“Siamo entrati da turisti, siamo usciti con un disco”: l’esperienza al Sun Studio dei Sacromud

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Chiamatelo karma, o fortuna, o ancora, predestinazione. Sta di fatto che ritrovarsi da Gubbio a incidere un intero album nello Sun Studio, il tempio del Blues di Memphis fondato nel 1950 da Sam Phillips, dove ha suonato il gotha della musica di allora, da Albert King, a Elvis Presley, a Johnny Cash, Jerry Lee Lewis, Howlin’ Wolf, e più tardi anche gli U2 tanto per fare un po’ di nomi così, è una di quelle esperienze musicali e umane che ti cambiano la vita. 

È capitato ai Sacromud, band umbra capitanata dal chitarrista Maurizio Pugno, musicista di grande esperienza, arrangiatore, nonché cultore e fan assoluto di Albert King. Assieme con B.B. King e Freddie King, Albert completa la trimurti dei Re del Blues. Suonava una Gibson Flying V,  che aveva battezzato “Lucy”, una chitarra da destrimano usata senza invertire le corde: questo lo portava a fare bendings (tirate di corda) “al contrario”, dal basso verso l’alto, generando un suono molto personale e subito riconoscibile. Il suo modo di suonare ha influenzato miti della chitarra come Jimi Hendrix, Eric Clapton e Stevie Ray Vaughan.

Un viaggio che Maurizio e i Sacromud avevano preparato con cura approfittando del fatto che avevano vinto per l’Italia il posto all’International Blues Challenger, una specie di Olimpiadi del Blues che si svolge sulla leggendaria Beale Street, «dove le band di tutto il mondo partecipano a questa festa mondiale del Blues, del Soul, del R&B e della Black Music in generale», mi racconta Maurizio.  Sempre per quel benedetto karma, continua Maurizio, «il giorno prima eravamo al Paradise Gardens Cemetery di Edmondson, in Arkansas, a pochi chilometri da Memphis, per cercare la tomba di Albert King. Aveva nevicato e ho iniziato togliere la neve da una tomba per capire dove fosse sepolto. Ed era proprio quella». Il giorno dopo erano al Sun… da semplici visitatori ed è successo un altro miracolo…

Il risultato di questo viaggio così denso di emozioni è un disco, The Sun Experience, sette brani per 35 densi minuti di ascolto che giocano tra Blues, R&B, Funk, tra Hammond, il mitico piano Wurlitzer Spinet del 1949, una sessione fiati efficace quanto gli assoli di Maurizio, che ho chiamato per farmi raccontare la storia. Con lui c’era il cantante, Raffo Barbi

Passi la sfida Blues in rappresentanza per l’Italia, l’omaggio alla tomba di Albert King… ma al Sun come avete potuto registrare?
Maurizio. «Mesi prima avevo mandato alcune e-mail per poter incidere un paio di canzoni, ma nessuno mi aveva risposto. Una volta lì abbiamo scoperto che ci volevano otto mesi di prenotazione ma soprattutto che bisognava essere un artista sotto contratto Sun. A meno che uno non facesse un brano con un telefonino in “modalità turistica”, da mettere sui social, ma non era questa la nostra intenzione. Volevamo piuttosto generare un indotto da questa esperienza, eravamo andati giù con l’intento di realizzare un docufilm (che abbiamo fatto e che uscirà tra poco). Mentre eravamo in visita  nello studio praticamente come turisti, si gira il fonico della sala e chiede: “Ma la band italiana che voleva registrare è ancora qui a Memphis?”. “Certo, siamo noi,” gli abbiamo risposto. “Sareste disponibili domani dalle 17 alle 19?”. Abbiamo detto di sì, lui ci ha chiesto quante tracce volessimo registrare, io imbarazzato gli ho risposto un album e ho chiesto se potevamo anche filmare. Ha acconsentito e così abbiamo registrato e filmato tutte le sessions».

Quindi vi siete presentati il giorno dopo belli carichi?
Maurizio. «La notte mi sono risognato un po’ il sound di Memphis, i fiati che sono una mia vecchia passione e ci siamo detti, questa è una registrazione che non può passare come le altre, dobbiamo rimettere qualcosa in più, quindi abbiamo pensato a un arrangiamento per la sezione fiati. Il giorno dopo eravamo lì a registrare: cuffia, jack, amplificatori e via».
Raffo. «Anche perché poi l’atmosfera che respiri lì dentro ti condiziona e ti porta in un mondo un po’ diverso da quello a cui eravamo abituati, ad assaporare il passato, perché proprio lì tra quelle mura si percepisce una bella vibrazione: tutto è rimasto com’era un tempo. E poi venivamo da un susseguirsi di emozioni in un posto che non conoscevamo minimamente. Tutto ciò ha contribuito a creare questa questa bolla emotiva poi esplosa nel Sun».

Parlatemi un po’ di voi. Maurizio, tu sei partito suonando il sax…
(Scherza, ndr) «Corretto, lo dico sempre: suono la chitarra come se fosse una specie di sassofono orizzontale…».

Cosa vi ha avvicinato al Blues e al R&B?
Maurizio. «Siamo stati tutti condizionati dal Rock degli anni ’70. Da lì poi c’è stato un approccio diverso per ognuno di noi. A me è capitato che in una degenza ospedaliera durata un anno a Roma a causa di un incidente stradale avuto da bambino, mi fu regalata una cassetta, una TDK60, te le ricordi?, con dentro un vecchio brano, I play the Blues for you di Albert King, oltre a pezzi degli Steppenwolf, di Crosby, Stills, Nash & Young, di Neil Young da solo. Mi aveva colpito subito la canzone di King, ma poi tutto pensavo tranne di poter registrare cinquant’anni dopo lì dentro, calpestando la tomba di quell’artista che era stato per me determinante e che, in qualche modo, mi aveva aiutato a decodificare la sofferenza. Da lì è nata questa passione per il Blues. Poi le prime scarpinate in sacco a pelo a Pistoia hanno svoltato, insieme con i miei pochi amici dell’epoca abbiamo scoperto B.B. King e tutti gli artisti che venivano a Pistoia in quegli anni, Clarence “Gatemouth” Brown, Albert Collins o, ancora, James Cotton. È stato un cerchio che si è chiuso. Proprio sulla mia scrivania conservo un cofanetto della Sun Records, 10 vinili registrati tra il ’55 e il ’57 che ho trovato con fatica, avevo 21 anni, andando a Roma e ordinandolo alla Millerecords. Puoi immaginare in un piccolo centro medioevale cosa significasse trovare un vinile di blues, e adesso trovarmi in mano quelle foto e aver registrato con Raffo & Co. esattamente con gli strumenti posizionati nello stesso posto e poter utilizzarli – è questa la bellezza del Sun – tolti dal velo museale per farli rivivere ancora, è stato straordinario. Il pianista ha suonato il pianoforte usato da Jerry Lee Lewis con cui ha registrato Greats Balls of Fire, io la chitarra di Howlin’ Wolf, il batterista la batteria di Ringo Starr… la nostra è stata, consentimi il termine, una violenza contemporanea che ci ha riportato indietro in un back to the future».

State andando a suonare all’estero?
Maurizio. «Sì, siamo proprio alla vigilia di un tour che faremo in Olanda dal 25 settembre. Ora siamo in giro per l’Italia a promuovere il disco Sun e anche il nostro repertorio, in previsione di poter realizzare, nel 2026, un lavoro un po’ più politico, più arrabbiato, guardandoci intorno, quello che sta succedendo, mai tralasciando il contemporaneo perché, come ci diciamo spesso, le radici hanno senso se producono dei frutti, sennò rimangono fenomeni di setta e alla fine si asciugano, non servono a nessuno. Quello che vorremmo è cercare di far ripartire un piccolo ruscello che i più giovani possano poi navigare». 

Che cos’è secondo voi il Blues oggi? Ha ancora un senso proporlo?
Raffo. «Per quanto mi riguarda al Blues ci sono ritornato con un processo di risalita perché, partendo dal Rock, con quel tipo di bagaglio, o comunque da amatore di quella musica, via via sono andato a cercare di interpretare sempre di più quella vibrazione, grazie anche all’incontro con Maurizio. Comunque capisco che una discografia di un certo tipo in questo momento non è semplice per un qualsiasi ragazzo, mancano le conoscenze giuste per intercettare questa vibrazione. Da giovane il Blues un po’ mi annoiava perché ancora non avevo imparato l’alfabeto per capirlo, c’erano delle sovrastrutture, e adesso ce ne sono ancora di più. Vorrei che le nuove generazioni riuscissero in qualche modo a scavare, a togliere tutto il superfluo, per poter riappropriarsi di queste emozioni che sono alle radici della nostra esistenza. Altrimenti, che senso avrebbero delle persone come noi, nate a Gubbio, che suonano un genere che non gli appartiene per nascita o cultura? Noi continuiamo perché il Blues è il nostro bisogno più primitivo, ho cambiato la mia vita pur di suonare questa musica, non è facile capirla subito ma è un tesoro nascosto che va riscoperto…».
Maurizio. «Riallacciandomi alla tua domanda il valore del Blues è sociale, se lo individuiamo in quell’ambito ancora oggi riesce ad avere un senso, raccontando i demoni del quotidiano, l’esistenza problematica delle persone e lo fa con la potenza ritmica e sessuale che ha in sé. È lì che trovi ancora adesso la chiave, perché tutti hanno bisogno di raccontare o semplicemente di essere raccontati per quello che sono nel loro giorno dopo giorno. Se invece la vogliamo per forza stilizzare in genere musicale, a quel punto, secondo me, ha bisogno di essere contaminato per poterlo raccontare».

Il pubblico che avete in Italia è lo stesso per tipologia anche all’estero?
Maurizio. «In Italia ci sono alcune zone dove c’è molto interscambio culturale, penso ad alcuni circuiti underground milanesi per esempio, e qui vedi molti giovani. Nelle circuitazioni classiche, dove ancora in Italia si tende a fare il Blues Festival in modalità sacra, lì arriva un pubblico nostro coetaneo o più anziano, molto conservativo. All’estero invece trovi un po’ l’uno e un po’ l’altro mescolato insieme ed è questa la cosa affascinante. Un sessantenne e un ventenne possono stare allo stesso concerto per ascoltare della musica col puro scopo di divertirsi, senza per forza dargli un risvolto sociale oppure musicale».
Raffo. «Bisogna cercare di rendere il Blues fruibile anche da chi non ha un vocabolario “blues” o comunque si aspetta un genere classico, cercando contaminazioni con altri mondi, in modo da coinvolgere emotivamente le persone che ascoltano. Quando suoniamo dal vivo vediamo la reazione del pubblico, è uno scambio di energia che dal palco va alla gente che ascolta e ritorna al palco. La curiosità si genera anche con l’esperienza».

Insomma, il Fango Sacro da cui provenite!
Maurizio. «Esatto, il fango modella è qualcosa di plasmabile e dunque di modificabile, ma è lo stesso in cui mettiamo i piedi tutti i giorni, il fango della vita, quindi “sacro” nel senso laico. Il termine Sacromud ha anche un aneddoto personale: ho conosciuto Raffo che cantava nei locali dell’entroterra in acustico. Nella sua voce ho individuato un qualcosa che mi faceva vibrare. Un giorno gli ho detto: sotto tutto questo tuo fare un po’ aristocratico hai il “sacro fango”. Da lì è nato questo tormentone diventato poi il nostro nome».