Sade Mangiaracina, quando il jazz diventa preghiera

Sade Mangiaracina – Foto Roberto Cifarelli

Può suonare strano pubblicare un doppio disco strumentale con un titolo che riporta subito alla voce: Prayers, Preghiere. Uscito su supporto fisico il 29 settembre per Tŭk Music è l’ultimo lavoro della pianista Sade Mangiaracina. Per completezza d’informazione, in digitale trovate solo il primo volume, il secondo sarà disponibile tra pochi giorni, il 20 ottobre. 

In realtà strano non lo è affatto: l’atto del chiedere o del ringraziare un essere soprannaturale è un gesto tanto intimo quanto globale e la musica, tra le arti, è quella che meglio definisce il rapporto con questo universo emozionale parallelo. Sade è riuscita in una non facile impresa: tradurre in quindici brani, altrettante tappe fondamentali della sua vita, del suo essere donna, artista, credente e madre. 

Due dischi, il primo universale, il secondo interiore, nel primo è accompagnata da Marco Bardoscia al contrabbasso e da Gianluca Brugnano alla batteria (formazione con cui ha pubblicato i due suoi album precedenti Le Mie Donne e Madiba), nel secondo da Luca Aquino alla tromba e Salvatore Maltana al contrabbasso. In entrambi i lavori come costante narrativa la presenza del Quartetto Alborada (Anton Berovski, Sonia Peana, Nico Ciricugno e Piero Salvatori). Continua a leggere

London Brew, omaggio alla fusion di Miles Davis

Vi ricordate Bitches Brew, l’album di Miles Davis uscito il 30 marzo del 1970 che sancì ufficialmente l’incontro più creativo, entusiasta e sperimentale del jazz con il rock? In quel doppio LP incredibile Davis riunì Wayne Shorter, Bennie Maupin, John McLaughlin, Chick Corea, Joe Zawinul, Dave Holland, Harvey Brooks, Jack DeJonhette, Lenny White, Don Alias, Juma Santos, Airto Moreira, Larry Young per una session di tre giorni di musica libera da schemi prestabiliti.  Continua a leggere

Buon 2023, che sia un anno di musica

Ci stiamo lasciando alle spalle un anno difficile, dove, al di fuori della musica, si sono concatenati molti avvenimenti che hanno (stanno) condizionando il nostro vivere. E la musica, così capace di annusare il mondo, seguirà sicuramente le traiettorie delle Mongolfiere, quelle cantate da Gianmaria Testa: cercherà quelle tracce impercettibili che solo un artista può fare nella sua lucida creatività. Continua a leggere

Eurovison 2022: Europa in musica e cultura massificata

Stasera spegnerà le sue mille luci Eurovision Song Contest, il Sanremo d’Europa. Essendomi imposto di ascoltare tutte le canzoni in concorso, ascoltate nude, senza il corollario di tori roteanti, lucine, sfavilliii, ho avuto più e più attimi di sconforto. Lo confesso.

Nulla contro lo spettacolo in sé, uno storico festival della canzone famoso nel mondo. Nato nel 1956 per presentare, sull’onda di Sanremo, la tradizione musicale e canora d’Europa, è stato un modo per contribuire ad avvicinare i Paesi riconciliati, la musica e le culture in essa espresse potevano diventare uno dei collanti per costruire una nuova Europa, possibilmente unita. Con gli anni il senso è cambiato ed è diventato un evento, un grande spettacolo mondiale, Insomma, una macchina da soldi.

Ho ascoltato le canzoni “nude”, dicevo. Delle peculiarità dei singoli Paesi, a parte qualche accenno di ritmo o qualche strumento tradizionale inserito per titillare la memoria dell’ascoltatore, il resto è un pop light, dove s’è attinto a piene mani impastando rock, popmusic anni Ottanta e Novanta, echi di acid jazz, pizzichi di funk e frammenti di Morricone q.b. Un piatto ben servito!

Qualche esempio? Gli sloveni LPS con Disco, sono un’imitazione imbarazzante dei Jamiroquai… la svedese Cornelia Jackobs in Hold Me Closer richiama sostanziosamente la Lady Gaga di Shallow. I Cechi We Are Domi in Lights Off ricordano tanto il pop sbarazzino di Ariana Grande

E se la lituana Monika Liu con Sentimental fa tornare alla mente la brava Caro Emerald, con un pezzo ben assemblato, il tedesco Malik Harris in Rockstars si allinea alle tante ballad cantate e rappate con crescendo alla Eminem (non è il solo…). Continuo: l’inglese Sam Ryder, con Space Man, oltre a portare lo stesso nome, assomiglia, all’inizio del brano, terribilmente a Sam Smith, per cambiare progressivamente e trasformarsi in Freddie Mercury, in uno dei classici crescendo alla Queen… E ancora: l’estone Stefan con Hope, fa il verso al grande Ennio Morricone con tanto di cori, chitarre western e fischio: cosa non si fa… Per un Pugno di dollari.

Capitolo a parte per gli ucraini Kalush con il brano Stefania. È un classico rap con rimembranze local, cori inclusi. Sono ucraini, inevitabile che stiano funzionando da catalizzatore, un simbolo di quanto sta succedendo oggi in quel Paese. Vien da sorridere, se non ci fossero di mezzo distruzione e morte. Siamo a quasi tre mesi di guerra scatenata dalla Russia e alimentata dall’America con lo scopo di “aiutare”… Una guerra dove chi deve guadagnare, guadagna e chi deve morire, muore, senza imbarazzi. Li danno per favoriti, anche se la musica, credo, c’entrerà poco nelle scelte dei votanti.

C’è da tener d’occhio anche il Portogallo con Maro e la sua Saudade Saudade, e Mahmood & Blanco (nell’ascolto generale devo ricredermi sul loro brano, nettamente una spanna sopra). Un solo rammarico, ovviamente per il sottoscritto: l’eliminazione dei georgiani Circus Mircus con il brano Lock Me In, un funk rock con accenni beat anni Sessanta, ben suonato. Allegri, spavaldi, teatranti, lo specchio della Georgia, terra aperta e accogliente da sempre.

Concludo: vinceranno probabilmente i Kalush e mi starà bene, l’attenzione del mondo è lì. D’altronde quello dell’Eurovision è un festival fatto per stupire con effetti speciali, ricchi premi e cotillon, come diceva Renzo Arbore a L’Altra Domenica. Ma anche per riflettere, a gentil volo d’angelo, sui problemi e sulle battaglie sociali. Tutto all’acqua di rose: lo show deve andare avanti, divertire, commuovere, con un pizzico di tristezza e uno di verità. Ricetta sperimentata non si cambia. 

Dieci dischi degni di nota del 2021 – Seconda parte

Eccovi serviti gli altri cinque dischi degni di nota dell’anno appena trascorso. Come vedrete, troverete alcuni grandi nomi, graditi ritorni, ma anche una trombettista australiana decisamente “superior” e un pianista (italiano) che ha composto uno degli album più interessanti dei tanti ascoltati, per pianoforte, del 2021. Spero di farvi cosa gradita. Mettetevi comodi e cuffie pronte…

La Linea Del Vento – Alessandro Deledda – 30 aprile 2021

Perugino di nascita e formazione ma sardo d’origine, Alessandro Deledda ha composto e prodotto la sua Linea del Vento. Un vento che spira e porta al mare, a una barca che gonfia le vele e va dove la musica e i pensieri hanno deciso di spingersi. Alessandro l’ho intervistato nel giugno dello scorso anno dopo aver ascoltato il suo intenso viaggio nell’oceano della sua memoria. Un album scritto di getto, una sessione di un pomeriggio trascinato in sala di registrazione dal suo fonico con al scusa di provare nuovi microfoni. Il risultato, dopo ore e ore di composizione ininterrotta, è questo album che lui, in modo molto poetico ma anche pratico ha battezzato, appunto, La Linea del Vento. Di formazione classica («la classica è il Pin della musica», mi disse), nelle sue composizioni si trova jazz, rock (è da sempre un appassionato dei Metallica, dei Pink Floyd, dei Depeche Mode), musica elettronica con cui si diletta in un progetto parallelo, dunque, una fusion sistematica. Così mi ha descritto l’album: «Madreterra è una dedica alla mia terra d’origine, la Sardegna (le mie origini sono a Pattada), Ginevra, invece è una cagnolina che ho adottato. Come Charlie Was Here, brano dedicato al mio vecchio amico a quattrozampe che non c’è più. L’ultimo brano del disco, quello più “jazz”, Have You Met Mr. Pongo?, è nato pensando all’altro cane che ho, un trovatello pure lui. Amo gli animali, infatti, una parte del ricavato delle vendite del disco andrà a un’associazione animalista. Gino e l’Olivo, invece, è il ricordo di un anziano agricoltore. Insomma, quando ho suonato in quelle tre ore e mezza, ho davvero ripercorso i miei pensieri più profondi che ho associato a melodie. È la mia linea del vento…». 

Delta Kream – The Black Keys – 14 maggio 2021

Dan Auerbach e Patrick Carney, i The Black Keys, hanno deciso di ritornare al loro biberon musicale, rivedendo pezzi storici del Blues, brani di mostri sacri del genere, come il sommo R. L. Burnside (a proposito, il 25 giugno è uscito un disco roots molto interessante del nipote, Cedric Burnside, I Be Trying), di Junior Kimbrough o di Fred “Mississippi” McDowell, trasformandoli in brani con incursioni rock. Il risultato è un disco che mi è piaciuto perché è un onesto omaggio al genere che ha contribuito non poco a farli diventare famosi, impreziosito dalla chitarra slide (onnipresente) di Kenny Brown e dal basso di Eric Deaton. Molti si sono domandati se fare un disco con brani capisaldi del Blues non fosse un po’ troppo pretenzioso, visto che, ad esempio, per Poor Boy a Long Way From Home di Burnside, ci sono versioni strepitose, una per tutte quella di Howlin’ Wolf, come ha fatto giustamente notare Rolling Stone Usa. I due – diventati per l’occasione quattro – ci sanno fare. È il loro punto di vista, la loro interpretazione, il loro omaggio. Ed è per questo che vanno presi e ascoltati. Anche perché, vale ripeterlo, il lavoro “di fino” che fa Kenny Brown merita da solo l’acquisto dell’album: basti mettere in cuffia Going Down South: il chitarrista con bottleneck all’anulare viaggia in perfetta sintonia con la voce sottile di Dan Auerbach. Musica da strada, sotto il sole, dovunque voi siate…

Portas – Marisa Monte – 2 luglio 2021

Marisa Monte la seguo da sempre, è una delle voci brasiliane inconfondibili, un’artista che ha tante cose da dire e mai banali, una musicista completa che compone, arrangia, produce. Uno spirito libero perennemente impegnato. All’uscita di Portas l’ho intervistata. Io me ne stavo sotto i quaranta gradi del Salento lei nella sua “invernale” Rio de Janeiro… Se avete voglia di leggerla andate a questo link. Da quella lunga chiacchierata, mi rubo alcuni passi che ho scritto allora… Un album composto da 16 tracce, un racconto, per chi la conosce, che ha del cinematografico. Sedici brani che catturano, conquistano, raccontano storie. In Portas c’è amore, romanticismo, passione, tristezza, allegria, speranza, futuro. Se dovessi fare un paragone, è come vedersi un film alla La La Land. Basta ascoltare Portas, brano che dà il titolo all’album, per capire quale sia la direzione del nuovo lavoro della Monte. Qual é a melhor?/ Não importa qual/ Não é tudo igual/ Mas todas dão em algum lugar/ E não tem que ser uma única/ Todas servem pra sair ou para entrar/ É melhor abrir para ventilar/ Esse corredor… Qual è la porta migliore? si chiede. La risposta arriva subito dopo: non ha importanza quale sia, non è tutto uguale. Ma tutte le porte aprono in un qualche posto. E, non necessariamente deve essere una porta sola, tutte servono per uscire e per entrare. È comunque meglio aprire per far cambiare aria a questo corridoio… Metafora dei tempi correnti. Se volete entrare nel samba, pieno, soffice e sostanzioso, con la collaborazione di Pretinho da Serrinha, ascoltatevi Elegante Amanhecer, brano dedicato alla Portela, scuola di samba carioca, di cui Marisa è sostenitrice, tra cavaquinho, cuica e surdo: Foi lindo de ver a Portela/ O sol raiando/ Elegante amanhecer/ Seu canto ecoou na passarela/ Auê auê salve o samba, salve ela… Tante le collaborazioni che Marisa ha voluto nel disco, da Arto Lindsay ad Arnaldo Antunes, l’ex Titãs, con  lui e Carlinhos Brown hanno creato i Tribalistas… Per proseguire con il bassista Dadi Carvalho o il polistrumentista Marcelo Camelo dei Los Hermanos. Ah, c’è Anche il mago Arthur Verocai che ha arrangiato i brani assieme ad Antônio Neves e Camelo. Il Brasile che mi piace…

Gullfoss – Nadje Noordhuis – 21 settembre 2021

Gullfoss è l’ultimo lavoro di Nadje Noordhuis. Australiana, 41 anni, da molti anni a New York, suona la tromba e il flicorno. Quello che riesce a ottenere è un suono pieno, caldo, struggente e anche… estremamente rilassante. Il disco è uscito in cd il 21 settembre, ma in vinile è stato pubblicato a tiratura limitata nel 2019, ed è la registrazione di un live suonato dalla Noordhuis nel 2018 al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera, accompagnata dall’arpista Maeve Gilchrist che, per inciso, è stata per un periodo anche sua coinquilina a New York, il chitarrista Jesse Lewis e il bassista Ike Sturm più i tappeti sonori con i sintetizzatori, la batteria e le percussioni di James Shipp, polistrumentista che ha suonato anche con Sting. Insieme fanno il Nadje Noordhuis Quintet, un gruppo affiatato che riesce a trasmettere sensazioni non scontate, in un lavoro ispirato alla Natura e alle sue molteplici forme d’espressione. A tratti ricordano gli islandesi Sigur Rós, per poi aprirsi in atmosfere alla Pat Metheny. Ascoltatevi Indian Pacific, un arpeggio continuo e fluido come le onde del mare di Maeve Gilchrist e della chitarra di Jesse Lewis che fa da base a una struggente melodia che riporta all’emisfero d’origine della Noordhuis. In Silverpoint, altro brano parecchio interessante, la musicista riesce a fondere pattern elettronici con una chitarra che, nel finale, assume toni decisamente rock. Gullfoss, la composizione che dà il titolo all’album e che richiama la famosa cascata islandese, è l’ultimo “messaggio”: attacca con il basso a cinque corde di Ike Sturm, martellante, per poi portarci in un mondo fatto di magici momenti. Un lungo viaggio di emozioni…

Live from Blackalachia – Moses Sumney – 10 dicembre 2021

Che dire di Moses Sumney? È uno dei miei artisti preferiti, un innovatore, un visionario, uno che usa e fonde l’elettronica, la sperimentazione sonora (con quella voce che si ritrova!), il rock, il jazz… in altri tempi sarebbe stato definito un situazionista. Infatti, in questo live “solitario” senza pubblico, registrato nel 2020 in piena pandemia sui monti Appalachi nel North Carolina assieme ad altri musicisti compagni di viaggio, vicino alla città dove vive, Moses ha costruito un ambiente ideale per dare vita a un film (da lui diretto) e a un concerto che racchiude brani dagli album Aromanticism e Grae, per fondere Space, Nation Race, Place come canta lui stesso. Un nuovo ambiente, Blackalachia, dove poter “abitare” le arti, la natura e la tecnologia, ricostruito nella testa dell’artista e dato in visione via We Transfer al mondo per trasmettere il verbo. Il disco, che riporta le 14 tracce del live, è una summa dell’arte di Sumney, musicista, regista, creativo, mago che canta sospeso al tramonto, mentre il sole si nasconde dietro i monti e lui dondola nel vuoto interpretando Plastic, uno dei suoi brani più intensi. Tra i quattordici proposti, c’è anche Polly, l’ultima canzone del disco, a cui sono particolarmente affezionato e che trovo bellissima, fatta quasi a scomposizione di bossanova, il riassunto dell’arte scarna ma allo stesso tempo densa di Moses… Album da ascoltare e da meditare!

Dieci dischi degni di nota del 2021 – Prima parte

Il 2021 s’è chiuso da pochi giorni. Un anno in musica che, dal mio piccolo osservatorio, ha rivelato molti lavori di buona qualità. In tutti i generi, dal rock al jazz all’alternativa, classificazione usata per dire tutto e niente. Mi sono esercitato in una mia personale classifica dei dieci album che che mi sono piaciuti di più. L’ho stilata in base ai miei gusti, alle mie aspettative, alle mie sensazioni ed emozioni. Di dischi ne ho ascoltati centinaia, molti mi hanno annoiato a morte ma altri mi hanno catturato. Questi dieci sono quelli che ascolto con rinnovato piacere quando lavoro, leggo, mi rilasso. Praticamente tutti li ho già pubblicati nel corso dell’anno, con un paio di artisti ho chiacchierato anche a lungo… Ve li propongo tutti e dieci in rigoroso ordine di pubblicazione, divisi in due post…Qui i primi cinque.

Per Aspera Ad Astra – Daniela Spalletta – 5 febbraio 2021

Daniela Spalletta, siciliana, 39 anni, è una delle voci più interessanti e complete del panorama jazzistico italiano e internazionale. Ha all’attivo tre album solisti D Birth (2015 – Alfa Music), Sikania (2017 – Jazzy Records) e Per Aspera Ad Astra (TRP Music) uscito a febbraio. Troppo poco conosciuta dal grande pubblico, e questo è una grande sfortuna per chi non l’ha mai ascoltata, visto che, con la voce che si ritrova, la Spalletta potrebbe cantare di tutto. Usa la voce come strumento, ma è una musicista che compone e arrangia e la riprova è proprio quest’ultimo lavoro, frutto della sua creatività e studio. C’è jazz, certo!, ma c’è anche world music, c’è classica e un brano che mi ha stregato, un ricordo di musica barocca rivisitata in Rosa, dove tecnica e passione si fondono “angelicamente”. Un lavoro dalla costruzione complessa, grazie anche ai musicisti che la accompagnano, persone che si conoscono da anni e che da anni suonano insieme. Dagli Urban Fabula (Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone – che ha suonato nell’album ma ha anche curato la direzione della TRP Studio Orchestra, l’orchestra d’archi, e ha prodotto il progetto con la Spalletta – al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria) al chitarrista sloveno Jani Moder, formatosi in quella straordinaria fucina che è il Berklee College of Music di Boston, a Riccardo Samperi, ingegnere del suono, che Daniela ha definito «il quinto uomo del quartetto». Approvato a pieni voti!

Carnage – Nick Cave & Warren Ellis – 25 febbraio 2021

Nick Cave & Warren Ellis. Con questi due artisti non poteva che uscire un lavoro di altissimo livello. Carnage, carneficina, è un disco che impatta, fa male, ti rigira senza troppa gentilezza. Scritto durante il lockdown, è un lavoro di pesante riflessione sulla solitudine arrivata con la pandemia, sul credere in qualcuno o qualcosa, su quello che siamo oggi, con l’inconfondibile voce baritonale di Nick e praterie di sintetizzatori made in Warren, piccoli interventi di chitarre elettriche secche come la solitudine, il pianoforte suonato da Nick che tesse melodie, in realtà, note di speranza. In Balcony Man, ultimo degli otto brani che compongono questo mosaico baritonale, profondo, essenziale, Nick canta: This morning is amazing and so are you/This morning is amazing and so are you/ This morning is amazing and so are you/ You are languid and lovely and lazy/ And what doesn’t kill you just makes you crazier. Quest’ultima frase è epica: «Ciò che non ti uccide ti rende solo più pazzo», una sintesi perfetta per due anni di pandemia. In Hand of God, «Hand of God /Coming from the Sky», primo brano, dopo un inizio “classico”, scarica sull’ascoltatore un ritmo ossessivo, profondo. Nella splendida Old Time, dove, per inciso, alla batteria c’è un altro storico “Bad Seeds”, Thomas Wydler, Nick canta: «I sogni di tutti sono morti, ovunque tu sia andata, tesoro, non sono così indietro». Tasselli che raccontano la solitudine ma anche la speranza di ritornare un giorno a una normalità. Pregno ed epico White Elephant, un chiaro riferimento all’estrema destra americana. Parte con un’elettronica alla Peter Gabriel anni Ottanta per finire in una sorta di gospel. Qui è il primatista bianco che minaccia di uccidere tutti, si sente dio, «Una Venere di Botticelli con il pene», ma anche «Una scultura di ghiaccio che si scioglie con il sole»…

Smiling With No Teeth – Genesis Owusu – 5 marzo 2021

Smiling With No Teeth è il primo album di questo ventitreenne nato in Ghana e cresciuto a Canberra (Australia), dove i suoi genitori lo portarono all’età di due anni. La famiglia è ritornata in Ghana, lui divide la sua vita tra i due Paesi. Il fratello maggiore è un rapper noto in Australia, Citizen Kay. Premessa necessaria: Genesis adora i manga giapponesi, i videogiochi e in genere le arti visive. E ancor di più ama alla follia le musiche dei videogiochi, oltre al funk, al punk, al rap e al pop. Queste sue passioni si riversano tutte nel disco che riassume un caos di generi dove Owusu si muove a suo agio, alimentandolo a dovere. Si sente la stessa fluidità di Prince nel fare musica… A partire dal primo brano, On The Move che introduce The Other Black Dog, è un crescendo di melodie e generi che stimolano e incuriosiscono. Ti invogliano ad andare avanti per questa strada apparentemente sconnessa – vedi Waitin’ on Ya – e divorare il disco fino all’ultimo brano, By By.

We Are – Jon Batiste – 19 marzo 2021

Jon Batiste, è un artista di New Orleans, famoso negli States per essere il direttore musicale del The Late Show condotto da Stephen Colbert. Il suo lavoro, We Are, è un album che trasmette energia allo stato puro, emozione, disperazione, commozione, pur conservando un grande rigore musicale nel mix stilistico. Un album “impegnato”, sull’onda del Black Lives Matter. C’è soul, pop, hip-hop, rap, R&B, con un pizzico di maestria jazz, ingredienti di un’insalata condita alla perfezione. Ascoltate We Are, il brano che apre il disco, cantata assieme alla St. Augustine High School Marching 100 e il Gospel Soul Children’s Choir di New Orleans, dove la parola “freedom” è una costante. Freedom è anche il titolo di un altro brano… In un crescendo la creativa sequenza di Batiste si sussegue a ritmo serrato, passando per Tell The Truth, un’intemerata alla Otis Redding e agli anni Sessanta, all’incontenibile I Need You, e così per tutti e 13 i brani, belli spessi.

Vulture Prince – Arroj Aftab – 23 aprile 2021

La voce di Arroj Aftab ti inchioda, la sua musica, contaminata da jazz, ritmi afrocubani, dal samba e, ovviamente dalle melodie tradizionali del suo Paese d’origine, il Pakistan, è la dimostrazione di come le culture si possano fondere armoniosamente e far nascere qualcosa di nuovo e importante. Dopo Bird Under Water, primo disco uscito nel 2014 – ascoltate la ninnananna Lullaby – Sirene Islands, del 2018, quattro brani per 48 minuti e 15 secondi di ascolto, pura elettronica, musica meditativa – qui Ovid’s Metamorphoses – ecco Vulture Prince, un disco che doveva essere la naturale continuazione del precedente Sirene Islands, con un ritorno, però, all’uso di strumenti quali la chitarra, l’arpa, i violini, nella quasi totale assenza di percussioni, un forte richiamo alla musica urdu, un neo-sufi con influenze jazz, folk, persino reggae. Il tutto suona non come una semplice contaminazione di generi, ma con uno studio attento e rispettoso della musica da cui Arooj ha attinto. Doveva essere anche un disco più “sostenuto”, come lei stessa ha avuto modo di spiegare in un’intervista a NPR, emittente radiofonica americana, con iniezioni di Afrobeat, poi, una tragedia familiare, la morte di Maher, il fratello più giovane a cui era molto unita, l’ha portata a fare scelte più rispettose del lutto che si era imposta. Ne è nato un lavoro di grandi emozioni. Da Diya Hay, brano per lei significativo, perché è l’ultima canzone che ha cantato al fratello, registrato con la brasiliana Badi Assan, alla sua personale versione del Mohabbat, un ghazal, poema tradizionale (famosissimo), che parla d’amore, ma anche di dolore per la perdita della persona amata, fino a Last Night, il testo è un poema di Rumi, il grande poeta persiano vissuto nel Duecento, che lei ha messo in musica (reggae) nel 2010 e che ha deciso di incidere in questo disco.

La storia di José Mauro, l’artista che ha vissuto due volte

Oggi vi voglio raccontare una storia. Che ha a che fare con la musica popolare brasiliana, quella del suo massimo splendore creativo, negli anni Sessanta/Settanta, la dittatura e una misteriosa scomparsa.

Il personaggio della nostra vicenda si chiama José Mauro, è nato a Rio de Janeiro. Ha pubblicato, ventenne, due dischi (Obnoxious e A Viagem das Horas, il primo nel 1970, il secondo nel 1976) registrati in un’unica sessione nel 1970, negli studi di Roberto Quartin, produttore e arrangiatore che lavorò anche con Frank Sinatra e che, con la sua label omonima, fece conoscere al mondo grandi nomi della musica brasiliana, da Baden Powell e Deodato al Quarteto em Cy, da Moacir Santos a Nara Leão. Quartin è morto nel 2004, ad appena 62 anni, per un infarto.

Torniamo al 1970: esce Obnoxious, undici tracce scritte assieme ad Ana Maria Bahiana, giovane appassionata di musica e giornalismo (che poi diventerà il suo lavoro, vive da anni a Los Angeles), con le orchestrazioni straordinarie di Lindolfo Gaya e personaggi della scena musicale carioca di tutto rispetto, come il sassofonista Paulo Moura (uno dei protagonisti del film Brasileirinho di Mika Kaurismäki, del 2005, dedicato allo Choro carioca) e il batterista Wilson das Neves.

Il disco, uscito nel pieno vigore dell’AI-5, l’Ato Institucional numero 5, il momento peggiore della dittatura brasiliana, portava quel titolo che poteva avere molti significati e legami con la situazione del Brasile di allora. Sia in portoghese, obnoxio, sia in inglese, obnoxious, significa insopportabile, detestabile. L’album non ebbe un gran successo nell’immediato. Eppure era un gran bel lavoro, da vera avanguardia, composto da un giovane di talento, musica molto curata e complessa, con testi altrettanto intensi di Ana Maria Bahiana e, dunque, in teoria, passibili delle reazioni feroci e violente di una dittatura ossessionata e priva di cultura.

La voce baritonale, rassicurante, di Mauro veniva ricamata dai controcanti angelici di Ana Maria, con continui riferimenti a un mondo spirituale che si muoveva tra sincretismo e cattolicesimo. La ragione del suo mancato successo, probabilmente, sta nel fatto che il disco non fu promosso a sufficienza e tantomeno distribuito. Insomma, un gioiello chiuso nel cassetto.

Di Obnoxious se ne tornerà a parlare nel 2016, grazie a un’etichetta inglese, la Far Out Recordings di Joe Davis, dj e produttore patito da sempre di musica brasiliana, uno dei massimi esperti del genere nel Regno Unito, che, rilevati i titoli di Quartin, lo ripubblica. Come era successo negli anni Novanta con nomi di spicco della musica d’avanguardia brasiliana dello stesso periodo, per esempio gli Azymüth (ascoltateli, qui in Despertar) Marcos Valle (qui con Não Tem Nada Não), Banda Black Rio (eccoli con Maria Fumaça), Arthur Verocai (un grande! Qui Na Boca do Sol), Joyce (qui con Passarinho Urbano), anche Mauro con Obnoxious era entrato nel culto di collezionisti, rapper americani e dj inglesi, che usavano questo bendidìo come basi per rappare e far ballare nelle discoteche. Quelle musiche tra samba, jazz, folk, accordi difficilissimi, sonorità “tropicali” attiravano e incantavano.

E qui iniziano i problemi: bisognava pagare i diritti d’uso dei brani, ma José Mauro dov’era finito? Qualcuno era riuscito ad avere un numero di telefono, a cui non rispondeva mai nessuno. Da anni circolavano strane voci sull’artista sparito misteriosamente, anche perché, come avevano fatto molti suoi colleghi – vedi Gilberto Gil o Caetano Veloso – in quei tempi duri, José non aveva scelto l’esilio, decidendo di rimanere a Rio. Saltò fuori una storia, che prese piede: era morto in un incidente di moto. E poi un’altra: probabilmente era stato fatto sparire dagli sgherri della dittatura… Altri sostenevano che, povero, vivesse in una favela di Rio…

Nulla di tutto questo: Mauro, semplicemente disilluso dal fatto che i suoi dischi non erano stati sufficientemente spinti, s’era ritirato in silenzio, scomparendo come un eremita, dedicandosi sempre alla musica, scrivendo colonne sonore per pièce teatrali, e, soprattutto, votandosi all’insegnamento della sua amata chitarra. Che ha dovuto abbandonare negli ultimi anni perché malato di Parkinson. Quando ha saputo di tutto il clamore, l’artista, settantaduenne che vive a Vargem Pequena, quartiere nella parte occidentale di Rio, ha scritto un whatsapp smentendo le dicerie e dicendo che stava vivendo la sua vita tranquilla e tutto questo clamore lo stupiva.

Quanto alla sua scomparsa dal circuito musicale, l’artista, via mail (come scrive Bandacamp) chiarisce lapidario: «Non sono scomparso. Il mondo mi ha fatto sparire». Grazie a Joe Davis e alla sua Far Out recordings il mondo dovrà ricredersi su quel piccoletto, schivo, con il volto rotondo che abitava in una stanza vicino al Jardim Botânico: il 28 maggio, prossima settimana, verrà ripubblicato A Viagem das Horasalbum che Davis scoprì per caso nel 1986 in un negozio di dischi usati a Rio. Uscirà come avrebbe dovuto essere all’origine, con tre brani che nel ’76 non furono inclusi, Rua Dois, Moenda e Variação Sobre Um Antigo Tema.

Dopo 50 anni José Mauro e la sua musica stanno per ricevere il meritato riconoscimento. Giustizia artistica verrà fatta. La storia di questo musicista brasiliano, schivo, con un carattere non facile, geniale, assomiglia molto a un’altra vissuta a 8mila chilometri di distanza a nord di Rio, negli Stati Uniti, a Detroit. È quella di Sixto Rodriguez, cantastorie folk che incise nel 1970 e nel 1971 due begli album, Cold Fact e Coming From Reality, ma che in America non ebbe fortuna.

Nella sua vita, oltre al musicista, Rodriguez ha fatto il muratore e s’è impegnato per migliorare la vita dei lavoratori di una delle città più difficili e dure degli States. Non sapeva, Sixto, che in Australia, Nuova Zelanda ma soprattutto in Sudafrica, era un idolo, più famoso di Bob Dylan, e che i suoi testi erano considerati inni durante lotta contro l’apartheid. Per caso la figlia del musicista si imbattè in internet in un sito dedicato al padre e scoprì quanto fosse amato e venerato. Malik Bendjelloul, giornalista e regista svedese, ci fece un film, Searching For Sugar Man, che vinse l’Oscar nel 2013. La vita di Sixto cambiò più o meno all’età attuale di Mauro. Sulle note di I Wonder vi lascio e vi auguro un buon fine settimana.

Fleetwood Mac and Friends: è on line “Albatross”

Il prossimo 30 aprile uscirà un disco “imponente” per chi ama il rock anni Sessanta e Settanta. La storia in musica dei primi Fleetwood Mac con il sommo Peter Green: Mick Fleetwood and Friends Celebrate The Music Of Peter Green And The Early Fleetwood Mac (Live from The London Palladium).

Il disco è la registrazione di un concerto che si è tenuto il 25 febbraio 2020, pochi giorni prima che il Covid si impossessasse del mondo, con un sold out di biglietti e un parterre di musicisti sul palco da far venire la pelle d’oca: Neil Finn, Noel Gallagher, Billy Gibbons, David Gilmour, Kirk Hammett, John Maya, Christine McVie, Jermey Spencer, Zack Starkey, Pete Townshend, Steven Tayler, Bill Wyman, oltre a Mick Fleetwood, Dave Bronze, Jonny Lang, Andy Fairweather Low, Ricky Peterson e Rick Vito.

Ieri è stato rilasciato il terzo brano (e video) del concerto, dopo The Green Manalishi (With The Two Prong Crown) cantata e suonata da Billy Gibbons dei ZZ Top e Kirk Hammett, chitarrista dei Metallica (pubblicata in anteprima nel dicembre del 2020) e Rattlesnake Shake, cantata da un ispirato Steven Tayler, rilasciata il 25 febbraio di quest’anno. Si tratta di un pezzo strumentale del 1968 che, se non riassume, di certo identifica, la band britannica e Green: Albatross, suonato da David Gilmour sulla lap steel guitar, con un effetto ancora più meditabondo e carico d’emozione, postpsichedelico. Peter Green non c’era sul palco quel 25 febbraio. Il 26 luglio morirà nel sonno a 73 anni. Un motivo in più per rendere omaggio a un grande del rock e del blues.

Il 24 aprile, via nugs, verrà trasmesso l’intero concerto in streaming, mentre il 30 sarà disponibile sulle piattaforme digitali e nei negozi il disco live.

Astor Piazzolla, oggi il centenario della nascita

Giusto cento anni fa nasceva a Mar de Plata (Argentina) Astor Piazzolla, il musicista che ha trasformato il tango, rendendolo oltre alla danza, una musica complessa, ricca di sfumature, figlia delle sue esperienze. Figlio di italiani (il padre Vicente era originario di Trani, la madre Assunta di Massa Sassorosso, borgo toscano in Garfagnana), Astor studiò musica a New York dove la famiglia si trasferì quando lui aveva appena tre anni. Nella Grande Mela, dopo gli studi classici, fu catturato dalla libertà contagiosa ed espressiva del jazz. Il suo strumento era il bandoneón, quella strana fisarmonica importata in Argentina a metà Ottocento da un  tedesco che è diventata l’anima di un’orchestra di tango. Narrano le cronache che, ad appena 12 anni, incontrò il re del tango dei primi anni del Novecento, Carlos Gardel, che lo volle al suo fianco in una tournée. Era il 1934. Il padre Vicente, probabilmente intimorito per l’a giovane età, non glielo permise. Gardel morì l’anno successivo a Medellin in Colombia.

Ma torniamo alla musica di Piazzolla: con lui, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, il tango da musica romantica alla Gardel, appunto, diventa più ritmico, complesso. Piazzolla introduce chitarre elettriche, i primi sintetizzatori, suonati dal figlio Daniel nel periodo dell’Octeto Electronico, formazione che durò appena quattro anni. Per questo si attirò le ire dei conservatori del tango e persino da Borges che lasciò sdegnato la sala durante un suo concerto. Ma lui credeva nella sua musica. Non a caso le contaminazioni con il jazz con il mitico sassofonista Gerry Mulligan o il vibrafonista Gary Burton diedero vita a quel tango nuevo di gran successo negli States e in Europa ma non nel suo Paese. Ascoltatevi Close Your Eyes and Listen con Gerry Mulligan, alla batteria il nostro grande Tullio De Piscopo, brano del 1974, dall’album Summit, o Vipraphonissimo dall’album The New Tango registrato dal vivo nell’88 al Mountreux Jazz Festival.

Dei tanti lavori prodotti in vita (poi sono usciti un sacco di dischi postumi… e qui sapete come la penso, una sorta di “esplorazione” di artisti che non avevano, per ovvie ragioni, più motivo decisionale su brani, sequenze, arrangiamenti) c’è Adiòs Nonino (1969), Libertango (1974), Tango: Zero Hour (1988), quest’ultimo l’album preferito dallo stesso musicista… Astor scrisse anche colonne sonore: per Sur di Fernando Solanas con la mitica canzone Vuelvo al Sur, le parole (qui sotto) sono dello stesso Solanas, brano interpretato anche da uno strepitoso Caetano Veloso. Per il film Solanas vinse la miglior regia al quarantunesimo Festival di Cannes. Compose anche le musiche per l’Enrico IV di Marco Bellocchio (1984).

Vuelvo al Sur, como se vuelve siempre al amor

vuelvo a vos con mi deseo, con mi temor

Llego al Sur como un destino del corazón

soy del Sur como los aires del bandoneón

Sueño el Sur, inmensa luna, cielo al revés

busco el Sur el tiempo abierto, y su después.

Quiero el Sur, su buena gente, su dignidad,

siento el Sur, como tu cuerpo en la intimidad.

Vuelvo al Sur, llego al sur te quiero

Dunque, se volete approfondire il tema, oggi a Trani, città d’origine dei Piazzolla, ci sarà un collegamento con Mar de Plata, per ricordare il grande bandeonista e artista. Diretta streaming alle 14 sulle pagine Facebook Festival del Tango Trani del Centenario Piazzolla e sulla pagina ufficiale della Città di Trani. Ovviamente, festeggiamenti anche a Massa Sassorosso in Garfagnana con l’arrivo dei consoli e dell’ambasciatore argentino in Italia.

Auguri a David Gilmour, 75 anni!

Marzo è un mese di ricorrenze per i Pink Floyd. Oggi David Gilmour, il mitico chitarrista della band, festeggia i suoi magnifici 75 anni. Per chi non lo avesse ancora visto, andatevi a cercare il docufilm del 2015 David Gilmour: Wider Horizons, un intimo ritratto del Gilmour artista, della sua storia, della sua infinita passione per la musica…

Il primo di marzo del 1973, 48 anni fa, la band inglese pubblicava negli States, e dopo tre settimane nel Regno Unito, The Dark Side of the Moon, uno dei capolavori assoluti del rock, nono album in studio, 943 settimane di permanenza in classifica, oltre 50 milioni di copie vendute, rientrato nella Billboard Top 200 nel 2019, a 46 anni dall’uscita.

Lloyd Grossman, nella sua recensione di The Dark Side, scriveva nel 1973 su Rolling Stone: «Più che un album di canzoni appare come un singolo pezzo esteso, che sembra parlare della fugacità e della depravazione della vita umana, argomento non proprio tipico del rock». Unica critica, proprio per trovare il pelo nell’uovo, Grossman la rivolge proprio alla voce di Gilmour in The Great Gig in the Sky (traccia che chiudeva il primo lato del vinile) secondo lui troppo debole e spenta.

In realtà questo brano resta uno dei più famosi della band, grazie anche all’intervento di Clare Torry, vocalist chiamata da Alan Parsons, producer e tecnico del suono agli Abbey Road Studios di Londra, dove venne registrato l’album. Il suo assolo intrigante e forte, che sembrava provenire da un’altra dimensione, è impresso nella mente di intere generazioni. Come il sax di Dick Perry in Money e nella spettacolare Us and Them.

In marzo, rispettivamente il 21 del 1983 e il 28 del 1994 i Pink Floyd pubblicarono The Final Cut e The Division Bell. Quest’ultimo è l’album che in un certo modo ratifica la rottura con Roger Waters, avvenuta sette anni prima: qui Gilmour, Wright e Mason costruiscono un nuovo capitolo della storia musicale del gruppo, senza l’influenza del geniale bassista e compositore.

Comunque sia, per chi ne avesse voglia, tutti questi anniversari sono l’occasione per riascoltare nel fine settimana una band leggendaria. Una full immersion nella psichedelia di Gilmour e soci, al di là del tempo e dello spazio.