio del pianoforte all’Académie de Musique Rainier III nel principato monegasco, quindi di nuovo in Gran Bretagna, per frequentare il Liverpool Institute for Performing Arts di Paul McCartney. Poi a Porto, nell’Escola Superior de Música e Artes do Espectáculo. Da qui, oltreoceano in Brasile, all’Unicamp di Campinas per un anno di perfezionamento sulla musica brasiliana. E, ancora, negli States, a Boston, per un corso di perfezionamento in music business al Berklee College of Music… Senza mettere in conto le frequenze ai tanti workshop e corsi tenuti da musicisti del calibro di Gary Burton, Kevin Hays, Scott Colley, Kurt Rosenwinkel, Jorge Rossy, Chick Corea e César Camargo Mariano.

Dan ha arricchito – musicalmente e culturalmente – questo suo lungo peregrinare per il mondo. Ha vissuto in otto Paesi diversi, ne parla correttamente tutte le lingue, si sente apolide nel significato più pregnante del termine, ovvero cittadino del mondo.

Lo si potrebbe definire, senza dubbi, un artista no limits, mai sazio di conoscere, imparare, sperimentare. Inevitabile che la sua musica rifletta tutta questa innata curiosità.

Lo scorso 9 marzo, in piena guerra russo-ucraina, ha pubblicato un brano inedito, Iremia, che in greco significa pace interiore, composto nel 2018, ben lontano dalla pandemia e dalle brutali impennate russe, su un’isola greca, dove in quel periodo si trovava ad abitare. Una melodia che riporta visivamente le sensazioni di un istante. Immaginate lo spettacolo di un tramonto: seduti, in religioso silenzio, davanti a voi un mare che si colora di luci e riflessi, l’eterno, misterioso passaggio dalla luce al crepuscolo, che ci emoziona ogni giorno. Con Dan c’è il mitico Randy Bracker, che, con la sua tromba ricama, sottolinea, esalta riflessivi paesaggi sonori. Un’alchimia perfetta tra i due artisti, anche perché la registrazione è avvenuta a distanza, Dan in Italia, lui negli States…

Dan, partiamo da Iremia
«Significa “pace interiore”. È un messaggio universale. Il brano coglie l’ambiente magico in cui ero inserito quando vivevo in Grecia. Dovevo lanciarlo un paio di mesi fa, ma, dovuto a dei contrattempi l’ho pubblicato a marzo, proprio in questo momento difficile per il mondo. Sarà stata una coincidenza? Chi lo sa…».

Non è stato, dunque, un caso nemmeno la collaborazione con Brecker…
«Abbiamo delle conoscenze in comune, come Ricardo Silveira e Teco Cardoso, con i quali avevo registrato altri brani in Suite Três Rios e Skyness. Ho inviato a Randy il mio brano via mail e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto partecipare. Mi ha risposto in un modo entusiasta nel giro di pochi minuti. Così abbiamo registrato, lui in America io in Europa. È stato tutto molto spontaneo, e non mi aspettavo una risposta così rapida e lusinghiera».

Ne approfitto: mi piace molto il tuo album Suite Três Rios
«Grazie! È un lavoro concepito come una suite, la sua forma musicale è classica. Rispecchia il mio background, arricchito poi da studi jazz e di musica brasiliana. L’ultimo brano dell’album, l’ho chiamato apposta Aria, per riaffermare i canoni della suite, già suggeriti dai ritmi brasiliani che lo precedono…».

La tua origine di italo-portoghese cresciuto in un paese anglofono ha decisamente influito sul tuo modo di fare musica. L’antropologo Darcy Ribeiro la chiamerebbe miscigenação
«Madre italiana, padre portoghese, culture diverse ma in fondo anche simili… l’encontro das águas nell’Amazzonia mi ricorda un po’ queste mie origini. Il rio Preto e il rio Solimões scorrono paralleli senza confondere le loro acque… Mi sento così, conservo distinte le mie culture di partenza, credo che la fusione sia nell’insieme, dove ogni caratteristica rimane senza danneggiare l’altra».

Nei tuoi dischi c’è molto Brasile…
«Come in quelli di tanti altri artisti, si sente chiaramente che esiste una… brazilian conncection! Vedi George Benson o lo stesso Randy Brecker con Randy in Brasil: nel 2009 ha vinto un Grammy come miglior album di jazz contemporaneo».

Perché secondo te la musica brasiliana ha un così forte richiamo soprattutto per i musicisti jazz?
«Ad attrarre è la sua ricchezza, nonché il suo calore: l’unione di ritmi africani – soprattutto di Angola – e melodie europee provenienti dalla musica popolare portoghese e dall’opera italiana. La musica brasiliana, infatti, ha le sue origini nella Modinha e nel Lundum, a differenza del jazz americano, nato sempre da ritmi afro, mescolati però con la musica popolare proveniente dalle isole britanniche. Sono due ambienti diversi che permettono fusioni interessanti. Nella musica brasiliana c’è poi anche l’influenza india nella strumentazione, ugualmente importante».

La musica brasileira ha una struttura armonica piuttosto complessa…
«Certamente, ma dipende dal compositore. Sono stati maestri come Camargo Guarnieri, Villa-Lobos e Jobim, o più tardi, Hermeto Pascoal, a offrire al jazz i colori impressionistici dei francesi Ravel o Debussy o le progressioni che ricordano lo splendore del jazz americano».

Quando hai iniziato a suonare il piano?
«Avevo cinque, sei anni. I miei genitori volevano che studiassi pianoforte. A me non interessava molto, preferivo giocare a calcio. La svolta l’ho avuta verso i dieci, undici anni, quando ho ascoltato le canzoni di Gianni Morandi. Mi piaceva la sua grinta e il modo in cui le interpretava. Negli anni Ottanta/Novanta faceva un bel pop, italiano con influenze anglosassoni, molto positivo, solare. Volevo capire come “funzionavano” le sue canzoni, così mi mettevo al piano e cercavo di decifrarle. Mi identificavo in quella musica. Nella musica pop l’armonia è importante. Una delle prime canzoni che ho suonato al pianoforte è stata un altro classico, Imagine di John Lennon. Poi siccome mi piaceva leggere spartiti classici a prima vista iniziavo ad improvvisare quando la melodia si ripeteva. Così mi sono avvicinato al jazz, tramite In a sentimental Mood di Duke Ellington e O Barquinho di Roberto Menescal».

Dan Costa – Foto Artesuono

Cosa ascoltavi e cosa ascolti ora?
«Mi interessavano anche le mie origini partenopee. Ricordo che mio nonno, il papà di mia mamma, suonava e cantava i classici napoletani, ‘O surdato ‘nnammuratoTorna a Surriento, Funiculì Funiculà… La mia nonna materna, invece, cantava le canzoni di Amália Rodrigues, Casa Portuguesa, Cheira a Lisboa... Più tardi ho scoperto la musica di Carlos de Carmo. Anche questo ha contribuito alla mia formazione. Ascoltavo anche Elton John, i Simply Red, Sting, i Police. Mi piacevano per la loro musica ma anche per i loro testi, così come i grandi cantanti brasiliani come Emílio Santiago. Oggi come oggi ascolto molta musica strumentale, soprattutto musica classica, come ad esempio J.S. Bach, suonato da Murray Perahia (pianista americano considerato uno dei maggiori interpreti di tutti i tempi del musicista tedesco, ndr) e jazz moderno. Mi piacciono le big bands».

Finora hai abitato in otto Paesi diversi. Dove ti senti a casa?
«L’aver vissuto in molti luoghi mi ha aperto alle culture di ciascuno. Dove mi sento a casa? Dall’Inghilterra all’India, c’è sempre qualcosa ovunque io vada che mi fa sentire un po’ a casa. Se proprio mi costringi a scegliere… beh, il Brasile per motivi culturali. Quando frequentavo il master a São Paulo, quasi tutti i miei colleghi avevano discendenza italiana o portoghese, c’era quel qualcosa che ci accomunava che ci faceva sentire parte di una comunità. Anche in Grecia, dove ho vissuto alcuni anni, mi sono sentito a casa. Forse saranno le origini della mia famiglia materna che di cognome fa Greco…».

Ritorno alla tua Suite Tra Rios: l’unico brano cantato l’hai affidato a Leila Pinheiro…
«Infattioè stata la prima ospite che ho contattato. Mi piaceva molto il modo in cui interpretava la bossanova, dandogli l’eleganza timbrica che il genere meritava. Tra l’altro è una delle artisti che ascoltavo durante la mia adolescenza. Il brano che lei avrebbe poi interpretato era ancora strumentale quando le ho scritto, così mi sono messo a lavorare su un testo nel quale volevo trasmettere il messaggio dell’album, essenzialmente strumentale – fiumi naturali e culturali che sboccano in un mare senza fine…».

A cosa stai lavorando ora?
«Nella mia attività artistica sto collaborando con Roberto Menescal alla composizione di un brano. Siamo molto presi, ci sentiamo spesso per scambiarci idee, proposte… Una bella collaborazione».

Interviste/ Fabrizio Sotti, l’italiano che ha avuto la fortuna di fare la storia della musica americana

Prima di mettermi a scrivere questa lunga intervista, un’ora di collegamento via Skype a New York, mi sono dedicato a un doveroso “ripasso”, andando a recuperare album che non ascoltavo da parecchio tempo. Nell’ordine, Money Jungle, anno d’uscita 1962, disco gigantesco, il blues in jazz inteso da Duke Ellington, al pianoforte, Charlie Mingus al contrabbasso e Max Roach alla batteria. Quindi, anno 1965, Smokin’ at the Half Note, registrazione live di un concerto del chitarrista Wes Montgomery & Winton Kelly Trio. E qui già stiamo entrando nel personaggio. Il suono della chitarra di Wes è vellutato, di una romantica, voluta opacità (ascoltate Impressions). Infine, ancora in cuffia, anno d’uscita 1968, Electric Ladyland, terzo e ultimo disco (doppio) inciso da Jimi Hendrix nella formazione The Jimi Hendrix Experience con Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Ricordate – e come non ricordarle! – Voodoo Chile e Crosstown Traffic?

Fabrizio Sotti – Foto Marco Glaviano

Bene, ora sono pronto! Con l’inconfondibile dialogo di Hendrix e la sua Fender Strat vi presento Fabrizio Sotti, 45 anni, padovano di origine e newyorkese d’adozione. È un musicista e compositore, jazz di predilezione. Ma è anche un producer, ha fondato e gestito etichette discografiche, ed è un autore. È un chitarrista, uno straordinario chitarrista, che non disdegna altri generi musicali, dal rock al pop all’urban. I personaggi con cui ho iniziato questo post non sono stati scelti a caso, sono una piccola, ma sostanziosa parte della sua formazione, le ragioni per cui Fabrizio ha iniziato a suonare giovanissimo la chitarra, ad amare il jazz e a colorare la sua musica con la maestosa psichedelica bravura di Hendrix. Così sono pronto a “sbobinare” la lunga chiacchierata con questo artista che ha rotto i canoni del classico musicista: la storia della sua vita, la musica, le contaminazioni musicali, la Ferrari (capirete…) ma anche il lockdown negli States, le ansie e il mondo che verrà…

Partiamo dall’inizio: come ti è venuta la passione per la musica e per il jazz?
«È stata mia nonna paterna che suonava il pianoforte, musica classica, a iniziarmi e a  insegnarmi i fondamentali. Avevo cinque anni. A nove sono stato attratto dalla chitarra, amore a prima vista, e ho iniziato a studiarla seriamente. Crescendo mi sono appassionato ai grandi del jazz, Wes Montgomery ma anche John Coltrane, Duke Ellington, Miles Davis. E poi Jimi Hendrix. Erano gli anni Ottanta e a Padova non c’erano scuole che insegnassero seriamente il jazz, al di fuori di qualche maestro privato. Andavo da “Ricordi” a comprare i manuali di jazz della Berklee College of Music. A 14-15 anni ho iniziato a suonare (e lavorare) come professionista, facevo il turnista, con Leandro Barsotti, Angela Baraldi, Samuele Bersani. Ho avuto la fortuna di avere un trio con con Ares Tavolazzi e Mauro Beggio, bassista e batterista grandissimi, con i quali ho imparato molto. Poi il Fabrizio Sotti Mob Group jazz/fusion con Francesco Lomagistro alla batteria e Christian Lisi al basso…

Insomma, una carriera iniziata bene…
«Sì, ma presto mi son reso conto che, se volevo crescere, diventare davvero bravo, coltivare la mia passione, dovevo andarmene dall’Italia. La scena musicale italiana, a parte poche eccezioni, anzi, l’Italia in sé, non aveva grandi maestri, anche di vita…

Quindi?
«Quindi a 16 anni ho avuto il coraggio di andarmene a New York, avevo qualche contatto di musicisti… ma sono ripartito da zero per la lingua e la musica. Avevo le nozioni di base, però avevo capito che al di là delle ore di studio dello strumento, per imparare davvero dovevo suonare con bravi musicisti. Il bello del circuito jazz newyorkese è che, se sei serio e bravo, ti accolgono, sei uno di loro. Così mi sono trovato a suonare con grandi nomi, con il bassista Steve LaSpina, i batteristi Victor Jones e Al Foster, i bassisti John Patitucci, Mark Egan e Jeff Andrews, il trombettista Randy Brecker… Suonare con dei grandi musicisti è la migliore scuola. Ho 45 anni ma non si smette mai di imparare, ancora oggi studio e sono sempre alla ricerca della mia voce più profonda».

Sei poi tornato in Italia?
«Sì, nel ’95 per fare il militare. Sono finito alla base Nato di Aviano, proprio nel periodo delle guerre in Jugoslavia e degli interventi americani i cui aerei partivano da lì. Un momento della mia vita di cui non amo parlare, una brutta esperienza».

Poi sei ripartito per gli Usa…
«Sì, a settembre del ’96 sono ritornato in America e lì son rimasto. Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza difficile, la musica mi ha salvato».

Tu non sei “solo” un chitarrista jazz, sei anche molto altro…
«Sono sempre stato uno curioso. Mi piace tutta la musica, o meglio, per citare Duke Ellington, “Ci sono due tipi di musica: la buona e… tutto il resto”. Ascolto di tutto, basta sia valido, abbia qualcosa da dire. Per questo mi sono avventurato da sempre anche fuori dal jazz, mi incuriosiva molto la parte di produzione della musica e scrivere canzoni. Al mio rientro a New York ho creato un piccolo studio e ho intrapreso centinaia di collaborazioni con musicisti urban, hip hop, R&B. Oggi sono musicista, produttore e scrittore. Sai, dell’ambiente del jazz, soprattutto europeo, non sopporto lo snobismo verso gli altri generi, che qui non esiste. Michael Brecker, grande sassofonista, aveva un’attitudine rilassata verso la musica, quando sai chi sei e cosa fai non devi temere nulla…».

Una vena polemica?
«Non tollero gli opinionisti, quelli che sanno tutto e giudicano. Io mi faccio gli affari miei. Questa è una delle ragioni per cui me ne sono andato. Negli States nessuno ti dice nulla e vale un principio: se suoni bene esisti sennò non esisti. Punto».

Per questo in Italia hai fatto poche collaborazioni?
«Ne ho fatte alcune di cui vado fiero. La prima con Zucchero, contenuta nell’album A Fiew Possibilities del 2014, Someone Else’s Tears (bonus track contenuto nell’album Chocabeck del 2010, il cui testo è stato scritto da Bono Vox, n.d.r.). La seconda, del 2017, con Clementino per il brano La cosa più bella che ho (dall’album Vulcano, n.d.r.), dove ho suonato la chitarra e curato la produzione. Lo stesso per la terza, Angeli e Demoni, canzone uscita nel febbraio dello scorso anno, con il rapper Mondo Marcio (Gian Marco Marcello, contenuta nell’album UOMO!, n.d.r.) e Mina… Hai notato la chitarra com’è predominante? Un Il testo di quest’ultima canzone fa riflettere molto, la musica ti può dare emozioni positive e riflessioni utili».

Per il discorso di cui sopra, qui sono in molti a criticare Zucchero…
«Zucchero è sempre stato innovativo, ha un suo sound ed è uno dei più grandi artisti che abbiamo in Italia»·

Gli altri chi sono?
«Chi erano: Pino Daniele, con cui coltivavo una grande amicizia, e Lucio Dalla con il quale avevo suonato quando ero un ragazzino. A questo proposito ti do un’anteprima, non l’ho detto ancora a nessun giornalista: prima che scoppiasse il problema del virus e si chiudesse tutto, con Rachel Z., pianista che ha suonato in molte tournée di Pino, e con suo marito, il batterista Omar Hakim, abbiamo deciso di preparare un omaggio a Pino. Rachel l’ho conosciuta negli anni Novanta, perché avevo preso in affitto il suo appartamento per alcuni mesi proprio mentre lei era in concerto con Pino in Italia. Poi ha sposato Omar. Quindi siamo tre amici che hanno preparato un tributo a un amico che non c’è più, un disco con sue canzone rivisitate da noi con special guests, cantanti e rapper, grossi nomi, ti basti sapere questo, non posso dirti di più. Dovevamo presentarlo anche in Italia, con una serie di concerti, ma s’è dovuto rinviare tutto al prossimo anno…».

Fabrizio Sotti – Foto Marco Glaviano

Passiamo a un altro capitolo della tua vita: hai firmato la riedizione di una chitarra mitica per un jazzista, costruita negli anni Trenta, la D’Angelico Premier Fabrizio Sotti SS…
«È una storia curiosa, John D’Angelico era un liutaio aveva aperto un negozio in Little Italy a New York nel 1932. Figlio di italiani, ha creato delle chitarre favolose diventando il punto di riferimento dei musicisti dell’epoca. Lui è morto negli anni Sessanta e via via l’azienda, passata per varie esperienze, aveva finito per chiudere. Sei, sette anni fa una cordata di investitori americani l’ha riaperta e, per riportarla alla vecchia gloria, ha chiamato alcuni chitarristi a rappresentarla (oltre a Fabrizio c’è Bob Weir, dei Grateful Dead, e Kurt Rosenwinkel, n.d.r.). Sono molto orgoglioso di essere un italo-americano di “nuova generazione”, è il traguardo di tanto lavoro fatto. Ho avuto fortuna di fare la storia della musica americana lavorando assieme a Cassandra Wilson, Dead Prez, Whitney Houston, Jennifer Lopez, Ice-T, Shaggy… Sono soddisfatto, ma sempre alla ricerca di nuovo. A 45 anni inizio a tirare le somme, anche se sono ancora a meno della metà dell’opera!».

Apriamo un altro di capitolo: la tua passione per le Ferrari…
«È uno di quei desideri che ti vengono fin da bambino. È un brand che racchiude in sé un’essenza mistica per il sogno che rappresenta. Con i miei primi soldi veri guadagnati, non avevo nemmeno comprato casa, ho acquistato una F355. Da allora ne ho avuto molte, sono stato “usato” anche come testimonial dalla casa di Maranello. Ti confesso che preferisco i modelli più “vecchi”, dove l’uomo può mettere la sua tecnica di guida, oggi vanno da sole! Andavo anche in pista. Ora non lo faccio più, sono sposato e ho una bambina, altre responsabilità…».

Velocità e musica che connessione hanno?
«La stessa sensazione: quando sono alla guida e quando suono, è un’emozione. Una grande, forte emozione».

Fabrizio veniamo al Covid19 e al lockdown: niente concerti niente produzioni, niente dischi, niente…
«È tutto sospeso. Pubblichi dischi per andare poi in giro per il mondo a fare concerti, è così che puoi guadagnare. Penso che per un anno non si suonerà più nei club per mantenere il “social distancing”. Sai, credo che non torneremo più alla normalità come eravamo abituati a viverla. Dovrò riorganizzarmi. Io, che per fortuna ho diversificato le mie attività, avendo scritto e prodotto canzoni di successo resisto ancora, ma penso a come faranno a sopravvivere i musicisti che suonano soltanto. E quello che ci sta succedendo oggi è un fallimento dell’umanità. Così perdiamo musica, libri, cultura, l’arte…».

Sarà brutale…
«Lo dico consapevole di pronunciare parole “tragiche”: tra un anno ci saranno meno della metà dei musicisti attivi oggi. Sarà un dura selezione naturale, soprattutto per il jazz. La “classe media della musica» – e nel jazz è praticamente tutta classe media – rischia di venire cancellata. Sono un positivo di natura, non mi sono mai fermato davanti niente, ma questa situazione mi fa sentire impotente».