Quarantaquattro gatti
In fila per sei col resto di due
Si unirono compatti
In fila per sei col resto di due…
Sfido chiunque a non averla cantata almeno una volta nella vita. Quarantaquattro Gatti del modenese Pippo Casarini (anno domini 1968) è una della dodici canzoni scelte tra i grandi successi dello Zecchino d’Oro, pubblicate in un album dal titolo popOFF, in versione jazz, da Paolo Fesu, Cristina Zavalloni, Cristiano Arcelli, Dino Rubino, Marco Bardoscia e il Quartetto Alborada per la Tŭk Music (etichetta dello stesso Fresu), nel catalogo “Kids”.
Un’idea brillante e unica, le canzoni per bimbi trasformate in musica dotta per un pubblico adulto, ma anche un modo per far conoscere ai più piccoli la bellezza della fantasia, della composizione e dell’improvvisazione, ovvero di ciò che la musica ha di più caro e sacro.
Non un’operazione furba, mettiamolo subito in chiaro, piuttosto una delle tante genialità del musicista sardo che, proprio per questo, si conferma uno degli artisti più creativi degli ultimi anni. Sarà che condivido con Fresu lo stesso anno di nascita, il 1961, a dirla tutta lui è qualche mese più anziano di me! – sarà che lo Zecchino d’Oro è stato uno dei momenti formativi della nostra fanciullezza, sarà che porto rispetto e ascolto tutta la musica e che adoro il jazz, sta di fatto che riascoltare brani che avevo chiuso nel baule dei ricordi nella soffitta della mia mente, riproposti con un’esplosione dinamica e fantastica da jazzisti internazionali di prima fila mi ha galvanizzato, stimolando la curiosità di ascoltare questo lavoro per capire come Lettera a Pinocchio o il Valzer del Moscerino o Popoff, potessero ritornare con una partitura fedele nella struttura ma con la libertà di reinterpretazioni e improvvisazioni.
Non a caso, all’interno del Cd è riportata una frase di Claudio Abbado: «Non si deve insegnare la musica ai bambini per farli diventare grandi musicisti, ma perché imparino ad ascoltare e, di conseguenza, ad essere ascoltati». La certezza, dunque, di avere in mano un lavoro che non ha alcuna pretesa, se non quello di omaggiare la musica nel suo insieme, dare il giusto valore anche a una canzone scritta per fanciulli dai quattro anni in su. Sulla stessa onda, la cover e le illustrazioni dei testi delle canzoni, frutto dell’opera di Lorenzo Mattotti.
Scrive Fresu: «Quando ho pensato a un progetto musicale che fosse il racconto di Bologna, il mio pensiero è andato immediatamente alle canzoni dello Zecchino d’Oro. Perché le ho ascoltate da bambino e perché rappresentano la città che mi ha accolto e che mi ha offerto l’opportunità di occuparmi di infanzia contribuendo a sviluppare e rafforzare l’importante messaggio della musica nella scuola e nella società».
Anche la voce per interpretare questi brani è stata scelta con cura. Ancora il musicista sardo: «popOFF doveva necessariamente trovare un canto che fosse adulto ma che, nel medesimo tempo, conoscesse la lievità e la maternità. Ancora una volta la mente è andata all’unica artista capace di incarnare questo doppio ruolo…».
Lei è Cristina Zavalloni, classe 1973, figlia di Paolo Zavalloni (aka Zavallone), l’uomo, il musicista, che per anni è stato l’anima dello Zecchino d’Oro, da direttore artistico dell’Antoniano (1989-2003). L’ho contattata perché mi raccontasse il suo approccio e la sua esperienza in un lavoro che l’ha coinvolta non solo professionalmente ma anche – e soprattutto – emozionalmente. A proposito: questa sera, lunedì 25 ottobre, Cristina Zavallone sarà in Sala Grande al Teatro Parenti di Milano assieme al pianista Andrea Rebaudengo e al mitico clarinettista Gabriele Mirabassi per un excursus in musica da John Dowland a Frescobaldi, da Gershwin ad Ellington, ai Beatles, fino ai brasiliani Pixinguinha ed Egberto Gismonti. Vivamente raccomandato, io ci sarò!
Le canzoni dello Zecchino in chiave jazz, una gran bella trovata…
«È di Paolo (Fresu, ndr), l’ha avuta lui, mannaggia, come mai non ci ho pensato io? Sto scherzando, ovviamente! Con Paolo ci conosciamo da anni, abbiamo lavorato molto insieme. L’intenzione me l’ha comunicata con un po’ di pudore, facendo leva su due fattori per me importanti, la genitorialità e la mia storia familiare. Ho accettato subito con un entusiasmo liberatorio. Perché lo Zecchino d’Oro e quei brani sono una parte importante della mia vita. Ho una figlia di sette anni che conosce a memoria le canzoni dello Zecchino e un padre che è stato uno degli artefici del festival bolognese».
Hai cantato anche tu allo Zecchino d’Oro?
«No, perché quando mio papà ha deciso di mettere radici a Bologna, città di mia mamma, dopo aver girato per il suo lavoro di musicista ovunque, sono arrivata nel capoluogo emiliano che ero quasi un’adolescente, quindi fuori target Zecchino! Anche se non ero nuova ai palchi e alle trasmissioni televisive: cantavo da quando ero piccola nei programmi di papà, per me, bambina, era un gioco (facevo TipTap su Rai 2 nei primi anni Ottanta). A Bologna mi sono ritrovata solista con le Verdi Note, il coro composto da ex bimbi del Piccolo Coro di Mariele Ventre…».
La proposta di Fresu a distanza di anni è stata quanto mai indovinata!
«Paolo mi ha regalato la possibilità di chiudere un cerchio che unisce tre generazioni: mio papà, me, bambina, e mia figlia. Finalmente mi sono potuta togliere, con un codice diverso, jazzistico in questo caso, la soddisfazione di cantare lo Zecchino d’Oro!».
popOFF è un disco raffinato e tu lo hai interpretato cambiando il modo di cantare a seconda delle canzoni…
«Dici? Mi fa sempre molto sorridere questa osservazione. Non sei il primo ad avermela fatta. Me l’ha detto anche il mio compagno! Ero convinta di aver trovato un suono nella mia testa e di seguirlo per tutti i brani. Invece ho capito che il miglior modo per interpretare un brano non è tanto la ricerca quanto ciò che hai intorno, i musicisti, l’ambiente, le sensazioni. Per prepararmi, ad esempio, ho ascoltato molto Johnny Dorelli…».
Ne La Giostra del Carillon (1963) peraltro straordinaria, sembri un’artista degli anni Cinquanta. Per impostazione della voce mi ricordavi qualcuna… poi ho capito chi, Elizeth Cardoso…
«Sono innamorata di Elizeth Cardoso, l’ascolto spesso, è una delle mie artiste preferite. È vero, la sua voce squillante, il suo modo di cantare… Popoff (1967), ad esempio, ricorda tanto Prokofiev nella sua aria lirica, mentre Il Pinguino Belisario (2011) mi riporta alla mente, nel suo andare di marcia, A Banda di Chico Buarque…».
Nel disco c’è molta improvvisazione?
«Come principio generale la stesura doveva essere fedele all’originale. Questo era il punto di partenza. L’approccio di ciascun brano è stato poi deciso in tempo reale in sala d’incisione. L’atteggiamento è jazzistico: tra di noi bastano due segni e ci si intende. Ci sono gli arrangiamenti scritti e le parti lasciate all’interpretazione di ogni musicista. Il disco lo abbiamo registrato in tre giorni, nel marzo scorso. Mezza giornata ce la siamo presa per correggere alcune imperfezioni o rivedere certe parti».
Cosa vi aspettate da popOFF?
«Penso di poter parlare a nome di tutti: non ci aspettiamo niente. Non fraintendermi, non voglio peccare di superbia, ma abbiamo raggiunto un’età dove possiamo prenderci il gusto di fare quello che ci piace. In realtà il disco, uscito a fine settembre, sta avendo un enorme interesse a livello di booking, stampa, richiesta di concerti. Un’attenzione maggiore di quella che ci aspettavamo, ed è quello che conta di più».
Avete idea, dunque, di farne una serie di concerti?
«Non abbiamo l’idea, lo abbiamo già deciso! Garantiamo di farne uno spettacolo che stiamo già preparando e che porteremo al pubblico nel 2022!».
Voglio finire con una dichiarazione d’amore, presa sempre dal libretto incluso nel Cd. È di Paolo Zavalloni rivolta alla figlia. Lui è ancora in forma, con i suoi 89 anni portati con la voglia e l’entusiasmo di suonare e comporre ancora. «Ha scritto un pezzo per Natale», mi conferma Cristina. Eccola: «Cara Cris, riuscire, attraverso le note, a farsi capire dagli altri non è cosa da poco e noi, in casa, lo sappiamo bene. In questo disco ti sei vestita di semplicità e hai reso brani come Popoff, Lettera a Pinocchio o Volevo un Gatto Nero (per citarne alcuni), unici».