Charlie Watts, addio al batterista dei Rolling Stones

La notizia è arrivata poche ore fa. Tra i primi, il New York Times ha lanciato la breaking news che, ci scommetto, ha fatto sobbalzare in tanti. Eh già, se ne va, a 80 anni, il primo dei Rolling Stones nella formazione che abbiamo conosciuto negli ultimi sessant’anni, escludendo Brian Jones, ovviamente.

La notizia, come ovvio, si sta ripercuotendo nel web da giornale a giornale. Tutti concordi nel sostenere che Watts sia stato uno dei grandi batteristi della sua generazione. Sentirete dire che aveva una doppia vista musicale, quella rock e l’altra, di gran lunga preferita, del jazz, genere amato dall’artista. Certo Watts adorava il jazz e le sue costruzioni, ma suonava il rock e dietro la batteria ha contribuito a farne la storia con una band leggendaria.

E veniamo dritti al punto: la morte di Watts colpisce, e molto, perché era uno dei Rolling Stones, band che sembrava intoccabile, dei Re Mida del Rock, immortali, sempre sul palco ad accumulare pubblici oceanici, fama e fortune. Con Watts se ne va una parte sostanziosa della musica del secondo Novecento e di questo terzo millennio, a prescindere dalla bravura del musicista in questione.

Si chiude un’epoca, e l’elegante signore, preciso come un metronomo, impassibile, apparentemente un cubo di ghiaccio prestato al Rock, è più di un batterista, il simbolo di quella musica e di quegli anni dove è nato un pezzo importante della storia di tutti noi. Doveva entrare con il resto della band alle prove che avrebbero dovuto iniziare tra 15 giorni. Ma il ricovero all’ospedale, l’operazione (a ora non specificata) da cui sembrava uscito bene e l’improvviso declino, hanno cancellato di colpo l’aura di una band che ne ha passate tante in sessant’anni di musica insieme, che sembrava vivere di luce propria. Non c’era nulla di umano nei “vecchietti del rock”, sempre lì sul palco, con la stessa grinta e la stessa voglia di stupire il pubblico.

La scomparsa di Charlie Watts ci ha mostrato la fragilità degli idoli, anche se resteranno sempre immortali nei cuori di ciascuno di noi. Il Rock piange uno dei suoi signori più importanti. Niente sarà più come prima per l’immarcescibile band British. E nemmeno per noi che li ascolteremo ancora. Con la nostalgia di quell’imperturbabile batterista, precisino, impassibile, nonostante il trascorrere degli anni, apparentemente defilato ma determinante nel sound di uno dei gruppi più longevi della storia della musica ancora in attività. Vi lascio con Slave da Tattoo You, disco che compie i 40 anni proprio oggi. Sarà un caso? Il dio del Rock ci vede benissimo? Probabile. Il mio omaggio al vecchio Charlie. Rip…

Hendrix, Joplin, Morrison: la morte e la consacrazione eterna

Ci sono cose che bisogna fare. E questa è una di quelle. Cinquant’anni fa, 1970. Inizio di un nuovo decennio, e che decennio! L’euforia degli ultimi anni Sessanta, la grande rivoluzione di costumi, cultura, pensiero che inizia a incanalarsi in torrenti, spesso in piena. La musica non fa eccezioni, anzi è proprio in quest’arte che si vivono i grandi cambiamenti, le rivoluzioni concrete, il rock, il prog, gli esperimenti, i talenti. L’11 marzo del 1970 – è solo uno dei numerosi esempi – Crosby Still Nash & Young pubblicarono uno dei dischi più belli di sempre, Déjà vu. Nell’agosto dell’anno prima l’America era stata sconvolta dall’eccidio di Cielo Drive, dove alcuni membri della Manson family ammazzarono cinque persone tra cui Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, incinta di un bimbo di 8 mesi. Una settimana dopo a Bethel, New York si sarebbe tenuto il festival più famoso e dirimente della storia del Rock, Woodstock. Si era ancora al culmine della guerra in Vietnam…

Ebbene, cinquant’anni fa, a distanza di soli 16 giorni, ed entrambi ad appena 27 anni d’età, morivano Jimi Hendrix e Janis Joplin. Il primo a Londra, in un albergo nel quartiere di Notting Hill, il 18 settembre, la seconda a Hollywood, il 4 ottobre. Come l’araba fenice sono risorti dalle loro ceneri, reincarnati sotto forma di mito. Hendrix il virtuoso della chitarra elettrica, il numero uno per Rolling Stone – ve l’ho già detto, il giornale fondato da Ian Wenner nel 1967 adora le classifiche! – la seconda, per la sua voce blues inconfondibile, carica di pathos, rabbia e forza vitale.

Entrambi eccessivi, maledetti, egocentrici, irriverenti, non convenzionali, desiderio erotico di una generazione. Insomma, rock nell’anima, non per posa ma per lignaggio. Come una stirpe regale si sono consegnati ai loro sudditi che li hanno adorati e riveriti e, dopo la loro morte avvenuta per overdose (di barbiturici, eroina, alcol, fate voi, tanto che importa…), scolpiti nell’eternità della storia della musica moderna.

Qualche mese più tardi, il 3 luglio del 1971, sempre a 27 anni, se ne andava il terzo della “trimurti genio e sregolatezza” di quegli anni, Jim Morrison, a Parigi.

Hendrix, come Che Guevara, diventa un essere mitologico, un “semprevivo”, stampato su miliardi di t-shirt, la sua chioma afro riprodotta in borse e gadget da vendere nelle bancarelle dei concerti. Nonostante la sua breve vita artistica ai massimi livelli, appena quattro anni, Jimi ha prodotto più dischi da morto che da vivo, per parafrasare Catalano, indimenticabile personaggio dell’esilarante compagnia di Arbore. Il padre Al e un giro di affamati produttori lo hanno sfruttato oltre l’impossibile.

Destino dei grandi, metà umani e metà dèi. Il rock deve molto, ma proprio tanto, al chitarrista mancino, quello che faceva urlare la chitarra, con lei c’era un’intesa erotica senza limiti, amore, odio, fiamme, pianto e disperazione, bombe e guerra. Più o meno lo stesso vale per Janis, donna incontenibile, affamata d’affetto, senza freni, un’auto di formula uno lanciata a tavoletta, mai sazia di musica, alcol, droga, sesso. Lo stesso dicasi per il frontman-poeta dei Doors.

La Joplin ha rispettato tutti i canoni del Rock, come Morrison. I tre si erano incontrati, avevano pure suonato insieme, si erano ascoltati e frequentati. I tre erano consapevoli di essere dei cavalli di razza e di avere un destino: scrivere i capitoli principali del grande libro del Rock. Un po’ meno capaci, invece, di gestire il prepotente successo e i loro inevitabili fantasmi, come, del resto, molti altri loro colleghi.

Di quegli anni così forti, paurosamente belli, incredibilmente creativi oggi c’è rimasto poco o niente. Siamo tutti irregimentati in canoni dettati dalla tecnologia, comandati da un impietoso e subdolo sentire comune scritto da app, social e meraviglie da Silicon Valley. Beh, tra il circo fine a se stesso di oggi e quello bombastico di 50 anni fa, permettetemi un po’ di nostalgia e qualche lacrimuccia di rimpianto. Lo dico da cronista e da ex ragazzo nato nei Sessanta e adolescente nei Settanta. Ecco, questa cosa l’ho fatta…

Breaknotes/L’eredità armonica di Ennio Morricone

E così, a 91 anni, se n’è andato anche Ennio Morricone… I media di tutto il mondo lo stanno ricordando, narrandone le gesta: due premi Oscar, uno alla carriera nel 2005 e l’altro per la colonna sonora di The Hateful Eight di Quentin Tarantino (per questa vinse anche il Golden Globe). Nella sua vita artistica ha ha venduto oltre 70 milioni di dischi e conquistato 10 David di Donatello, 6 Bafta, 4 Golden Globes, 3 Grammy Awards, 11 Nastri d’argento, 2 European Film Awards, un Leone d’Oro alla carriera e un Polar Music Prize…

La musica era la sua lingua e il suono il suo chiodo fisso: anche un colpo di tosse, uno schiocco di lingua, un fischio, un colpo di frusta uniti al ronzare dei violini o a una tromba cristallina (lo strumento con il quale s’era diplomato al conservatorio) diventavano strumenti per melodie memorabili.

Lo “Spaghetti Western” – e quelli delle mia generazione ci sono cresciuti – è stata parte della nostra formazione culturale. Come dimenticare il geniale Scion Scion – che poi era Sean Sean – di Giù la testa, western del 1971 di Sergio Leone con Rod Steiger, James Coburn e Romolo Valli, cantato dall’eterea voce di Edda dell’Orso?

E ancora: i timpani insistenti e solitari alla stregua di campane a morto, ad aumentare la suspence nella scena finale di Per un pugno di dollari, il duello tra Joe (Clint Eastwood) pistolero inesorabile, e Ramon (Gian Maria Volontè), abile nell’uso della carabina Winchester…

O anche la struggente Gabriel’s Oboe da Mission di Roland Joffé (1986), tema del film… Ecco, questo potrebbe essere il giusto addio al maestro. La musica come sensazioni, ricordi, memoria. In qualche modo testimonianza: armonie affidate alle generazioni che le hanno introiettate al punto da diventare parte di una cultura comune e trasversale, filamenti del DNA di una nazione.