Ferdinando Faraò: l’Artchipel Hub? Coinvolgimento culturale

In questi mesi su Musicabile, attraverso le tante interviste che vi sto proponendo, avete letto di quanto sia difficile per un musicista “fuori dal coro” raggiungere i suoi potenziali ascoltatori. Prevale la musica mainstream, come è normale. Però, di fatto, la musica che si ascolta per lo più via radio o App è sempre quella roba lì, facile, di presa immediata, che non fa pensare, in genere molto individualista, per nulla aperta ai sentimenti degli altri.

Dalla collettivizzazione della musica, intesa come luogo di lotta, riscatto, esperimento sociale, in una cinquantina d’anni siamo arrivati alla solitudine narcisistica, tradotta in cameretta, computer e sofferenze egoreferenziali. Trasfusione di emozioni individuali, archetipi di sofferenza egocentrica diventano specchio di una società sola e ingabbiata, nonostante, grazie alla tecnologia, abbia il mondo ai suoi piedi.

Capirete bene che, dopo aver letto una mail inviatami da un bravo collega e amico che lavora nella comunicazione jazz, in sui si annunciava che a Milano verranno proposti tre laboratori musicali aperti al pubblico nei quali poter assistere a prove ma anche al processo creativo di un brano con la condivisione attiva del pubblico, mi si è accesa una candelina di speranza.

La musica è un linguaggio e in quanto tale, va coltivato. Se non lo “parli” non puoi pretendere di capirne il significato. Per poter dialogare bisogna, dunque, studiare. Parola piuttosto desueta, perché lo studio implica concentrazione e fatica.

I protagonisti di questo esperimento sociale, iniziato quattro anni fa, interrotto poi dalla pandemia che vede tre appuntamenti (il 14 marzo, l’11 aprile e il 16 maggio) sono la Artchipel Orchestra e il suo fondatore e direttore Ferdinando Faraò che danno vita al progetto Artchipel Hub.

Chiacchierare con Ferdinando è un piacere. Aperto, tranquillo, idee chiare e, soprattutto, un ottimismo contagiante. Viene da una famiglia musicale: il fratello Antonio e il cugino Massimo sono due importanti pianisti jazz. Anche i suoi due figli hanno seguito la via della musica: Naima è una cantante, voce nell’Artchipel Orchestra, mentre Lorenzo è un sassofonista e suona nella Mephisto Brass Band.

Di suo Ferdinando ha all’attivo numerosi progetti, a partire proprio dall’Artchipel Orchestra, una delle orchestre jazz più seguite del nostro Paese. Nata nel 2010, ha pubblicato quattro album Never Odd or Even (con il chitarrista Phil Miller), Artchipel Orchestra Plays Soft Machine, To Lindsay: omaggio a Lindsay Cooper e Truly Yours: musica di Phil Miller, grazie ai quali l’Artchipel ha vinto numerosi premi e si è fatta conoscere all’estero.

In tutti questi anni sono stati numerosi i grandi nomi del jazz internazionale e della musica prog sperimentale che hanno suonato con l’Archipel, dal compianto tastierista Keith Tippet che suonò con i King Crimson e con i Centipede, alla cantante Ingrid Sertso e a quel fantastico e creativo percussionista brasiliano che risponde al nome di Cyro Baptista

Ferdinando Faraò – Foto Fabio Volpi

Stasera parte l’Artchipel Hub al Garage Moulinski di via Pacinotti a Milano…
«Sì, riproponiamo l’iniziativa dopo quattro anni. Vogliamo andare oltre il normale tragitto che fa la musica per arrivare all’ascolto. Credo sia importante per il pubblico conoscere anche cosa succede a monte di un disco o un di concerto, vedere e capire come nasce un brano. L’incontro è uno stimolo reciproco, per chi fa musica e per chi ascolta».

Come si svolgeranno le tre serate?
«Eseguiremo e analizzeremo musiche di numerosi autori,Jonathan Coe, John Greaves, Misha Mengelberg, Mike Westbrook, Keith Tippett, Hugh Hopper, Mike Oldfield, Phil Miller, Lindsay Cooper, Robert Wyatt, Mike Roatledge, con gli arrangiamenti per orchestra curati da me, Beppe Barbera e Francesco Forges. Si inizierà con un breve concerto per passare alla seconda parte: la prova di un brano aperta ai musicisti presenti in sala che si sono registrati per la serata. Abbiamo avuto una decina di richieste di partecipazione, tra queste un’arpista, un trombettista, un violinista, un susafonista, più altri suonatori di fiati. Per l’orchestra è un momento importante, perché ci permette di conoscere nuovi musicisti e di ampliare l’organico».

Sono tutti giovani?
«Hanno un’età media compresa tra i 25 e i 35 anni».

E la terza parte?
«È una seduta di improvvisazione totale dove tutti possono partecipare e dove viene coinvolto anche il pubblico. Sono momenti importanti, può accadere di tutto, anche reading improvvisati di poesie. C’è il musicista professionista, l’amatore o chi, tra il pubblico, ha voglia di intervenire in una sorta di happening dove tutti contribuiscono a creare un momento musicale costruito dal nulla».

Torniamo all’orchestra e al suo ruolo. Questi approcci “informali” alla cultura musicale sono molto utili, non sarebbe il caso che il format venisse condiviso?
«Crediamo molto a questo nostro progetto. Se riuscissimo costruire un coordinamento nazionale tra le tante orchestre che esistono in Italia si creerebbe un volano incredibile. Ce ne sono tante che fanno lavori meravigliosi».

Una maggiore “incisività musicale”!
«Per sua natura l’orchestra si presenta come un collettivo inclusivo, c’è la voglia e la forza di fare qualcosa insieme, al di là dell’istrionismo personale. Nella loro diversità i musicisti si armonizzano tutti insieme».

La Artchipel Orchestra in concerto – Foto Roberto Priolo

Fare tournée, muovere tante persone non è facile…
«Ci sono alcuni problemi intrinsechi nell’organizzare un’orchestra, la logistica è il principale: riuscire a muovere da un luogo a un altro tanta gente non è facile. L’orchestra è come un elefante quando si muove».

Una soluzione potrebbe essere una sorta di coordinamento tra le orchestre.
«Non esiste ancora. Qualche anno fa l’Associazione Jazz Network di Bologna aveva organizzato un incontro tra i vari direttori di orchestra. Ci siamo confrontati, è stato un primo passo interessante ma manca ancora un coordinamento che, per esempio, indica un censimento nazionale delle orchestre. Molte di queste sono ”regionali”, cioè organizzate e sovvenzionate da enti locali, ma ce ne sono altrettante, se non di più, indipendenti. Solo a Milano ce ne sono quattro o cinque».

Una questione dirimente…
«Certo, manca una volontà culturale, una coscienza da parte degli addetti ai lavori, non di tutti, ovviamente, dell’importanza sociale e formativa che riguarda soprattutto i giovani. Le orchestre possono avere un grande appeal per i ragazzi, perché non sono esclusive ma, al contrario, inclusive. Sono una presa di coscienza, anche politica, di sostegno economico, creano socialità…».

Il jazz è considerato esclusivo, anche se è nato dal basso come musica popolare aperta a tutti…
«Sì, è visto proprio così, perché il gusto delle masse è omogeneo. Si preferisce andare sul profitto invece di aprire a realtà fuori da logiche di mercato così strette. Il jazz in Italia annovera tantissimi musicisti, c’è dunque spazio per costruire e non essere condizionati dai criteri commerciali del momento».

Ti sei formato al mitico Capolinea, locale milanese dove si sono esibiti i più grandi nomi del jazz mondiale da Art Blackey a Chet Baker, da Miles Davis a Chick Corea. Suonarono anche Pino Daniele e il Banco del Mutuo Soccorso… Ora è un po’ più difficile trovare luoghi di “coesistenza culturale” come questi.
«Tra la fine degli annI Settanta e gli inizi degli Ottanta Milano contava 15 locali. Oggi c’è Il Blue Note che fa bene le sue cose, è la punta di diamante, locale sui generis con concerti bellissimi. Però non c’è quella socialità tra musicisti come c’era al Capolinea. Qui  mi sentivo a casa, incontravo tanti artisti, imparavo, mi confrontavo. Oggi ci sono poche opzione, il Garage Moulinski, appunto, il Bonaventura Music Club… La differenza è che trent’anni fa il pubblico era più generalista, ascoltava tanta musica diversa. I locali oggi non hanno più quella massa di persone interessate. Ma non dobbiamo piangerci addosso: ci sono pochi locali ma tanti musicisti!».

Che potrebbero invertire la situazione…
«Se si comprende che ciò che conta sono le idee e la volontà di fare qualche cosa. C’è troppo individualismo, e non va bene, ci sono tanti confini, cosa umana e inevitabile. Noi da parte nostra ce la mettiamo tutta. L’importante è capire – e qui subentra la ragione – che i confini sono permeabili. La pandemia avrebbe dovuto insegnarcelo. Il sistema attuale può funzionare, ma dopo un po’ l’atmosfera si fa asfittica. Guardo i miei figli, Naima e Lorenzo: hanno deciso di lavorare con la musica, credo molto in loro. Appartengono a quella schiera di giovani artisti che si danno un gran daffare, sono persone proattive che vivono e sopravvivono di musica».