Francesco Bruno, il vento che porta ispirazione

Ricordate Onirotree, il lavoro del chitarrista Francesco Bruno di cui ho scritto su questo blog un paio d’anni fa? Un lavoro minuzioso composto in collaborazione con Silvia Lorenzo sulla musica popolare mediterranea, cellule sonore catturate dal chitarrista romano che trovavano nuova linfa e vita in affascinanti composizioni. Da alcuni mesi Bruno ha pubblicato un nuovo lavoro, un progetto sulla melodia che lui definisce “latina”, anche qui, attraverso una minuziosa ricerca di temi e armonizzazioni. 

Questa volta non affidate a un albero dei sogni ma al vento, che diffonde nell’aria note e musiche a seconda di dove proviene. Zàkynthos, titolo dell’album che dà il nome anche alla seconda traccia suonato in trio con il batterista Marco Rovinelli e il contrabbassista Andrea Colella, è l’unico “posto fisico” degli otto “capitoli” che compongono l’album. Il resto sono venti, il Jaloque (lo scirocco) caldo che viene dall’Africa, la Ronda, il vento delle Ande, il Bayamo, che soffia forte scompigliando la costa meridionale di Cuba, l’Africo, Briza, e così via. Il vento metafora di culture e musiche, vento che sparge, feconda e porta con sé nuove idee. Continua a leggere

Javier Subatin, l’improvvisazione e un nuovo jazz all’orizzonte…

Javier Subatin – Foto Raquel Nobre G.

Sei di Buenos Aires? Dall’altro capo del collegamento Skype, Javier Subatin, argentino, 36 anni, chitarrista virtuoso, mi risponde di sì con la testa sorseggiando un mate, suggellando così la tradizione con la propria terra d’origine. Da pochi giorni si è trasferito ad Anversa, in Belgio, a due ore di strada da Amsterdam, luogo d’elezione per i giovani jazzisti in cerca di fortuna in Europa. Di lui – ed è questo il motivo dell’intervista – mi hanno attirato il suo modo di comporre, un jazz innovativo nel suo ultimo album, Mountains, uscito poco più di un mese fa, che per provocazione ho definito “un non-jazz” (leggerete la sua risposta), e il suo vivace attivismo nel coinvolgere giovani e talentuosi colleghi musicisti in progetti, fondando una community e, quindi, una casa discografica, la Habitable Records, composta solo da artisti. Javier e i suoi colleghi stanno cercando di rendere sostenibile la professione del musicista, un lavoro che permetta la crescita di ogni singolo componente. Vi consiglio di ascoltare i quattro album che ha pubblicato, Autotelic (2018), Variaciones e Trance (usciti entrambi nel 2020) e, appunto, Mountains (2021). Un percorso di maturità espressiva che lo ha portato all’ultimo disco dove l’improvvisazione regna sovrana…

La tua musica è stata cataloga nella famiglia del jazz contemporaneo. Sei d’accordo? È davvero jazz il tuo?
«Sostieni che non faccio jazz? A mio modo di vedere è relativo: il jazz oggi è quello che è. Importante è che io lo reputi tale. Il jazz si è evoluto, non è più quello di un tempo».

Javier, dammi una definizione del “tuo” jazz…
«È il risultato di molte cose. Ho studiato improvvisazione jazz e quindi composizione. Ogni volta che mi insegnavano scale nuove, un’armonia o elementi nuovi utili per improvvisare con la chitarra, componevo una musica per esercitarmi. Così nascevano musiche nuove che non facevano parte dello standard jazz. Improvvisare e comporre è strettamente collegato. Questa musica ha tutto, jazz, ma anche rock, pop, ma anche Piazzolla, il folclore argentino, una delle cose che mi piace di più utilizzare ora. Del folk non prendo riferimenti diretti, ma uso il ritmo e alcune armonie. Mi è sempre piaciuto il contrappunto e come la musica si costruisce con più “strati”. Senza rendermene conto, ha a che vedere anche con la classica!».

Vieni da una famiglia di musicisti?
«Nella mia casa c’è sempre stata musica. I miei, però, non sono musicisti. Mio padre adorava la musica, suonava il pianoforte e a mia madre piaceva ascoltare. Il fratello di mio papà è musicista. Da piccolo ho studiato piano, mi attiravano i suoni che riuscivo a fare pigiando i tasti. Mio papà adorava il jazz e la musica classica, così, nel fine settimana, c’era musica a tutto volume. Io non avevo scelta, ero un bimbo non potevo oppormi!, mi chiamava per ascoltare, focalizzando la mia attenzione sui singoli strumenti. Ricordo che a due anni, al posto delle canzonette per bimbi, volevo che mi mettessero di continuo la colonna sonora di Mission (Ennio Morricone, ndr)».

Ora abiti ad Anversa, dopo aver vissuto a Lisbona. Perché molti giovani musicisti jazz da tutto il mondo scelgono l’Europa, soprattutto il Belgio e l’Olanda per suonare?
«Mi sono trasferito da Lisbona ad Anversa qualche giorno fa. Ho deciso che per percorrere la mia strada, dedicarmi alla mia musica, dovevo venire in Europa. A Lisbona mi sono sentito a casa, avevo il mio professore di composizione e poi è una città bellissima, si vive bene, fa caldo (ride, ndr). Per il jazz Amsterdam e Bruxelles eccellono, ritengo si tratti proprio del sistema educativo adottato in quei Paesi che porta i ragazzi ad approfondire lo studio di questo genere musicale. Il conservatorio di Amsterdam è molto importante, ha una bella e solida struttura, è la porta di entrata per la scena europea».

Parliamo di Mountains: lo sto ascoltando e mi sta piacendo. Perché hai deciso di chiamare l’album così?
«Il titolo non è introspettivo come può apparire, semplicemente ho avuto un aiuto per registrare un disco e non sapevo bene cosa fare. Avevo molte composizioni già fatte, avevo una montagna di idee custodite. Così ho deciso di selezionare brani che già avevo messo via. Il titolo viene da qui, da una montagna di registrazioni ho scelto un percorso per me logico in modo da comporre il disco».

Mi incuriosiscono anche i titoli: si inizia con Mountain #1, poi si passa a un brano dal titolo Rocks per finire a Mountain #5, a sua volta seguito da Birds, quindi Mountain #3… Sto cercando una logica…
«Quando compongo di solito ho un’idea base, non c’è un concetto. Poi devo trovare un significato per questa musica nel disco. Vado per blocchi di musiche e queste devono avere una consequenzialità. Mountain #1 è stata la prima che ho composto, poi ho cercato di dare una narrativa che avesse diversi momenti, ritmi diversi, una parte più lenta, l’altra più forte, una più introspettiva…».

Questi brani li hai suonati direttamente con tutti i musicisti?
«No, li ho composti a casa, con la chitarra. Volevo scrivere con più dettagli per poi offrire ai musicisti un modo di improvvisare liberamente. Il disco si fonda sull’improvvisazione e ho lasciato che i miei compagni di viaggio si sentissero totalmente liberi nelle esecuzioni».

Hai un rapporto di simbiosi con i tuoi colleghi…
«Avevamo deciso di suonare le parti comuni e poi metterci le improvvisazioni. Per fare questo lavoro ci siamo chiusi in una casa e abbiamo vissuto e lavorato insieme. L’idea era che la musica si creasse al momento. Abbiamo tirato fuori tanto materiale. La registrazione è finita con un concerto, praticamente un altro disco, tutto di improvvisazioni, pronto per essere pubblicato. Durante le registrazioni, i singoli musicisti intervenivano con spunti e idee, come Demian Cabaud, il contrabbassista, che ha tirato fuori suoni che assomigliavano al canto degli uccelli … e così è nata Birds. D’altronde, in montagna ci sono il canto degli uccelli, il rumore del vento, il fragore delle rocce, i giochi d’ombra…».

Un mix perfetto di composizione e improvvisazione. Che differenza c’è tra Mountains e il tuo disco precedente, Variaciones (uscito nel 2020)?
«Variaciones (qui Solo#3, ndr) è stato un processo che è iniziato con il primo disco Autotelic (qui #3). Quest’ultimo è stato, fondamentalmente, un dialogo con un pianista (il lisboeta João Paulo Esteves da Silva, ndr), quasi tutto scritto, con grandi momenti di improvvisazione, ma, di fatto, jazz standard (ve lo consiglio!, ndr). Con Variaciones, c’è stata un’evoluzione, e cioè, cercare una musica più complessa, che fosse più fluida, pensata per improvvisare. È stato un punto intermedio tra Autotelic e Mountains. Molto diverso anche da Trance (qui Trance#1) ancora molto nei canoni standard, un tema A, uno B e un’improvvisazione. Mountains credo sia un lavoro più maturo, merito di ulteriori tecniche estese di studio e a un set di chitarra che mi sono costruito con effetti ottenuti grazie anche all’uso del computer. Ho registrato da solo in casa durante la pandemia, studiando in quale modo rivedere la chitarra jazz, trasformandola in un qualcosa d’altro. Dici che questo non è jazz, infatti, cerco di trovare un nuovo modo di suonarlo».

Javier Subatin al lavoro – Foto Raquel Nobre G.

Hai previsto di presentare il disco in Italia e in Europa?
«Con la pandemia è cambiato molto. Ho deciso, visto che il Covid ha aumentato la difficoltà di suonare live, di perfezionarmi nel suono e nella composizione. Ho un altro disco pronto, con Francesca Remigi (altro interessante nome del nuovo jazz d’improvvisazione di cui vi ho parlato alcuni mesi fa, ndr) e Federico Calcagno (grande clarinettista milanese di base ad Amsterdam che ha lavorato al bel disco di Francesca Il Labirinto dei Topi, ndr). Non so ancora quando porterò in concerto Mountains, non ho fatto un disco per poter suonare nei teatri ma per far conoscere la mia musica. Dal vivo, poi, potrà diventare un’altra cosa».

Nel marzo di quest’anno hai contribuito a far nascere la Habitable Records, casa discografica fondata da nove musicisti… Sei il leader se non sbaglio…
«Non è proprio così. Tutto è nato durante la pandemia quando ho fondato la Composers & Improvisers Community Project, un progetto collettivo, di cui sono direttore artistico: con il lockdown si pubblicava solo on line e sembrava che tutti si fossero messi a competere su chi faceva uscire più video, una sorta di guerra e una specie di catarsi. Ho pensato che, forse, era meglio unire più musicisti per indirizzare questo flusso massiccio di pubblicazioni in qualcosa di compiuto e maggiormente visibile. Quello che realmente è successo è che si è creato un bel gruppo di musicisti, dai video si è passati allo scambiarsi progetti, musiche. Così ho conosciuto Francesca e Federico, per esempio. Su whatsapp mi sono trovato a discutere con loro su come pubblicare un disco, trovare una casa discografica. Ed è nata l’idea di diventare “editori di noi stessi”, progetto a cui avevo già pensato. Così s’è creato un gruppo di nove persone, tra cui anche Francesca e Federico. Habitable Records non ha un capo, siamo tutti leader: far musica, produrre il più liberamente possibile, avere supporti di comunicazione e marketing. A sostegno del progetto abbiamo creato un’associazione culturale in Portogallo (che ha un nome legale ma non ancora uno ufficiale per il pubblico) con l’obiettivo di pagare un musicista perché produca musica. Nel caso di Mountains sono stato pagato perché ho avuto un aiuto, ma creare con più facilità un circuito virtuoso sarebbe il nostro obiettivo. Con Antena 2 – RTP (la radio portoghese) abbiamo stretto un accordo  per montare una serie di concerti on line con programmazioni a distanza: organizzo un duo, ognuno vive nel proprio paese, e li faccio suonare insieme. Questo, tutti i mesi. Si chiama Intersections: un musicista inizia a suonare e alla fine si fonde la performance di un altro per un totale di mezz’ora di concerto. I musicisti per questo vengono pagati. Il cachet è diretto dalla radio al musicista. Questo è il nostro spirito. È giusto che un musicista sia pagato per il proprio lavoro».

Un altro ritratto di Javier Subatin – Foto Raquel Nobre G.

Come vedi la professione del musicista in un mondo di musica mainstream dove c’è poco spazio per giovani di certo valore?
«C’è un mercato per il tipo di musica che facciamo noi. Che non sarà mai mainstream. Ci sono due scelte: la prima, è fare molti concerti (in questo momento non è molto facile), la seconda, insegnare. Mi sono sempre mantenuto insegnando musica. La produzione musicale mi dà un extra. Il mio obiettivo è quello di invertire le mie fonti di reddito!».

Fare concerti è complicato anche senza pandemia…
«Certo, perché il musicista dovrebbe fare anche l’agente. Quello che sta succedendo ora è che gli agenti guadagnano molto di più insegnando ai musicisti a diventare anche agenti. Un paradosso…».

Interviste: Francesca Remigi e il Labirinto dei Topi

Francesca Remigi – Foto The Fog House Photography

Confesso, ho una certa soggezione quando mi accingo a telefonare per quest’intervista. Francesca Remigi, bergamasca, 24 anni, figlia e nipote di musicisti, è una batterista jazz. Eccolo lì, sono subito riduttivo… Bisogna aggiungere che è anche una compositrice, e pure molto brava e complessa, dai che ci sono!, e una persona esigente, che tende alla perfezione (sarà perché nata sotto il segno della Vergine, per chi ci crede). Qui, miei cari amici, non è questione di zodiaco, bensì di carattere e amore (sconfinato) per la musica e per il ritmo.

Il 5 gennaio è uscito sulle piattaforme digitali, e due settimane dopo nei negozi fisici, Il Labirinto dei Topi, otto brani di non facile ascolto, ai quali bisogna accostarsi con mente libera e aperta, musica che non possiamo etichettare semplicemente come “jazz contemporaneo”. Detto così, è tutto e niente. Il lavoro è nato da sue composizioni e da un gruppo di musicisti che si è scelta, sempre non per caso. Un ensamble battezzato Archipélagos. Ma vedremo tutto tra poco… Al cellulare mi risponde una voce squillante, simpatica, gentile… «Scusami, oggi la linea dà problemi, non so perché, eccomi qua, pronta!».

Francesca, vado subito al sodo: hai studiato al Conservatorio di Milano, quindi l’ultimo anno, un Erasmus a Maastricht, poi la laurea al Koninklijk Conservatorium di Bruxelles. Ora sei nel pieno di un super master al Berklee Global Jazz Institute di Boston, diretto dal pianista Danilo Pérez, in quella mitica scuola dove insegna anche la grande batterista Terri Lyne Carrington…
«Sì sono stata scelta, è dal novembre del 2019 che ho iniziato il mio percorso per partecipare al master. Ho inviato i miei provini, sai ci sono venti borse di studio, dieci per studenti americani e dieci per il resto del mondo. Il Master costa molto, 70/80mila dollari per un anno. Sono stata ammessa con la borsa di studio, sarei dovuta partire nel settembre dello scorso anno, ma il campus di Boston nel frattempo è rimasto chiuso, causa pandemia, nel primo semestre. Da fine gennaio ha riaperto iniziando alcune lezioni in presenza. A questo punto, vista l’incertezza, ho continuato a frequentare on line. Mi stanno servendo molto, anche se non è come in presenza, ovvio. Sto imparando nozioni importanti di Music Technology, Productions, tutte capacità che, di questi tempi, sono utili a un musicista: imparare a usare programmi complessi che ti permettono di registrare ad alti livelli da solo con evidenti risparmi in un momento in cui non ci sono risorse. Comunque, se tutto va secondo i piani, dovrei partire a maggio per fare, in presenza, gli ultimi quattro mesi e poi rimanere negli Stati Uniti. È il mio sogno restare al Berklee, continuare il mio percorso di perfezionamento…».

Per ora come funziona?
«Per le composizioni intendi? Ci si passa le tracce, è un processo molto lento, estenuante, soprattutto per i batteristi che devono registrare per primi…».

FRANCESCA REMIGI – “Adriano Bellucci photographer – Una Striscia di Terra Feconda 2020”

Perché ti sei appassionata alla la batteria?
«Sono nata in mezzo alla musica. Mio padre è un chitarrista, mia madre una pianista, mio nonno suonava la tromba nell’Orchestra Sinfonica della Rai. Insomma, sono cresciuta tra classica e jazz. Ho iniziato prendendo lezioni da mio padre. Padre-figlia, professore-allieva, non sempre funziona. Una volta sono andata ad ascoltare mio padre che suonava con un’orchestra, ero piccola, e c’era anche un batterista che, ai miei occhi di bambina, si stava divertendo tantissimo a suonare. Era Stefano Bertoli, e proprio lui è stato il mio primo insegnante. Così ho lasciato la chitarra… I miei, comunque, sono felici della scelta, vedono quello che faccio, sono contenti».

Veniamo al Labirinto dei Topi. Il titolo fa riferimenti alle teorie di Zygmunt Bauman, ma non solo. Leggo i titoli dei brani: Il Labirinto dei Topi, Gomorra, Be Bear Aware (ascoltateli). Ci sono riferimenti a Noam Chomsky e a Roberto Saviano.
«Sono sempre stata attratta dalla storia, dalla filosofia dalle relazioni umane. Mentre studiavo al Conservatorio, a Milano, mi sono iscritta anche a Interpretariato Parlamentare… La musica è uno strumento per dire qualche cosa, non è solo musica fine a se stessa, va riempita di contenuti. Penso a Eric Dolphy a Charles Mingus. L’arte in generale e, dunque, anche la musica, è un mezzo di denuncia sociale. Questi argomenti mi toccano e mi interessano, mi sono avvicinata anche allo studio della psicologia e della sociologia. Tornando al Labirinto dei Topi: l’idea del titolo ma anche della composizione mi è venuta leggendo La Società sotto assedio di Bauman, una società senza certezze dove le istituzioni non rappresentano più i cittadini ma diventano una oligarchia a sé stante. Ci si trova da soli ad affrontare vita e sfide, i social poi hanno dilatato questo processo… Sto scrivendo un progetto che presenterò alla Berklee dal titolo The Human Web, dove mi concentro ad analizzare l’impatto dei social media, le condizioni economiche e fisiche, uno scontro che la pandemia ha ulteriormente accelerato. Sai sto seguendo quest’aumento vertiginoso di suicidi e tentati suicidi tra adolescenti, mi ha colpito molto. La mia idea è registrare questo nuovo progetto a Boston con musicisti residenti, a maggio».

Ritornando al disco, tutto questo lo hai inserito in una musica che segue anche canoni non propriamente occidentali. Mi riferisco alla tua passione per lo studio della musica carnatica indiana…
«Sono una persona che non si accontenta facilmente, cerco sempre nuove sfide, e una di queste è proprio la musica carnatica indiana. È per questo motivo che mi sono spostata a Bruxelles, dove ho preso lezioni da Stéphane Galland, un grande batterista che da anni la studia. È una musica molto lontana dalla nostra. Usa un unico riferimento armonico melodico per un intero brano (che viene chiamato Raga) e che può durare ore. Non esistono successioni di accordi come nella musica occidentale. A livello melodico parlo di quarti di tono, appoggiature che non sono nostre. Da batterista è super interessante, molto complessa, rigorosa…».

Rigore che ti è servito per rafforzare il significato dei brani, tornando a Bauman, Saviano…
«Il rigore ritmico e matematico che caratterizza le composizioni, vuole far riflettere sulla società “Matrix” che opprime e controlla i singoli tramite uno sfrenato consumismo e un’inarrestabile globalizzazione».

Gli Archipélagos – screenshot video

Veniamo ad Archipélagos, il tuo progetto musicale. Ti sei scelta un gruppo che avesse queste affinità e conoscenze…
«Sì. Con Federico Calcagno (suona il clarinetto) ci conosciamo da quando abbiamo iniziato il conservatorio a Milano. Poi lui si è trasferito ad Amsterdam per perfezionarsi e io a Bruxelles. Siamo rimasti sempre in contatto. Amsterdam e Bruxelles sono vicine, ci vedevamo spesso per suonare, fare concerti. Avevo poi conosciuto, nell’estate del 2019 in Canada, durante una residenza artistica presso il Banff Centre for Arts and Creativity, un trombettista australiano, Niran Dasika, che lo scorso anno si trovava in Europa e aveva accettato di partecipare al lavoro. Si registrava a Roma nel Tube Recording Studio. A causa della pandemia e i continui rinvii, è poi dovuto ripartire per l’Australia. Le tracce le ha registrate da lì e le abbiamo aggiunte poi»…

Archipélagos viene proprio da qui, dal fatto che siete musicisti di varia provenienza (non solo “regionale”) ma anche musicale… Per la cronaca, l’ensemble è stato finalista dei Maastricht Jazz Awards 2020 e vincitore dei concorsi All You Have To Do is Play 2019 Nuova Generazione Jazz 2021 (I-Jazz).
«Con me ci sono amici conosciuti a Bruxelles, come il contrabbassista olandese Ramon van Merkenstein o il pianista francese Simon Groppe. Assieme a loro avevo avviato nel 2018 un altro progetto, i Soul’s Spring, poi abbandonato perché avevo in mente un altro genere di composizioni. Poi c’è la lussemburghese Claire Parsons alla voce: giocando con l’elettronica, riesce a fare cose davvero interessanti. Siamo, insomma, tante isole che però condividono lo stesso modo di fare musica, un arcipelago, appunto».

Torniamo alla tua musica. Come la puoi definire?
«È uno stile che rientra nella “creative music”, non è solo free jazz alla Ornette Coleman per intenderci. Rientra nella musica creativa, perché collega varie influenze, musica classica contemporanea, rock progressivo, musica carnatica, jazz..».

Francesca Remigi in concerto al Banff Centre, Canada

Il rigore compositivo lascia, però, spazio all’improvvisazione….
«Se hai ascoltato Gomorra, avrai notato che alla fine c’è come un placarsi del dialogo stretto tra strumenti, rimane il pianoforte di Simon e il canto di Claire, un segnale di speranza. In Scherzo e ne Il Labirinto dei Topi cantante e trombettista hanno totale libertà di esplorare; insomma, c’è una giusta dose di libertà. Si tratta di tanti soli che avvengono su metriche molto complesse».

Francesca, un’ultima cosa, anzi due: che musica ascoltavi da adolescente e che musica ascolti oggi?
«La musica è stata una costante nella mia vita. Fin da piccola, a cinque anni, sono stata abituata ad ascoltare Beatles, Queen, Rolling Stones. A 14, 15 anni mi sono avvicinata al jazz, ascoltavo il  progressive rock, King Crimson, Dream Theater (prog virato sul metal) e altri gruppi simili. Sono rimasta intrappolata in quell’estetica lì. Oggi, come ascolti, direi musica classica contemporanea, jazz contemporaneo e tanta musica di artisti emergenti giovani. Ultimamente ho ascoltato Octopus di Kris Davis & Craig Taborn (2018), Musica Ricercata di György Ligeti, Open Form For Society di Christian Lillinger, The African Game di George Russell».