Marta Giulioni: il musicista, un funambolo sulla corda…

Marta Giulioni in quartetto con Nico Tangherlini al pianoforte, Gabriele Pesaresi al contrabbasso e Andrea Elisei alla batteria

Un uomo che cammina su una corda. Si bilancia con le braccia, gioco d’anche. L’equilibrio è tutto su questo cavo che non ha un inizio né tantomeno una fine. L’immagine della cover di Up On A Taightrope, primo lavoro di Marta Giulioni, giovane cantante jazz marchigiana con una voce di cui si apprezza una calda tenuta nelle note basse e una grande capacità di camminare disinvoltamente lungo il difficile filo del pentagramma, semplice e complessa nel suo insieme, rappresenta quello che è la vita.

Siamo tutti precari, camminiamo sulla nostra corda cercando il giusto equilibrio per non cadere. Non c’è scelta, si va avanti così, a volte tranquilli, altre ricorrendo a evoluzioni che hanno del grottesco, altre ancora cadendo…

La vita dell’equilibrista è, in questo caso, quella del musicista. Questo ci vuole dire Marta. Perché da lassù il mondo ha altri punti di vista, e, se si seguono i propri sogni, si avrà la fortuna di scrutarlo, possederlo, viverlo. Il suo “manifesto” è chiuso ne Il Funambolo, ma è in tutta la costruzione del disco circondato da un’aura eterea di intangibilità, che si scopre una corda che va alto sulle ali, come canta l’artista. Il brano che segue, So What If I Fall, dominato da un piano che lavora su percorsi “collinari” rendendo bene il senso del movimento, la voce, attraverso uno scat leggero, racconta che se si ha uno scopo, un aggancio sicuro, la caduta si trasforma in volo, in opportunità. 

L’ho ascoltato più e più volte Up On A Taightrope. Al di là della indiscussa bravura tecnica di Marta e dei suoi compagni “di corda”, Nico Tangherlini al pianoforte, Gabriele Pesaresi al contrabbasso e Andrea Elisei alla batteria, c’è molto pathos in questo lavoro, molta anima. Brani con testi visionari, aperti, dove la fantasia aiuta le note, agganciando l’attenzione e le emozioni dell’ascoltatore.

L’altra sera ero all’Après Coup, un locale intimo, dove si gusta buona tavola e gustosissimo jazz, in una via nascosta del centro di Milano, per ascoltare il Monique Chao trio. La eclettica pianista taiwanese era accompagnata da un ottimo Giacomo Marzi al contrabbasso e da Francesca Remigi, giovane batterista, conoscenza nota di chi legge il mio blog. Mercoledì sera suonerà con il grande pianista panamense Danilo Pérez a San Lazzaro di Savena (Bologna): andateci se potete! 

Perché vi racconto tutto ciò? C’è un legame fisico e mentale in questa nuova generazione di musiciste e musicisti. Una freschezza e una profondità che va oltre la bravura. Non avevo fatto caso, me lo ha ricordato proprio Francesca: in The Human Web, suo ultimo lavoro di cui vi avevo parlato in questo post, nel primo brano, Metamorfosi, c’è la voce di Marta. Hanno studiato insieme al Koninklijk Conservatorium Brussel (KCB). La corda ti costringe a stare in equilibrio e ti lega indissolubilmente ad altri funamboli come te…

Marta, la passione per il canto?
«Ho iniziato studiando la chitarra classica, che poi ho abbandonato, da che io mi ricordi, mi è sempre piaciuto cantare. Da adolescente ho lasciato la musica per dedicarmi allo sport… continuando, però, a cantare. Intorno ai 20 anni, periodo in cui ero proprio persa, non avevo ben chiaro cosa fare della mia vita, ho scoperto il jazz attraverso la Libera Accademia del Jazz, spin-off dell’Accademia musicale di Ancona. Mi sono appassionata, ho iniziato a studiarlo sempre di più. Da lì in poi è stato un crescendo».

Nell’album hai degli ottimi compagni di viaggio…
«Gabriele (Pesaresi, ndr), il contrabbassista, l’ho conosciuto tramite dei seminari. In realtà, lui era l’insegnante. Negli anni abbiamo iniziato a suonare insieme. Quando mi sono decisa di dare una vita ai miei brani originali, l’ho contattato e coinvolto. Così è stato anche per Andrea (Elisei, ndr), il batterista. Con lui abbiamo altri progetti insieme, da cui è nato un altro disco uscito lo scorso anno, con il gruppo Mantis, A Postcard From Nowhere, un quartetto con il chitarrista Thomas Lasca, il contrabbassista Edoardo Petracci e la partecipazione del sassofonista Simone La Maida. Con Nico, invece, suoniamo insieme da otto anni, per me è una certezza!».

Qual è il tuo processo creativo?
«Per comporre uso il pianoforte. Inizio, di solito, cercando la melodia. Sto provando a seguire altri metodi, che ancora non so affrontare benissimo, e cioè iniziare un brano dall’armonia, oppure partendo dal testo. Nel disco ho fatto questo tentativo con I cieli del Rojava. Il testo non è mio, ma di un caro amico, che è scrittore e poeta, Giovanni Paladini. Era già stato pensato in metrica dall’autore, un ottonario. Dà molta sonorità, ma il rischio era quello di continuare su una melodia che poteva essere abbastanza ripetitiva. Così, una volta finito, ho lavorato per sottrazione, riducendo tutto all’essenziale».

Tra l’altro, ne I cieli del Rojava c’è un lavoro di contrabbasso con l’archetto veramente bello. La tua scelta di cantare in italiano e inglese dipende dalla metrica, da quello che vuoi aggiungere alla musica?
«Ho un triennio in mediazione linguistica, sono sempre stata appassionata di lingue. Questa cosa, al tempo stesso, mi ha creato per tanto tempo un blocco che, se ho risolto nella scrittura in inglese, non l’ho ancora elaborato per quella in italiano. Forse perché l’inglese è quella che sono abituata ad ascoltare. Paladini mi aveva proposto anche la traduzione in inglese dei versi, ma ho scelto di lasciarla nella lingua originale, perché, secondo me, tradotti si perdevano alcuni passaggi stilistici importanti».

Parliamo del brano Colibrì, è un bonus track, giusto? Confesso che mi piace molto, perché legato agli stilemi della musica brasiliana…
«È stato uno dei primi brani che ho scritto. In quel periodo ascoltavo tantissimo Egberto Gismonti, Maria João e Mário Laginha. Ho pensato: bello, bellissimo! Anch’io ne vorrei tanto scrivere un uno su questi metri compositivi. Avevo iniziato a comporlo in parte, poi, come mia abitudine, l’ho lasciato decantare e, quindi, ripreso. L’ho suonato da subito con arrangiamenti diversi a seconda delle formazioni con cui mi sono trovata a collaborare. È stato pubblicato anche in A Postcard From Nowhere, dove, al posto del piano, c’è una chitarra e, in aggiunta un sax, con cui ho potuto interagire. Colibrì è un brano a cui sono molto affezionata, volevo inserirlo nel disco come bonus truck, ma riarrangiato per il quartetto, amalgamarlo all’album facendolo diventare più…intimo».

Colibrì è il beija flor, un uccellino “ritratto” più volte nella musica brasiliana…
«Vero, ma in realtà il nome del brano è nato per caso. Ero in auto con un’amica musicista, glielo stavo facendo ascoltare… cercavo un titolo che non riuscivo a trovare. Le ho domandato: cosa ti ricorda? E lei, un colibrì! Così è rimasto».

Torniamo a Up On A Tightrope e al suo filo conduttore, restare in equilibrio nella vita…
«L’idea del funambolo è quella di una persona che si ritrova, come tante, a vivere in bilico. Ce la farà, non ce la farà? Cadrà, non cadrà? Lei/lui sa che mette in gioco tanto, ma alla fine continua, va avanti comunque… Poi quest’idea di etereo, di restare sospeso in aria affidandosi solo a una corda, mi è piaciuto riportarla anche nel suono. Alla base di tutto, sì, c’è il rischio, soprattutto nella professione del musicista dove…certezze mai! Però fai di tutto per proseguire su quella strada…».

L’uso dello scat è frequente nel disco, è una delle tue forme predilette?
«Mi piace da quando ho scoperto il jazz. Il primissimo strumentista compositore di cui mi sono appassionata è stato Charlie Parker. Mi dicevo: “senti che bella musica, anch’io vorrei fare quello che fa lui, ma con la voce, come si fa?”. Adoro anche il pianoforte, seguirlo con la voce è meraviglioso. Provo sempre, come studio, a improvvisare su qualsiasi cosa: poi, se non ci sta vado per sottrazione, ma comunque ho tentato!».

Suoni il pianoforte?
«So accompagnarmi, compongo al pianoforte, ma non affronterei un intero concerto musica e voce. Lascio fare ai professionisti!».

Cosa vuol essere questo disco per te?
«Up On a Tightrope è una raccolta di brani che ho scritto nel tempo. Il filo conduttore l’ho trovato dopo, amalgamando il lavoro, ed è stata una bella scoperta. Quello che voglio fare è divertirmi con la musica, mi piace scrivere, comporre mi emoziona, adoro sperimentare, cercare nuovi input, ma anche rimodellare cose già fatte. Voglio continuare a produrre, pubblicare dischi, come solista o insieme ad altri gruppi».

Concerti?
«Sto pianificando per l’estate, aspettando conferme e risposte da festival. Sono stata a Parigi per un mese a marzo per il progetto del MIDJ (nel 2019 Marta Giulioni è stata una delle vincitrici del bando AIR: Artisti in Residenza, promosso da MIDJ, Musicisti Italiani Di Jazz e sponsorizzato da SIAE, ndr). Lì ho trovato un ambiente ricchissimo, molto stimolante per i giovani jazzisti come me». 

Floriana Foti: il jazz, la Sicilia e i colori della musica

Floriana Foti – Foto di Jethro Bijleveld

Voci baciate dal sole e dalla grazia. La Sicilia, ancora una volta, mi dà la possibilità di presentare un’altra sua figlia prediletta. Si chiama Floriana Foti, è catanese, ha 37 anni e ha pubblicato poco più di un mese fa il suo primo lavoro, Seven Colors, per TRP Music.

Seven Colors sono, ovviamente, i colori dell’arcobaleno. Che nel lavoro di Floriana esplodono in tutte le loro gradazioni e combinazioni in un caleidoscopio di emozioni, passioni, amore, nostalgia, sensualità, atmosfere che riportano alla terra, al mare, a un’isola ricca di cultura e arte, crogiolo di popoli, multietnica nel cuore e nelle espressioni artistiche.

Il tutto racchiuso in nove “episodi”, tre dei quali originali, composti e arrangiati in ogni loro parte dalla stessa musicista, Seven Colors of Raimbow, If You Stayed With Me dedicato alla nonna paterna, e Spunta Lu Suli, brano di oltre 9 minuti, prolifico biglietto da visita dell’artista. Gli altri sei, scelti da autori che hanno segnato la formazione artistica della musicista catanese, riarrangiati e “amalgamati” in quello che è il mondo musicale e canoro di Floriana. 

C’è, per esempio, una bella versione di Dolcenera di Fabrizio De Andrè, dove l’improvvisazione entra con voce e sax, regalando una tavolozza di emozioni. Lo scat è usato con sapienza e dimostra quanto Floriana domini questa tecnica. A questo proposito ascoltatevi il brano iniziale Seven Colors of the Rainbow o l’energica ’S Wonderful, standard dei fratelli Gershwin, un bonus track che chiude un lavoro senza sbavature e carico di pathos, come un’esplosione di luce, caldo, estate siciliana…

Interessanti e ben riusciti gli interventi sui testi della tradizione che acquistano una veste ethno-jazz, filologica (e qui interviene anche la laurea in Lettere e Filologia Moderna conseguita all’Università di Catania nel 2013). Marzapaneddu (delicato testo messo in musica dalla brava Matilde Politi, che dei canti popolari siculi è autorità indiscussa) ma anche Cu ti lu dissi, con lei diventano piccole opere mistiche, ricordi di un mondo che non esiste più ma che le note del jazz rendono così attuale… Ci sono pure due brani rivisitati della produzione di Rita Marcotulli, L’Amore Fugge e Scitame Sole (quest’ultimo composto dalla Marcotulli e dalla  musicista e cantante napoletana Pia De Vito), amalgamati alla perfezione in quel mondo di colori che Floriana vuole presentarci. 

Una produzione eccellente, dunque. Anche per i musicisti che l’hanno accompagnata: Tony Hoyting al pianoforte, Andrea Caruso al contrabbasso, Quique Ramírez alla batteria, Suzan Veneman alla tromba, Denis Pavlenko al sax alto, Daniele Nasi al sax tenore e Pasha Shcherbakov al trombone, «tutti giovani, talentuosi e portatori di freschezza», mi racconta la stessa musicista.

Dunque, Floriana, Seven Colors è un disco che è molte cose, ethno jazz, composizioni originali, arrangiamenti lavorati con una precisione minuziosa…
«È il mio primo progetto. Il leit motiv è stato: dare varietà al disco. Ci tenevo a trasferire tutto ciò che mi ha ispirato e che ha contribuito a formarmi».

In questo tuo percorso la musica popolare siciliana ha ampio respiro…
«Sì, credo che la musica siciliana si presti particolarmente a essere trasposta nel jazz. Piace soprattutto all’estero, dove c’è sempre una grande attenzione a queste proposte musicali. C’è molta curiosità nel cercare e conoscere la cultura di altri luoghi». 

La lingua siciliana funziona, è musicale…
«Alcuni testi sono vere e proprie poesie. Prendi Marzapaneddu, piccolo marzapane, diminutivo che in siciliano acquista il significato di bocconcino, un vezzeggiativo per parlare dell’amata/o. Il testo si trova nelle raccolte di Alberto Favara, musicista ed etnomusicologo palermitano, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, che Matilde Politi ha musicato. Ci sono solo la sua versione e ora la mia, che io sappia. Probabilmente è stato scritto da una donna per la sua delicatezza. Fa parte di quei brani di tradizione orale, racconta di un amore e di un fazzoletto bianco che i marinai lasciavano alla donna amata come pegno affinché lei lo ricamasse e lo restituisse al loro ritorno. La forza del loro legame è tutto in due affermazioni: Tannu si scurdirà lu nostru amuri/ quannu di giugnu veni lu nataliTannu si spartirà lu nostru amuri/ quannu chi sicca l’acqua di lu mari, il nostro amore finirà quando a giugno arriverà Natale o quando si seccherà l’acqua del mare. Un amore eterno!».

Anche Cu ti lu dissi è molto intenso.
«È un’altra canzone che è stata tramandata oralmente e che Rosa Balistreri (cantautrice di Licata, riferimento della musica popolare siciliana, morta ad appena 63 anni nel 1990, ndr) l’aveva trascritta per chitarra e fisarmonica. L’ho rivisitata in chiave Valzer a 6/8, in modo da ottenere un sound più naturale…».

Ho apprezzato molto Dolcenera di De Andrè…
«Ho trasferito sul disco tutte le mie influenze, De Andrè, Rita Marcotulli, Patrizia De Vito. Dolcenera mi piace per il sound, un ritmo a 12/8, un po’ Afro. Ma anche per il tema trattato, e per questo si inserisce tra Spunta lu Suli e Scitame Sole: in questa triade c’è un’idea di rinascita, il sorgere del sole, in mezzo il momento down, al tramonto, con la tempesta (il brano di De Andrè parla dell’alluvione che colpì Genova nell’ottobre del 1970, ndr). È un momento drammatico al quale segue la nuova alba con Scitame Sole, Svegliami Sole, cantata in dialetto napoletano. Mi piacciono le sfumature linguistiche….

Eh già, oltre al Conservatorio hai anche una laurea in Lettere e Filologia…
«Sì mi sono laureata nel 2013. Ho fatto il doppio percorso. Avendo frequentato il liceo psicopedagogico è stato naturale per me iscrivermi a Lettere. L’amore per la musica, invece, c’è sempre stato».

Strade parallele e importanti…
«Utili entrambe. Mio papà è un musicista autodidatta, suona la chitarra e canta. Ha una bella voce, da giovane ha lavorato come speaker in radio. A casa portava sempre tanti vinili, ascoltava di tutto, rock, jazz band, musica italiana, e io ascoltavo con lui, ore e ore. Così è stato il mio primo approccio alla musica. In famiglia sapevano tutti che volevo cantare, non era un mistero. A 15 anni ho iniziato a farlo in vari gruppi. Ho fatto concerti e concorsi. A 23 anni ho deciso di studiare canto, tecnica vocale, armonie. Inizialmente cantavo blues, soul e jazz. Ho studiato e mi sono formata al Cesm (Centro etneo di studi musicali) di Catania, dove oggi insegno. Più mi addentravo nel canto, più mi appassionavo all’improvvisazione. È stata una sfida che io stessa mi sono posta».

E poi cosa è successo?
«Ho pensato di andare a studiare all’estero. Così mi sono trasferita in Olanda al Prins Clauss Conservatory di Groningen, dove mi sono laureata nel 2018. Sono stati anni proficui, stimolanti. Al conservatorio arrivavano a tenere lezioni e master class jazzisti americani molto conosciuti. Con loro c’era un rapporto diretto, si cresceva molto velocemente, una grandissima esperienza: il jazz va suonato non può rimanere solo a livello teorico. Ho dato vita al Floriana Foti Quartet e ci siamo esibiti varie volte a Groningen e dintorni. Lì ho iniziato a scrivere musica e fare i miei arrangiamenti».

Floriana Foti – Foto di Marco Foti

Domanda che faccio spesso ad artisti siciliani e sardi, dando per scontati i napoletani, altra “isola” felice: perché Sicilia e Sardegna regalano grandi artisti? C’è un legame particolare tra terra, cultura e musica? Un’altra brava cantante jazz di cui ho parlato e imparato a conoscere è la tua  conterranea Daniela Spalletta
«Daniela! È bravissima, una mia amica. È vero, abbiamo tanti talenti, prendi ad esempio Seby Burgio. Forse perché noi meridionali abbiamo l’esigenza continua di comunicare, scambiarci saperi, creare jam session, pretesto per suonare insieme. Fenomeno, questo, presente anche in Nord Europa. C’è l’esigenza di creare qualcosa al momento, siamo così, non possiamo farci nulla! E poi, sì, c’è lo stretto legame con la terra, presentare un brano della propria tradizione significa rinnovare questa unione».

Spiegami perché ’S Wonderful, bonus track del disco…
«Fare un disco è un biglietto da visita importante. Per essere onesti fino alla fine, volevo mostrare cosa avevo fatto, quello che mi piace e ’S Wonderful è uno dei miei standard preferiti. Mi sono divertita a riarrangiarlo cercando di dar vita a una versione che rispettasse Gershwin ma che avesse una sua freschezza, con cambi di tonalità, ritmici, di tempo. Una versione leggera, briosa. I tre fiati in risposta alla voce hanno fatto un ottimo lavoro. La parte finale cambia tonalità più volte… mi piace uscire dai canoni, andare un po’ fuori e rimanerci, fa parte della mia personalità».

Hai dedicato If You Stayed with Me a tua nonna, era una donna molto importante per te…
«Nonna Pippa, la mamma di mio papà, è stata la mia supporter su tutto. Avevamo un rapporto molto affiatato. I nonni sono sempre un dono, lei aveva anche una bellissima voce, dote naturale. Anche molti dei suoi undici fratelli avevano una predisposizione alla musica e all’arte in generale, chi suonava il mandolino, chi cantava, chi disegnava…».

Domanda inevitabile: cosa ti aspetti dal disco?
«Il più possibile, anche e soprattutto dall’estero. Credo sia un lavoro che in Europa possa avere successo. Ne sono convinta».

Date di tour già fissate?
«Durante la pandemia ha sofferto tutto il comparto, soprattutto i gruppi emergenti. Dobbiamo aspettare, è inevitabile che le prime date che si assegnano siano state prenotate per i grandi artisti. Ci sono tempi di attesa lunghissimi. La mia speranza è che la situazione si sblocchi quanto prima».