Pippi Dimonte, 29 anni, è nato a Bernalda in Basilicata – Foto Simone Petracchi
Di musica buona anche in Italia ce n’è, e tanta. Basta saper cercare. Attività che include una buona dose di passione, e una equivalente di pazienza. In una di queste mie sessioni giornaliere mi sono imbattuto in un nome che, ammetto, non conoscevo abbastanza. Uno di quelli che ti metti da parte perché magari hai ascoltato qualcosa e che ti riproponi di approfondire in un prossimo futuro. Lui è Giuseppe Pippi Dimonte. Musicista, artista, compositore, classe 1991. Il suo strumento? Il contrabbasso che suona cercando sonorità sempre diverse, portandolo a nuovi orizzonti sonori. Approfondisco: quattro dischi all’attivo, lucano di Bernalda, il borgo rinascimentale da dove proviene anche Francis Ford Coppola. Da una decina d’anni vive nei pressi di Bologna, trasferito per frequentare e perfezionarsi al conservatorio Martini del capoluogo emiliano-romagnolo e qui rimasto.
L’ho ascoltato, visto in alcuni suoi video pubblicati sui canali social. L’ho cercato e intervistato. Il perché lo scoprirete durante questa chiacchierata. Pippi Dimonte viene da studi classici, e si sente, ama il jazz tanto quanto la musica popolare che sta riabilitando in maniera sorprendente (e solo su questa bisognerebbe aprire più di un lungo capitolo, mi impegno a farlo in un prossimo futuro), quella della sua terra, la Basilicata, ma anche le altre del mediterraneo, la greca, la turca, la maghrebina, la balcanica. Il risultato è una fusione di stili che potremmo battezzare folk-jazz o meglio jazz-pop-world.
Alcuni se la cavano definendolo jazz contemporaneo, che, per la musica che fa, vuol dire tutto e niente. Se dovessi fare un paragone, con le debite distinzioni del caso, direi che Pippi è sulla stessa lunghezza d’onda di Luke Stewart, trentatreenne contrabbassista americano che adora suonar jazz traendo scorribande da punk e rock. Insomma artisti aperti, in cerca di nuove sonorità con uno strumento che così estroverso non è, anche se si presta a essere piuttosto trasversale. E qui sta la bravura…
Pippi, dicevo, ha all’attivo quattro album, Morning Session (2014), Hieronymus (2016), Trio Mezcal (2018) e Majara, uscito quest’anno, oltre a un lungo elenco di collaborazioni con jazzisti internazionali come Adrien Moignard, Sebastien Giniaux, Nilza Costa, brava interprete brasiliana di Bahia, un timbro di voce molto particolare. Pippi si circonda di musicisti, amici, molto diversi tra loro, per studi e interessi personali. Eppure questo bell’ensemble ha creato nei suoi lavori quella sapidità che esalta le differenze, unendole.
Pippi Dimonte – Foto Niccolò Dimonte
Siamo in un altro lockdown, quest’anno va così. Per voi musicisti è stato piuttosto difficile…
«Sì, questo è un anno particolare per tutti. Io sono di indole positiva o forse non sono ancora troppo maturo ma, nella mia innocenza, da questa situazione ho tratto il dono più grande: il tempo».
E quindi?
«Mi sono messo a studiare contrabbasso come non lo facevo dal conservatorio. Ho vissuto in maniera, se vuoi, egoistica il tempo che mi era stato dato. Non possiamo farci niente, tutto è “rimandato” al 2021. Anche se quel verbo, in Italia spesso assume un significato diverso, più definitivo, e cioè, “annullato”. Penso che il Covid abbia palesato difficoltà come queste, che già esistevano».
È un problema non solo di lavoro ma anche psicologico…
«Ora non sto lavorando. Vuol dire che non sono più un musicista? O che la musica, come spesso si crede, non è un lavoro? Al momento sto vivendo da quindicenne: studio e basta, studio perché provo piacere a restare ore concentrato sullo strumento, mi piace dedicare tempo ad ascoltare gli altri musicisti, cerco di crescere ancora, perfezionarmi sempre di più».
Dopo quattro album, che si trovano anche sulla piattaforma Bandcamp, come definiresti il tuo stile?
«Sono sempre stato affascinato da tante “robe”, e il contrabbasso è uno strumento che si impone in maniera trasversale. Ho studiato musica classica, mi piace il jazz e ora mi sono concentrato sulla world music, musica etnica, musica turca, musica dei Balcani. Questa curiosità mi obbliga a cercare connessioni nuove e, dunque, stimoli nuovi».
Sto ascoltando con grande attenzione Majara, il tuo ultimo lavoro, che è diventato anche un progetto musicale.
«È uscito ai primi di febbraio e, ovviamente non abbiamo potuto promuoverlo a causa della pandemia. Siamo partiti in quattro, Mario Brucato, al clarinetto, Francesco Paolino alla chitarra e alla mandola (strumento a corde della famiglia dei liuti, simili all’oud, in voga nel Cinquecento), Emiliano Alessandrini al pandeiro (tamburo brasiliano usato nel Samba e nello Choro, una piccola batteria portatile!) e io, al contrabbasso. Quello che ne è uscito, è stato un lavoro apprezzato dal pubblico e dalla critica. Ora sto già cambiando, è un progetto che sto perfezionando, espandendolo ad altri musicisti che hanno altre provenienze. C’è Giulia Meci cantante jazz, il nostro amico greco Vaggelis Merkouris all’oud e Alberto Mammollino alle percussioni, esperto di tamburi a cornice (qui potete ascoltarli nel nuovo ensemble in una registrazione dell’estate scorsa, ndr).
La nuova formazione del progetto Majara. Da sinistra a destra, Francesco Paolino, Giulia Meci, Vaggelis Merkouris, Pippi Dimonte, Emiliano Alessandrini, Alberto Mammollino, Mario Brucato – Foto Simone Petracchi
Continuo su Majara, il disco: ti sei riavvicinato alle sonorità della tua terra. I titoli dei brani riportano tutto lì, all’essenza, a quello che sei…
«Anche se sono anni che non abito più in Basilicata, ora vivo vicino a Bologna, in un paesino sull’Appennino, sento molto la mia “lucanità” Mi piace la genuinità. In Basilicata siamo veramente pochi, lo spazio è tanto e la natura incontaminata. Certe sovrastrutture verbali lì è come se non esistessero. Majara, in dialetto, è la fattucchiera. Di lei ne parlava l’antropologo Ernesto De Martino nel suo libro Sud e Magia (1959, ndr). Majara era una donna, una strega buona, l’incontro tra il sacro e il profano. Ricorda riti pagani, è profana al massimo! Ma, come spesso accade, in un ambiente geograficamente chiuso, tutti sono religiosissimi però credono anche in lei. Il disco – e anche il nome del progetto – è un omaggio alla mia terra e alla commistione di generi e culture (ascoltate Grancìa…)».
Parlando della composizione, parte tutto da te giusto?
«Compongo musiche e arrangiamenti. Poi, per il fatto di essere molto eterogenei tra noi, il pezzo si perfeziona, prende corpo e forma. Vedi, Alberto Mammollino, il percussionista, viene dalla tradizione popolare italiana, ma ha studiato anni la percussione mediterranea. Francesco Paolino ha studiato chitarra classica, è un mandolinista e apprezza anche la musica popolare, come Mario Brucato, clarinettista classico ma appassionato di musica rinascimentale. Suona anche il cornetto, uno strumento a fiato usato dal Medioevo fino al periodo rinascimentale. Giulia Meci, invece, ha studiato canto jazz, mentre Vaggelis Merkouris, il nostro oudista suona la musica Makam, della tradizione turca…
Tu, invece “lavori” con un classico contrabbasso…
«Ne suono uno normale a quattro corde. Quest’anno mi sono comprato quello a cinque corde. Di solito viene usato per aggiungerci una corda ancora più grave, in modo da ottenere suoni più profondi. Io, invece, ho montato una corda più alta, per avere un suono più lirico. Sembra quasi un violoncello… Ecco, l’ho detto, e ora mi attirerò le reprimenda dei violoncellisti!».
Ho letto da qualche parte che un critico musicale americano, all’uscita del tuo album Hieronymus, 2016, ti ha annoverato tra i più creativi bassisti in circolazione, uno in particolare mi ha colpito perché lo ammiro da sempre, Flea dei Red Hot Chili Peppers…
«Troppo buono, un complemento immeritato, Flea è uno dei più grandi bassisti al mondo, non esageriamo! Però, dai, va bene tutto».
Che musica ascolti, quali i tuoi riferimenti?
«Sono uno youtuber dipendente! Dedico ore al giorno a cercare musicisti e musiche che mi interessano. Grazie a queste ricerche ho avuto modo di ascoltare personaggi incredibili. Queste piattaforme sono veri propri banchi dati della musica. Torniamo agli ascolti: al momento mi sto dedicando di più a quello che mi interessa per il lavoro che sto facendo, ascolto molti musicisti turchi, arabi, spagnoli, quelli che hanno in comune contaminazioni panmediterranee. Oltre a questi, mi piace molto la corrente jazz nordeuropea, ad esempio, il contrabbassista svedese Lars Danielsson, musicisti che suonano jazz ma che hanno un background classico. Tra i miei preferiti ci sono Ibrahim Maalouf (trombettista jazz franco libanese, ndr), Dhafer Youssef (oudista tunisino, ndr), Ross Daly (inglese, specialista nella Lira Cretese, ndr), Efrén López (polistrumentista spagnolo, appassionato di musica medievale, ndr), Stelios Petrakis (greco, polistrumentista)…».
Tutti nomi che con il mainstream musicale non ci azzeccano proprio…
«La musica che in questo momento ha più risonanza fa semplicemente sembrare che non ci sia altro in circolazione. Mi piace, invece, pensare che altra musica, di minor valore commerciale, possa, un domani, avere molta più eco di questa. È un sogno, un augurio…».