Quando parli con il mitico Otto, al secolo Mauro Ottolini, classe 1972, scordatelo, non te la cavi con poco. Otto è una valanga creativa, inizia a raccontarti di un’idea che ha avuto e, mentre tu la stai ancora elaborando, lui è già in viaggio verso altre storie, sempre con quell’entusiasmo contagioso e positivo. Con Vanessa Tagliabue York ha appena pubblicato Nada Más Fuerte, disco registrato e mixato in presa diretta dal mitico Stefano Amerio, nel suo Artesuono Recording di Cavalicco (Udine). Quattordici brani con un tema conduttore: le grandi compositrici e interpreti della musica popolare di tutto il mondo. Ci sono le messicane Chavela Vargas e María Grever, la libanese Fairuz, la portoghese Amália Rodrigues, la peruviana Victoria Santa Cruz e via cantando.
Oltre a omaggiare la musica al femminile, il lavoro è anche un tributo alla musica d’insieme. Al settetto, che include, Mauro, Vanessa, Marco Bianchi alla chitarra, Thomas Sinigallia alla fisarmonica, Giulio Corini al contrabbasso, Paolo Mappa alla batteria e percussioni e Valerio Galla alle percussioni, è stata aggiunta la String Orchestra, un’orchestra d’archi composta da 14 musicisti (nove ai violini, tre alle viole e due ai violoncelli). Un disco corale che non prevede personalismi, arrangiato con creatività e talento, dove c’è posto per tutti. Vanessa fa da mattatrice con quella sua voce potente e versatile, sa muoversi con disinvoltura nei ritmi latini, canta in spagnolo, francese, italiano, portoghese e persino in arabo, sempre con solida sicurezza. E nel disco si sente, eccome se si sente!
D’altronde il percorso del trombonista veneto è coerente. Per la musica ha fatto e fa di tutto. Negli anni ha dato vita a un club, La domenica sotto i ponti, ha fondato un teatro, Il Teatro per una società senza pensieri, «dove non ho mai avuto un contributo da nessuno per un’iniziativa così grande. Bisognerebbe aiutare queste comunità», mi racconta. Da anni organizza in un teatro all’aperto, battezzato il Teatro degli Ulivi di Campo a Brenzone sul Garda una serie di concerti che ha chiamato Notti magiche a Campo, festival che richiama mille persone a sera», precisa orgoglioso.
In occasione dell’uscita del nuovo lavoro Otto ne ha pensata un’altra: l’audiomaglietta! «Tra pochi giorni sarà in vendita e sarà come indossare un cd», mi dice orgoglioso. Dunque, se ho ben capito: si tratta di una maglietta con stampato sul petto la cover del disco, un taschino sulla sinistra per riporre le cuffiette, sulle maniche i nomi degli artisti che hanno suonato, dietro tutti i bollini e marchi di legge e di fronte in basso a destra un QR Code dove passare lo smartphone «per poter ascoltare in alta qualità le canzoni. Ho aperto una pagina dove c’è solo questo disco, aborro le grandi piattaforme streaming, sono la rovina della musica. Da oggi», afferma, «il futuro della musica di Mauro Ottolini saranno le audiomagliette!».
Non vedo l’ora di “indossare la tua musica” Otto! Per ora ho ascoltato il cd, è un progetto davvero interessante…
«Sai che sono uno che va sempre a cercare le cose un po’ nascoste, perché è là che trovi il bello. Questi sono dei brano pazzeschi. Prendi Alma Mia, il primo pezzo. È una composizione di María Grever, compositrice messicana che ha scritto degli standard famosissimi. Devi sapere che lei è stata un’allieva di Debussy, e siamo a fine Ottocento. Parliamo di musiciste che hanno lasciato un segno importantissimo nella storia della musica: come Chavela Vargas, o Amália Rodrigues: la prima volta che l’ho ascoltata sono andato fuori di testa. Ma anche la peruviana Victoria Santa Cruz che ha fatto cose di gran spessore pur trattandosi di musica popolare, tradizionale, con una maturità compositiva di livello altissimo. Sono canzoni che ho conosciuto perché mi è capitato di suonarle almeno una volta nella vita. E ogni volta mi dicevo: “Ma quanto bello è ‘sto pezzo!”. Così le ho messe tutte in un cassettino pensando di farci, prima o poi, un disco. Ci sono riuscito! Ho aggiunto l’orchestra d’archi, le ho riarrangiate, dando loro una nuova dimensione».
Sono tutti brani scritti da musiciste?
«Si tratta di canzoni composte da musiciste o diventate famose grazie alle interpretazioni di grandi artiste. Per esempio, Luz de Luna, brano di Álvaro Carrillo, è stato portato alla ribalta da Chavela Vargas: lei la cantò anche nel film dedicato a Frida Kahlo, visto che era stata per un periodo la sua compagna di vita. Oppure Allah Kbir, scritta da Ziad Rahbani, grandissimo compositore libanese, cantata dalla conterranea Fairuz, di una bellezza sconcertante. Ho rifatto tutto l’arrangiamento, tenendo il brano nella sua struttura originale, aggiungendo però anche il jazz, improvvisazione, aperture… sono composizioni che si prestano tantissimo e che non hanno nulla da invidiare alla musica di Hoagy Carmichael, George Gershwin o Irving Berlin, compositori che hanno scritto canzoni diventate poi standard jazz. Si tratta sempre di brani popolari a cui tutti si sono ispirati, anche i compositori della classica, vedi Stravinskij o Berio. Quest’ultimo ha pubblicato un disco importante, Folk Songs, dove c’era un brano interessantissimo che si intitola Azerbaijan che lui ha riarrangiato, ma siccome non riuscivano a capire e a trovare le parole originali, la cantante e sua compagna di vita Cathy Berberian l’ha ricantata secondo i suoni che lei intercettava dall’audio, una registrazione approssimativa, in una lingua che non esiste. Lo ha dichiarato lo stesso Berio nei commenti del disco. Poi, invece, ci sono anche brani che ho scritto io con i testi di Vanessa Tagliabue York, dedicati ad alcune grandi voci. Chanson pour Edith Piaf, Canzone per Alda Merini, o La Reina de las Conchas, dedicata a questa ipotetica regina delle conchiglie, un omaggio alle conchiglie che suono da anni. Il disco si conclude con una canzone Mariachi, Callejón de un Solo Caño, su cui ci ho messo mano. Chi non ha preso da loro? Ti potrei fare mille esempi, Calexico, Vinicio Capossela, Paolo Conte… Insomma, è un disco che mi viene dal profondo del cuore!».
Non ne butti fuori uno all’anno, i tuoi lavori sono sempre molto pensati!
«Sì, prima di tutto scrivere e pubblicare un disco per me deve essere un’esperienza costruttiva, dove imparo qualcosa di nuovo, altrimenti non ha senso. Fare musica vuol dire imparare non dimostrare! In questo caso ho condiviso certi arrangiamenti degli archi con altri grandissimi arrangiatori, s’è lavorato a più mani avendo avuto l’occasione di confrontarmi con Zavattoni, che considero il più grande arrangiatore che abbiamo in Italia oggi, uno che ha scritto per Ray Charles, Amy Stuart, la Disney. Poi ci sono i miei musicisti, Thomas Sinigallia e Marco Bianchi, che sono bravissimi arrangiatori, ma anche Vanessa che ha messo i testi e arrangiato La Conga se va, di Ernesto Lecuana, pezzo di ricerca della Contradanza cubana, parliamo dell’Ottocento, che abbiamo fatto con le conchiglie, il risultato è completamente fuori di testa!».
A proposito, e la Turritella Ottolinii?
«Turritella Ottolinii è un brano di introduzione a La Conga se va, scritto apposta per conchiglie, che ho voluto fare perché… la Turritella Ottolinii esiste veramente! Qualche anno fa hanno scoperto una nuova conchiglia molto piccola a forma di trombetta, della famiglia delle Turritella. Tiziano Cossignani, direttore del Museo Malacologico di Cupra Marittima, il più grande museo al mondo di conchiglie, l’ha chiamata con il mio nome per omaggiare il mio lavoro ormai trentennale sulle conchiglie. Lei non suona ma porta fortuna come tutte le conchiglie!».
Che dire, hai fatto un gran bel lavoro!
«Alcuni mi hanno criticato dicendo che è poco sperimentale… Se scrivere per orchestra d’archi non è sperimentale… è un lavoro molto complesso, come scrivere per conchiglie. Mi sono messo in gioco rielaborando queste canzoni, dandogli un senso. A metter mano su certi standard si rischia di farsi male!».
Devi aver studiato tanto!
«Bisogna conoscere perfettamente la materia, dopo ci puoi lavorare. Queste canzoni le ho studiate per anni, le ho suonate, ho fatto una ricerca sugli autori, ho approfondito la musica di fine Ottocento e dei primi del Novecento. Ho studiato musica classica al conservatorio, vengo da quel mondo là, per anni ho suonato nell’Orchestra dell’Arena di Verona, poi mi sono dedicato al jazz, ma ho studiato anche musica Rock. Non sono quel jazzista che ama un determinato periodo storico, magari degli anni ’50, ’60 o ‘70. Lo sai, il jazz è diviso in capitoli e sottocapitoli, ci sono quelli che amano solo la tradizione, quelli che invece vedono solo Bebop e tutto il resto fa schifo, gli altri che amano il Free e tutto il resto è ciofeca…».
Non vorrei essere democristiano, ma per scrivere musica d’avanguardia devi conoscere tutto quello che mi hai elencato, e di più!
«Le cose più moderne hanno un senso quando si vanno a conoscere quelle antiche. Ti faccio un esempio molto semplice: Fletcher Henderson che scriveva per Benny Goodman, siamo negli anni Trenta, ha composto dei brani insieme a Sun Ra che allora si chiamava ancora con il suo nome, Herman Poole Blount, ed era un giovane compositore che scriveva musica jazz tradizionale. Insieme a Coleman Hawkins ha scritto brani che non li potevano nemmeno proporre, perché troppo moderni. L’orchestra di Henderson allora suonava brani per ballare. Te li immagini eseguire pezzi costruiti su scale esagonali? Questi esperimenti li hanno fatti, però! In un concerto che ho visto a Vicenza della Sun Ra Arkestra, a fine anni Novanta, li ho sentiti fare un pezzo che conoscevo. Sono salito nel camerino e ho detto: “Ragazzi ma voi avete suonato Queer Notions di Fletcher Henderson! Loro mi hanno guardato stupiti rispondendomi: “Oltre a noi sei l’unico che conosce questo brano!”, E io: “Ho trascritto tutta la versione di Henderson originale, compreso l’assolo della tromba, che voi avete rifatto uguale”. E loro divertiti: “Ma sai perché? Perché questo pezzo l’ha scritto Fletcher Henderson insieme a Sun Ra”. E io nemmeno lo sapevo! Parliamo di un musicista come Lester Bowie, che faceva cose contemporanee ma conosceva perfettamente la musica di New Orleans, la tradizione. Ha pubblicato un disco, Les Stances à Sophie, dove rifà i madrigali di Monteverdi. A me piacciono questi ricercatori che non si accontentano di mostrare la loro bravura musicale nell’esecuzione. Magari possono sembrare anche imperfetti, ma sono perfetti nella composizione, ti insegnano come si fa a trattare una canzone, ad appassionarsi a un certo tipo di musica».
Un altro capitolo è anche la “coralità” della musica…
«Chiaramente nell’avanguardia ci sono più similitudini con il jazz tradizionale perché c’è un concetto di musica collettivo, mentre nel periodo Bop salta fuori l’individualismo del grande solista virtuoso, vedi John Coltrane, Charlie Parker. Mentre la musica di Lester Bowie, per esempio, è fatta di collettivi musicali, interplay, dove c’è improvvisazione radicale, ci si scollega da una struttura armonica scritta e c’è la possibilità di inventare continuamente che è molto più difficile. Sono quello che facevano i musicisti della vecchia scuola… Ho parlato di questo argomento con uno dei più grandi avanguardisti della storia, il batterista Han Bennik, che mi ha detto: “Hai ragione Mauro, io amo la musica di Baby Dodds, conosco Gene Krupa (entrambi batteristi, ndr), io quella musica l’adoro, l’ho studiata molto e credo che ci sia veramente una grande vicinanza con il Free, il jazz collettivo”. Dunque, non mi faccio mai limiti di generi. Ci sono due tipi di musica, quella bella e quella brutta, e oggi siamo invasi da musica brutta. Quindi, faccio finta di nulla e propongo le mie cose, magari interesseranno a quattro persone ma ho la possibilità ogni volta di imparare. Fino a che sarà così continuerò a far musica poi, quando non ci sarà più motivo di addentrarsi in un mondo dove si possa studiare qualcosa di nuovo, credo che anche la mia vena artistica si esaurirà. Sarà la volta buona che mi metterò a fare il cuoco!».
Lascia stare la cucina! Torno all’improvvisazione: c’era anche nella musica popolare…
«Non solo, Mozart, Bach improvvisavano, poi questa pratica s’è persa nella musica classica. È stato, forse, anche comodo smarrirla. Fra i tantissimi musicisti classici, me lo ricordo bene quando mi sono diplomato al conservatorio, c’è gente che, dopo dieci anni di studi, non è capace di suonare Tanti auguri a te senza lo spartito davanti! Che valore ha oggi un musicista del genere? Se tu ascolti i grandi artisti della musica classica, questi conoscono benissimo il jazz. Prendi Wynton Marsalis: lo stesso anno ha vinto un Grammy con un disco di musica classica e un altro con un disco di jazz (era il 1982, e lui aveva appena 22 anni, ndr). Stiamo parlando di uno nato a New Orleans, che rispetta tutte le sfumature della musica. Dopo Duke Ellington tra i miei idoli ci metto lui, suona tutto e lo fa con gusto».
Mauro tu insegni anche, giusto?
«Sì al conservatorio di Castelfranco Veneto. Un conservatorio bellissimo, organizzano cose incredibili. Prossimamente ci sarà Norma Winstone e anche Dee Dee Bridgewater».
Da insegnante: cosa pensi della musica in streaming, del bombardamento di informazione che può disorientare…
«Penso che tutta questa tecnologia che chiamiamo progresso in realtà sia… un regresso! Così come è stata un regresso la riforma dei conservatori a Università: non ha portato nessun beneficio, ha creato solo una serie di materie che sarebbero importanti con pochissime ore e altre inutili che non servono a niente inserite in un programma scolastico dove uno dovrebbe concentrarsi sulla musica d’insieme, sull’ascolto. Siamo nel 2024 uno non può non sapere chi sono i Led Zeppelin e i Pink Floyd, fanno parte della storia della musica così come Charlie Parker, Mozart, Luigi Nono. Tu pensa che i corsi, per esempio, di tecniche di improvvisazione, hanno pochissime ore, i gruppi di musiche d’insieme anche. Credo che quelli che hanno imparato il jazz fino alla mia età (allora studiavo classica, il jazz non esisteva nei conservatori), dovevano arrangiarsi da soli, comprare dischi, cercare spartiti, ascoltare jam session… per fare una lezione di trombone jazz dovevo partire da casa mia, Peschiera del Garda, prendere il treno e andare a Roma da Marcello Rosa, perché non c’era un trombonista jazz vicino me che poteva insegnarmi qualcosa. Andavo a studiare con Pezzotta a Milano. Questo per dirti come oggi abbiamo potenzialmente tutto ma, in realtà, è niente, perché i giovani non conoscono la musica, non vanno a sentire i concerti, nonostante conservatori come quello di Castelfranco organizzino seminari bellissimi, live, incontri con artisti. Contribuisce anche il fatto che ci siano sempre meno locali dove si può suonare e che i fondi ministeriali alla cultura e al jazz vadano solo a quelle dieci istituzioni che si mangiano tutto non lasciando nulla alle piccole associazioni che organizzano concerti e fanno suonare anche ragazzi poco conosciuti… Eppure sono questi coloro che salveranno la musica. Perché non li sosteniamo? Se uno vende un panino all’interno del jazz club gli fanno pagare la percentuale alla Siae sul sandwich venduto… Non è possibile che la gente debba lavorare in condizioni simili. E queste realtà sono quelle di prossimità, vicine alle nostre case, qui i ragazzi ci vanno, iniziano ad ascoltare musica dal vivo, si appassionano. Questi locali, il suonare insieme ha fatto crescere quelli della mia generazione: andavo alle jam session e trovavo musicisti più bravi di me che mi insegnavano la canzone mi dicevano cosa e come dovevo fare…».
Detto ciò, non ti piace la musica mainstream?
«Invece sì! Mi piace il rap. Quando ero giovane ascoltavo Frankie hi-nrg, un grandissimo! Mi piace Eminem. Ciò che sento oggi però non è più quella cosa là…».
Infatti siamo sul Drill, sulla Trap…
«Le canzoni più ascoltate in Italia sono delle canzonette. Arriva Giorgia a Sanremo e sembra che sia arrivato il Messia, e fino a qualche anno fa lei era il livello normale. Salvo qualche rarità, ci sono musicisti bravi, non faccio di tutta erba un fascio, però, ripeto, sono la rarità. Per tornare al jazz: oggi vive nelle playlist che sono una ciofeca, il sottofondo della musica. Se vado dai bimbi a chiedere: “sapete che cos’è il jazz?”, mi rispondono sì, è musica rilassante di sottofondo! E io: “e invece no! Tutti voi lo conoscete, ricordate gli Aristogatti o la Pantera Rosa? Ecco quello è jazz!”. Sono felice di vedere Bollani in televisione, finalmente un musicista vero che insegna qualcosa alla gente! Come sono contento, guarda cosa ti dico, che siano arrivati i Måneskin anche se ai nostri tempi di gruppi così ce n’erano mille. Hanno trasmesso l’immagine che la musica si fa insieme. E questo per i giovani è importante».