Carboncino – Francesco Scalabrino
Voglio raccontarvi una storia. Ha a che fare con un musicista – un bravo cantautore – che, nella sua troppo veloce carriera, nel primo decennio del Duemila, ha vinto un premio prestigioso e ha pubblicato un solo disco, quanto mai attuale, nonostante siano passati 13 anni, Cattivi Pensieri (mettetelo pure come colonna sonora mentre leggete), per l’etichetta Toast. Una vicenda comune a molti artisti che, per i più svariati motivi, tra questi anche sane dosi di sfiga, mancati appuntamenti, sliding doors, anime troppo intime per tirar fuori le unghie, si sono sentiti obbligati a smettere di comporre ed esibirsi, tante candele che, alla lunga, hanno finito per spegnersi.
Lui si chiama Francesco Scalabrino, romano del quartiere Montesacro Talenti dove è nato e dove tutt’ora vive, va per i 47, non più un giovincello, ammette. L’ho chiamato alcune sere fa. Il suo numero l’ho avuto da un caro amico, uno dei fondatori di una delle prime radio libere di Milano negli anni Settanta (perdiamo le ore a parlare di musica…) che nella vita fa altro e, per lavoro, ha incrociato Francesco. Meno di sei gradi si separazione…
Dunque, ero rimasto alla telefonata. Dall’altro capo del filo trovo una persona perplessa, che probabilmente sta pensando perché mai questo qui (io) vuole parlare con lui ora? «Ciao Francesco, Alessandro mi ha riportato indietro negli anni, ai Cattivi Pensieri, e m’è venuta la curiosità di sapere di te. Continui a suonare? Componi? Non ti sei arreso?». Ammetto, l’ho travolto con una valanga di domande. «La mia è una storia piuttosto semplice, una come tante», mi risponde in tono pacato, con un lieve imbarazzo.
Francesco Scalabrino
E continua: «Il mio approccio alla musica è stato da autodidatta, e questo è il mio primo grande rammarico. Strimpello due strumenti, il pianoforte e la chitarra…». Non lo fa apposta, ne sono convinto, ma la timidezza ha il sopravvento, è come ribadire che forse è stato giusto così, i casi della vita… «Da piccolo in casa dei miei genitori c’era un piano che strimpellavo; quando ho visto che tra noi c’era del feeling ho iniziato a comporre. Sai, fin da bambino amavo scrivere, a otto, nove anni avevo un quadernino con le mie prime poesie, mio padre e mia madre si stupivano delle mie riflessioni». Avevi l’animo del cantautore… «Non ho letto abbastanza, e questo è l’altro rammarico della mia vita, forse una stupida specie di orgoglio… Tra l’altro, ho sempre avuto paura di rileggere e ascoltare quello che scrivevo…».
Uhmm, coincidenze: hai fatto il liceo classico, vero? Ride. «Sono sempre stato affascinato dalla filosofia e dalla letteratura greca. Il greco moderno lo sto studiando seriamente da un paio d’anni. Ho anche tradotto una mia canzone in greco moderno». Per la cronaca, il brano lo trovate sulla sua pagina Facebook. Insisto: come sei arrivato a vincere il Biella Festival, dedicato alla canzone d’autore nel 2008 con Di là dal Mare e a pubblicare un album che aveva molti spunti interessanti?
«Fino ai 20 anni ho scritto tanto, registravo tutto, allora c’erano ancora le musicassette! Mi sono deciso, ho messo su una band e abbiamo iniziato ad andare a suonare nei locali a Roma. Proponevamo la mia musica, e questo è stato il nostro grosso problema, perché i localari, come chiamiamo in gergo i gestori dei bar dove si fa musica, volevano riempire il locale e facevano il tutto esaurito solo con le cover band. Avevo conosciuto Renato Marengo (con Michael Pergolani conduceva l’Acchiappatalenti su radio Rai 1). Sono finito in radio un paio di volte, poi ho mandato la demo al Biella Festival e ho vinto. Grazie al festival ho conosciuto Giulio Tedeschi, fondatore della torinese Toast Music che mi pubblicò Cattivi Pensieri. L’album, però non fu per niente sponsorizzato, praticamente non fu mai lanciato».
Tu non hai fatto niente per il disco? «Un paio di esibizioni a Roma, alla FNAC (negozio che non esiste più da anni) e una ventina di minuti di brani in una libreria. Il problema sostanziale è stato che la musica si stava relegando a una passione, non potevo permettermi di fare come desideravo io, con una certa tranquillità… non ho mai avuto il carattere “giusto” per rompere le scatole alla gente, mi sono avvicinato a un paio di persone, che potrei definire agenti, ma senza successo. Ecco, sì, forse non sono stato poco fortunato nel trovare i tempi giusti».
Francesco Scalabrino
Così Francesco si ritrova con un disco fantasma, qualche concerto, dove propone nuovi brani. «L’ultima volta che sono salito sul palco è stato nel 2012. Era diventata difficile anche la gestione della band. Ho lasciato la precedente, quella del disco (Fabrizio Bellanca al basso, Giulio Vallarino alla chitarra, Tony Candela alla tromba, Alesandro Turetta alle percussioni), per un altro gruppo, di musicisti professionisti (Emanuele Felici alla chitarra, Christian Vilona al sax, Davide Sollazzi alla batteria, Daniele Dezi/Maurizio Perrone al basso/contrabasso), tutta gente che viveva e vive di musica. Hanno accettato di suonare con me perché a loro piaceva la mia musica, ricavandone praticamente niente. Dopo tre, quattro anni mi sono sentito responsabile di tenerli legati a un progetto che non decollava».
Nel frattempo Francesco si sposa, oggi ha due figli, uno di 10 e uno di sei anni. Non fa più il musicista, «Sono impiegato in banca… Ti confesso che tenere la musica come hobby mi fa più male che bene. Quando facevo i concerti era bellissimo. Sono un timido, ma una volta salito sul palco trovavo la mia dimensione, molto intensa, difficile da distinguere, un misto di felicità e struggimento…».
Da qualche tempo pubblica suoi vecchi brani su Facebook, che presenta con disegni suoi, carboncini dove gli strumenti prendono vita, mostri animati che tentano di avvolgerlo, pianoforti con propaggini e zoccoli, demoni che vengono a fare i conti… Non ha smesso di ascoltare la musica che lo ha spinto e ispirato a comporre: «Sull’ascolto sono ancora più settoriale che nella lettura. Sono cresciuto a pane e De Gregori (si sente, Francesco!, ndr). Adoro Paolo Conte, Vinicio Capossela, Gianmaria Testa, per me sono i migliori, i grandi artisti della canzone italiana d’autore». Testa era un ferroviere… «Il suo lavoro era molto più poetico del mio». Scusa Francesco, ma di musica straniera? «Mi piacciono i Muse, i Queen, Leonard Cohen, non sopporto il genere urban, si ascolta solo quello oggi…».
Quindi non suoni più, è questo che vuoi dirmi? «Stavo facendo una riflessione in questi giorni. Mi è capitato di vedere in televisione un film preCovid del 2019, cose normali che un tempo facevamo anche noi. Questa situazione ci sta rendendo il ricordo recente un passato remoto. È una sensazione di forte allontanamento; ce l’ho anche con la musica. Molte canzoni sono nate per i social e non per un palco. Le generazioni passano e la memoria svanisce».
Vorrei che questa storia avesse un lieto fine. Perché ad ascoltare Quanto manca a Domani, Cabron, Jack, Giorni di Pioggia o, ancora, Ti incontrerò, mi viene da pensare che quando un musicista smette di sognare e creare anche le nostre vite perdono qualcosa. Che ci piaccia o meno il genere, l’artista, la melodia, tutti noi veniamo potenzialmente privati di un momento di gioia o di riflessione, un millisecondo di colonna sonora della nostra esistenza.
Prendete questo post come meglio credete, ma è un invito a riflettere, come direbbe lo stesso Francesco: «Avrei voluto nascondermi in un silenzio di musica…».