Anche per quest’anno ci siamo scrollati di dosso Sanremo. Ne sentiremo parlare di nuovo a fine dicembre, una tregua onorevole per depurarsi dalle sciatte canzoni che sono state imposte per una settimana. Ovviamente con qualche eccezione, vedi il bel brano di Giovanni Truppi ed Elisa e qualche riff funkeggiante che risvegliava il torpore, mi riferisco a La Rappresentante di Lista… Per il resto big (ma quali?), appiattiti sul nuovo nazionalpop sempre uguale a se stesso, sfinitamente noioso.
Ciò mi permette di introdurre un tema – la cultura musicale – che nel paese della melodia e del lirismo s’è appiattito su uno pseudo rap diventato il nuovo pop. Non importa se non hai voce, se bisbigli non per pathos ma per mancanza di corde vocali e polmoni, se non riesci a prendere una nota. L’importante è rimanere in canoni strettamente vigilati per trarne guadagni, anche sostanziosi.
Non va bene, non va bene per niente. Così s’ammazza la cultura, così si isolano ancora di più quei tanti – eh sì, sono davvero tanti – che sanno suonare e cantare, che cercano percorsi diversi dal mainstream, che studiano perché credono nella loro arte. Artisti che quasi nessuno conosce ma che valgono mille festival in una sola canzone.
Alcuni giorni fa, ben prima di Sanremo, nel mio piccolo mondo di Musicabile ho avuto l’opportunità di intervistare Mario Caccia, il patron di Abeat Records, piccola ma pulsante casa discografica varesina che in catalogo ha per lo più jazz di alto livello.
Non è questione di fare gli spocchiosi, ma proporre buona musica è importante per lo sviluppo di un Paese, tanto quanto un buon libro, una pièce teatrale, una riflessione sulla nostra educazione e in prospettiva, sulla politica, l’economia e i grandi sistemi.
«La musica rientra nelle dinamiche della società contemporanea: tutto ciò che prevede il concetto di scambio viene trattato come commerciale. Promuovere una musica facile, già pronta, è dunque un cavallo vincente. Non ci si impegna e si guadagna», mi dice Caccia, che, oltre a essere un discografico è anche un bravo musicista jazz e pop, bassista per la precisione.
Mario, veniamo subito al punto: perché la buona musica quasi mai coincide con il mainstream?
«Perché la gente non ha gli strumenti culturali per poterla apprezzare. Prendi il jazz, per esempio, i grimaldelli per farlo conoscere sono pochi. Non bastano gli artisti e le case discografiche che li pubblicano. La musica d’avanguardia è, praticamente, sconosciuta. Secondo me è il combinato di due fattori: il fenomeno commerciale e la crescita culturale…».
Ok, essendo la musica un linguaggio – come mi spiegava Claudio Fasoli – se non lo insegni fin dalle scuole primarie, è difficile comprenderlo…
«È un cul de sac, non se ne esce. La storia ci insegna che ci sono fasi cicliche anche nella musica. Negli Stati Uniti, per esempio, il jazz negli anni Trenta del secolo scorso era considerato un genere leggero, snobbato. Il jazz delle grandi orchestre era il pop di quei tempi. Poi, però si è elevato. Perché s’è capito che non era una musica banale. Ogni Paese avanza in base al suo background culturale».
La cultura è sempre legata a dinamiche socio-politiche…
«In realtà, guardando alla politica, dovremo uscire dalla dicotomia o sei neo-liberista o neo-comunista. Bisogna andare oltre: stiamo vivendo una crisi che se definiamo democratica non si è lontani dalla verità. Ed è una “policrisi”, anche la musica subisce le bordate a destra e a sinistra. L’America ha un suo tessuto culturale, tanto che il jazz da anni è mainstream. In Italia è diverso, abbiamo un ritardo notevole di esperienze e culture musicali. Sempre parlando di jazz: guarda il Nord Europa è avanti, sperimenta, ascolta. Da noi episodi troppo moderni fanno scomparire gli ardori. Il nostro è un Paese vecchio demograficamente e non solo. Tutto di conseguenza è interconnesso, politica, cultura, arte».
Un Paese che non riconosce più il valore di certa musica (classica, lirica, jazz anni Cinquanta, cantautorato anni Sessanta e Settanta…) e che rifiuta di ascoltare cose nuove, per inerzia, pigrizia, avvento del digitale, s’è appiattito: ascolti svogliati e di facile presa…
«Lo streaming ha cancellato una selezione che veniva fatta inizialmente dalle case discografiche, nel bene e nel male. Si è chiusa un’epoca: sento spesso materiale poco significativo. Non è decadenza, ma abbassamento qualitativo. Materiale un po’ meno convincente anche se ben suonato… Abbiamo musicisti d’oro ma musica d’argento…».
Eppure ci sono etichette coraggiose, vedi la Tŭk Music di Paolo Fresu o la stessa Abeat. Investite molto sui giovani, e giustamente…
«Credo si debba rischiare qualcosa in questo mestiere. Già è titanico produrre un nome affermato, figurati dei giovani artisti per lo più sconosciuti!».
E arriviamo ad Abeat…
«Sono sempre stato un musicista atipico, borderline. Una ventina d’anni fa mi trovavo in una serata tra amici che si stavano lamentando delle etichette discografiche allora in auge, incapaci di interpretare le esigenze degli appassionati di certa musica. Così richiesero: “Mario, perché non la fai tu un’etichetta?”. Ho pensato e mi son detto, “perché no?”. Iniziai con due dischi che ebbero una certa eco. Renato Sellani nel 2001: il grande pianista in quel periodo era stato un pochino dimenticato. Pubblicai Il Poeta, in quartetto con De Aloe, Moriconi e Bagnoli. Mi piace pensare di aver avuto un ruolo nel suo rinnovato successo. Quindi, sempre lo stesso anno, Prism, di Don Friedman in trio con Marco Ricci e Stefano Bagnoli…».
Mario raccontami il tuo capitolo di musicista…
«Ho studiato contrabbasso classico che ho dismesso per il basso elettrico. Suonavo musica leggera, di intrattenimento. Il jazz è venuto dopo, l’ho scelto per rispetto e stima, una specie di sudditanza psicologica verso quegli artisti che si divertivano a fare improvvisazione, nella musica pop non si poteva. Mi incuriosivano. Così mi sono dato al jazz. Qualche amico ancora oggi mi coopta a suo rischio e pericolo! Bisogna essere sinceri con sé stessi: sono un musicista piuttosto anarchico. Ho un discreto talento ma uno scarso impegno…Insegno basso in una scuola di musica e cerco di lasciare molta libertà interpretativa ai miei allievi».
Il premio che a gennaio hai ricevuto da TopJazz per Next, il disco di Claudio Fasoli, è un bel riconoscimento…
«Sì, la testimonianza dei vent’anni di lavoro di Abeat Records. E poi sono molto contento per Claudio, sta ottenendo attestati e fama. Per me, diciamo che contribuisce a fare curriculum, come si dice oggi!».
Tra gli artisti nuovi che pubblicherai?
«Ce n’è una che è davvero brava. Si chiama Aura Nebiolo, è astigiana e ha uno straordinario talento, è una musicista completa, canta, compone, arrangia, usa la voce come uno strumento. Ne sentiremo parlare molto…».