Oggi esce su tutti gli scaffali, fisici e digitali, Let me Play, Let me Pray, il nuovo lavoro di Nico Morelli, pianista di Taranto da anni residente a Parigi. Di lui e della sua musica vi avevo parlato in un post uscito nel maggio di due anni fa. La casa discografica è la Tǔk Music, sempre attenta a proporre artisti mai banali né tantomeno scontati. Un disco in piano solo è un’arma a doppio taglio, così almeno la pensa lo stesso Morelli, momento importante per la carriera di un musicista ma anche piuttosto rischioso, visto che un intero album suonato sempre dallo stesso strumento può stancare l’ascoltatore.
Per evitare la noia Nico ha tirato fuori il meglio del suo sapere far arte: un lavoro di 56 minuti per 16 brani, inciso rigorosamente live, senza post produzioni, dove il protagonista è il pianoforte, in questo caso uno Steinway and Sons della serie D, a coda, con un suono potente, caldo e ricco di sfumature. Unito, però, a una loop station, una diamonica (strumento ad ance con tastiera), un tamburello e la cassa del piano usata come percussione. Oltre agli strumenti estemporanei che usa regolarmente durante i suoi concerti solisti, Morelli si è avvalso anche dell’aiuto di due sound designer che hanno modificato il suono in presa diretta, trasformando il pianoforte, come un camaleonte, in cascate di suoni eterei, chitarre elettriche, campanelle.
La traccia che apre l’album, Yaleekaawa, è la summa di questo approccio totalizzante al suono del pianoforte. Un inizio afro con diatonica, “batucada” sul bordo del pianoforte e sul tamburello e un attacco fulminante, pieno, armonico con lo Steinway porta immediatamente l’ascoltatore nel mondo musicale di Morelli, un viaggio avventuroso che si svela progressivamente negli altri brani, tra bop, ragtime, rock e rimembranze del Bill Evans romantico e intimista alla You Must Believe In Spring per intenderci (ascoltate la sua versione di un classico come Amazing Grace).
In questo percorso scandito da brani sapientemente incasellati con dei brevi intermezzi chiamati Transizioni, dove il pianista tarantino “collega” ambienti e ritmiche diverse, si passa da una accattivante versione di Every Little Things She Does is Magic dei Police, a un altro pezzo storico del Rock (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones a una fulminante Fou Time, composizione pazzerella che da un classico minuetto si trasforma in un ragtime e quindi in un assatanato be bop.
Ho chiamato Nico Morelli a Parigi per farmi raccontare la genesi di questo suo nuovo lavoro in solo.
Com’è nata la collaborazione con Tǔk Music di Paolo Fresu?
«Ho incontrato Paolo molti anni fa, nel ’94, quando ho registrato con lui un album non mio ma di un contrabbassista barese, Nico Catacchio. In quell’occasione nacque un feeling con lui. Da allora abbiamo fatto diversi concerti in duo, ne faremo un altro il 17 dicembre prossimo a Parigi. Ogni tre o quattro anni ci succede di risuonare insieme! Tempo fa parlavo con Paolo dell’idea di registrare un album. Lui mi ha proposto di farne uno in piano solo. Sono un bel po’ di anni che suono in piano solo, non lo faccio spesso, perché non è la formula che mi entusiasma di più. Per me la musica è principalmente divertimento e quando suono con gli altri musicisti è come se stessi giocando. Suonare da solo diventa inevitabilmente una cosa più seria. La proposta di Paolo mi ha intimorito, mi son visto piovere addosso questa responsabilità, ma allo stesso tempo mi ha esaltato, così ho accettato la sfida!».
È un disco intenso, 56 minuti d’ascolto suddiviso in 16 brani…
«Ho cominciato a costruire l’album lentamente. Alcuni brani ce li avevo già, per gli altri ci ho pensato su: volevo creare un album vario, perché – è la mia opinione – la mia paura è che un lavoro di solo piano risulti piatto. Lo dico perché quando ascolto anche altri pianisti, dai più grandi ai meno famosi, dopo venti minuti inizio a distrarmi, a perdere la concentrazione. Avere per un’ora sempre e solo lo stesso suono personalmente mi annoia».
Hai ragione, dopo un po’ ti cade la palpebra delle emozioni…
«Mi succede anche con Keith Jarrett, che è il mio massimo punto di riferimento. Starò dicendo un’eresia, ma è sono atto così!».
La lunghezza dei pezzi va dai sei minuti ai 56 secondi, un andamento vivace…
«Tutti i brani che cominciano con la T, T-RAg, T-Space, T-Funk, The Hipno, T-Flowers, T-Sky sono improvvisati in studio, sempre in collaborazione con il sound designer. Sono delle transizioni, mi diverto a suonare senza una struttura precisa in testa, a lasciare volutamente la musica estemporanea. In ogni caso non volevo fare composizioni troppo lunghe, per non annoiare l’ascoltatore e per variare le situazioni, creare tante immagini veloci senza rimanere troppo sullo stesso suono. Non è un piano solo classico, non c’è la ricerca di uno stile omogeneo. Ma questo è nel mio DNA, cerco di fare dischi sempre diversi tra loro».
Perciò hai chiamato hai chiamato il disco Let me Play, Pet me Pray?
«No, il titolo viene dal mio approccio alla musica. Per me è gioco ma è anche profondità, nel disco ci sono dei brani che sono molto intimi, mistici. Sono i due aspetti della mia personalità di musicista».
Hai scelto di aprire Let me Play, Pet me Pray con Yaleekaawa, brano che ha un attacco di piano da applausi. Perché?
«Nel disco ci sono brani di solo pianoforte, altri con effetti elettronici, altri ancora con la loop station, e pezzi, come appunto Yaleekaawa, dove percuoto il pianoforte, uso il tamburello, la diatonica, la voce. Yaleekaawa riassume un po’ tutto il lavoro contenuto nell’album».
Cosa significa Yaleekaawa?
«In lingua Ganda vuol dire “grido”. Ho scelto questa parola perché il pezzo, con la voce e il suo ritmo ossessivo mi ricorda melodie africane».
A proposito del tuo modo di suonare: effettistica ed elettronica non sono state aggiunte in post produzione, vero?
«Tutto quello che c’è nel disco, inclusa loop station ed effetti è stato eseguito dal vivo, non uso post-produzione, così faccio anche nei miei concerti. Non ha senso aggiungere dopo, perché così si perde l’essenza improvvisativa. In questo modo ho gestito la musica suonandola. Nei brani, ci sono riverberi, suoni che vengono aggiunti, cascate sonore, come in Amazing Grace, fatti tutti in tempo reale grazie a Emanuele Battisti, sound designer bravissimo: suonavamo insieme, lui era in sala mixer con le sue macchine, riceveva il suono del pianoforte mentre suonavo e me lo reinviava in cuffia trasformato in quei suoni che puoi ascoltare nel disco, permettendomi di interagire in tempo reale. È un lavoro che facciamo anche sul palco, quando posso invitarlo. Ed è bello perché cambia il suono del piano. C’è un brano addirittura (Fou Time, ndr) dove il pianoforte si trasforma in chitarra elettrica distorta. In questo caso non è Battisti ma un altro sound designer, il cileno Diego Baëza».
Torno ai titoli dei brani, oltre a Yaleekaawa ce n’è un altro dal nome curioso Bou Na Reed…
(Ride, ndr) «È un termine pugliese dialettale che vuol dire “abbastanza”. È un brano che ho scritto 30 anni fa ma che non avevo mai registrato».
Hai inciso il disco in uno studio di registrazione in Normandia…
«Sì, a Vernon-Giverny. Da Parigi ci metto una quarantina di minuti ad arrivare. Lo studio ha un pianoforte incredibile, uno Steinway and Sons con un suono fantastico. Ci sono stato più volte, anche perché c’è un fonico molto bravo, Luc Auberger, che si è entusiasmato a questo lavoro, nonostante per lui non sia stato semplice: per esempio, usando la loop station, in studio a volte si sentiva il rumore della pedaliera. Mascherarlo gli ha richiesto fatica, creatività ed esperienza».
Veniamo alla cover: quello che mi piace della Tǔk Music è la cura sartoriale che ci mette in tutto packaging incluso…
«L’ha creata Oscar “ODD” Diodoro. È centrata, oltre che bella: nell’album ci sono dei suoni “spaziali”, l’idea è quella di un astronauta che nel suo lungo viaggio nel cosmo li incontra e ne è attratto. E poi il cosmonauta si rivela essere uno scimpanzè (richiama anche il primo ominide lanciato nello spazio dagli americani nel 1961, ndr), per me un chiaro riferimento alla parte primordiale del divertimento».
Quando presenti il tuo nuovo disco?
«Lo farò il 30 ottobre al Les 2 Pianos a Parigi. Ci sarà anche Emanuele Battisti: per inciso, oltre che sound designer e anche un pianista. Nei concerti che faremo – spero di venire anche a Milano – cercheremo di preparare la sala mettendo gli speaker sia anteriormente sia posteriormente al pubblico, in modo da ottenere un ascolto immersivo».