
Settimana scorsa è uscito What I Felt, album per piano solo preparato di Francesco Maria Mancarella. Chi legge Musicabile se lo ricorderà: nell’aprile dello scorso anno ho pubblicato una lunga intervista che potete rileggere qui, un occasione dell’uscita del suo Nord, disco registrato in Islanda lontano da tutto e da tutti, molto intenso.
What I Felt è un ulteriore passo avanti nella ricerca improvvisativa di una musica classica crossover di questo giovane pianista e compositore leccese. A differenza dell’altro lavoro qui Francesco ha deciso di lavorare a casa sua preparando un suo pianoforte per farlo ha impiegato un bel po’ di tempo e una buona quantità di feltri, diversi per spessore e composizione, che ha pazientemente applicato su tutte le corde del pianoforte.
Questo lavoro ha prodotto un piano perfettamente bilanciato in tutte le dinamiche, con un suono vellutato, bassi che sembrano corde di contrabbasso e acuti che assomigliano a quelli delle viole da gamba. Il titolo in inglese gioca sull’emozione, il sentire del cuore, e la parola feltro. Sette brani per 17 minuti d’ascolto, offerti all’ascoltatore come momento personale di riflessione. Un disco da ascoltare al buio per far viaggiare i pensieri…
Ho ascoltato il disco…
«Che ne pensi?»
È molto interessante, un condensato di armonia. Raccontami di questa tua nuova avventura…
«È un lavoro diverso rispetto agli altri che ho fatto per la tecnica di realizzazione: ho voluto rimanere nel mio studio, sistemare il pianoforte, trovare il suono che mi interessasse, ottenerlo e poi mettermi lì a comporre. L’ho fatto con tranquillità, quando mi veniva in mente qualcosa mi mettevo lì e suonavo, diciamo che è stata una continua improvvisazione. I brani che uscivano bene li prendevo e li sigillavo, sono quelli che ascolti sul disco, salvo ovviamente tutta la parte che c’è di post produzione».
Come lo definiresti?
«È un disco fatto “a istinto”, è il mio sentimento. Il titolo gioca sulla parola Felt, che in inglese è il passato del verbo feel ma anche la parola Feltro, quelli che ho inserito all’interno del pianoforte per ottenere un suono ovattato, caldo, morbido che tra l’altro si sposa benissimo con il mix poi della produzione».
Lo hai ammorbidito…
«È un pianoforte un po’ più “chiuso”, riesce così a essere più a fuoco, non disperdendo tutte le altre parti della composizione, che comunque sono fondamentali, tant’è che la strumentazione che sentiamo, i sintetizzatori e quant’altro sono realizzati con una piccola tastiera che si chiama MicroKorg XL, che avevo comprato 17 anni fa, e che ho usato per la prima volta all’interno di questo disco».

Curiosità: con quale criterio hai utilizzato i feltri? Sono tutti dello stesso spessore?
«Sono diversi per i tre registri, il pianoforte a coda è diviso in tre zone, gli alti, i medi e i bassi. Per questi ultimi ho utilizzato un feltro più spesso e più grosso perché volevo che quella parte si sentisse un po’ di meno. Nella parte centrale, invece, ho fatto diverse prove. Mentre impazzivo per trovare la profondità giusta, e quindi lo spessore perfetto, ho preso la pezza che si usa per proteggere i tasti del pianoforte, l’ho tagliata velocemente, l’ho messa e… ho trovato il suono che volevo, sistemandola poi meglio. Nella parte alta, visto che non volevo perdere tutte le risonanti, ho utilizzato un altro tipo di feltro che mi sono fatto dare da una fabbrica di pianoforti, lo stesso che si trova tra i tasti e la chiusura del pianoforte, ancora più sottile. Tra l’altro, il piano con il feltro, una volta che lo accordi, suona sempre accordato. Anche se poi si scorda un po, in realtà col feltro sembra sempre perfetto».
Poi hai microfonato lo strumento all’interno…
«Sì, con due microfoni particolari che ho comprato qualche anno fa, i Lauten LA125, sono molto caldi, non esasperano le parti alte, sono perfetti per il Kawai con cui ho suonato. Ciò incide molto sulla composizione, diciamo che è “buona la prima”, visto che è gran parte improvvisazione, nonostante questo non sia assolutamente un disco jazzistico. Però il tipo di approccio compositivo è lo stesso, ce l’ha già ci ha spiegato qualche anno fa Vincenzo Caporaletti nelle sue Teorie delle Musiche Audiotattili: ho posato le mani sul pianoforte e mi sono fatto trascinare dalle note. Qualche tempo fa, ascoltando una bellissima lezione all’università Roma Tre, ho scoperto che Mussorgsky utilizzava una tecnica similare per comporre, lui “buttava” le mani sul pianoforte cercando il suono direttamente dalla casualità del gesto pianistico. Tant’è che quando Debussy andò a incontrarlo, vedendolo comporre, ha capito come poteva conoscere cose totalmente lontane dalla sua idea compositiva, e lo stesso vale ad esempio per l’improvvisazione: quando sbaglio una nota, magari all’interno di quell’errore si può celare una porta da aprire che può portare un’innovazione».
Cosa stai preparando ora?
«Ho una bella novità, non l’abbiamo ancora pubblicizzata, ma c’è un nuovo pianoforte in cantiere che fa delle cose particolari simili al Pianoforte che dipinge (leggete l’intervista di cui vi parlavo, ndr) e che spero di portare nei prossimi concerti che saranno quelli in teatro a Bologna, Lecce e Napoli. Spero di fare questa sorpresa al pubblico: sicuramente rimarrà stupito!»