Basta! Giuliano Gabriele canta la sua World Music

Giuliano gabriele – Foto Riccardo Lancia

Il 23 febbraio scorso è uscito Basta!, terzo lavoro di Giuliano Gabriele, artista italo-francese, organettista, cultore di musica popolare con ampie escursioni nella World Music. Giuliano è nato e vive nel Frusinate, «la porta di accesso al Sud», mi racconta. Il posto giusto per coltivare il suo solido senso artistico che questa volta ha tradotto in un disco cantautorale, profondo, dove coniuga testi autorali a una musica che ha precisi riferimenti mediterranei, quando il Mare Nostrum era l’incrocio di tanti popoli che si frequentavano e «traevano dai commerci ricchezza e cultura». Pura World Music, dunque, suffragata dalla presenza di Martin Meissonnier, tra i padri fondatori del genere assieme a Peter Gabriel (erano gli anni Ottanta), producer che ha lavorato con Fela Kuti, Tony Allen, Robert Plant, Jimmy Page, Khaled, Alan Stivell, Manu Dibango, Papa Wemba…

L’organetto, lo strumento di Giuliano, diventa protagonista non solo della musica popolare ma anche di questo album per molti aspetti visionario. A dimostrazione, come sostiene Pierpaolo Vacca di cui vi ho parlato recentemente, che non è un mantice limitato ma, unito all’elettronica e all’effettistica delle chitarre elettriche, diventa terreno di vaste sperimentazioni.

Rispetto al primo disco dell’organettista, Melodeonìa (2013), dove musica e canti nei dialetti del Sud Italia erano più una ricerca filologica della musica popolare, e del successivo Madre del 2015, album prog-folk che conteneva Lettere dalla Francia, brano con cui l’artista si aggiudicò il Premio Andrea Parodi, Basta! è stato tessuto con atmosfere “contaminanti” grazie all’uso degli strumenti, lira calabrese, viola, tamburi a cornice, bouzuki, chitarra battente, abbinati a chitarra elettrica, sintetizzatori, elettronica. Il risultato, unito al canto sferzante di Giuliano e ai testi calibrati da una metrica incalzante, è un disco che assume i toni della denuncia, dello sconforto, un urlo di 44 minuti per dieci brani, lanciato per svegliare le coscienze intorpidite e arrese all’ineluttabilità delle azioni dell’uomo.   

Un Basta! urlato per tutto quello che sta succedendo?
«Sì, è un disco di attualità pura».

L’hai scritto d’impulso?
«No, ci ho pensato un po’. In realtà ero indeciso se usare questo titolo o un altro che richiamava sempre un brano contenuto nel disco, Muoviti. Alla fine ho deciso per Basta!, pezzo d’apertura, perché mi sembrava più diretto. Non ha nulla di originale, però se si ascolta l’intero lavoro, comincia ad avere un senso. E poi, visto che lavoro anche in Francia, Basta è una parola italiana che ultimamente si utilizza spesso nel vocabolario d’oltralpe».

Che tradotto potremmo dire: piantiamola qua!
«Sì, rispecchia il mio modo di pensare. Il disco mi rappresenta appieno, le sofferenze anche personali, le difficoltà – e includo pure quella del fare musica – mi portano a dire Basta! Almeno metto un punto e ricomincio».

Qual è stato il fattore scatenante che ti ha portato al nuovo disco?
«Sicuramente il bisogno di scrivere, in Madre ci sono due, tre pezzi in italiano che abbiamo sperimentato ma non sono io l’autore dei testi, il resto sono tutti in dialetto, mi servo del dialetto per sperimentare sulla musica. Quest’album è completamente diverso, ho un atteggiamento da cantautore. Ho sentito il bisogno di scrivere perché non riuscivo a esprimermi abbastanza con la musica, dovevo esprimere pensieri che mi giravano nella testa su diversi. Seguo la politica, mi appassionano le cose che non funzionano, il focus è su tutte quelle questioni importanti che affrontiamo nella vita di tutti i giorni e includo anche i cambiamenti climatici, la mafia, argomenti anche abbastanza sputtanati visto che ne parlano tutti. La mia difficoltà era il trattarli in modo originale: oggi si scrive, parla, canta tanto, le parole cominciano a perdere valore perché ce ne sono troppe in giro. È difficile scrivere testi, soprattutto per me che non sono mai stato tanto un autore. È stato un lavoro lunghissimo!».

Quanto ci hai messo?
«Tra il cominciare a scrivere, lo sperimentare e il portare a termine l’album sono passati sei anni. C’era una ricerca e un modo di costruire tutto nuovo. Avevo bisogno di dire delle cose, dovevo capire come e in che modo raccontarle. Nel frattempo la ricerca musicale faceva il suo corso, si ordinava, raffinava… È stato un lavoro artigianale».

Hai fatto tutto da solo?
«Di solito compongo prendendo l’organetto e suonando finché non arriva una melodia che mi piace, quindi iniziano gli arrangiamenti insieme ai miei musicisti, qualcuno ha qualche buona idea musicale o armonica e, passo dopo passo si evolve il tutto. A livello di scrittura sono stato solissimo, tutti i testi sono stati scritti da me tranne uno, Non ci credi, la seconda traccia, a cui ha collaborato un mio amico, il cantautore Daniele Scarsella, che abita in un paese vicino al mio». 

Continui a vivere nella tua terra…
«Sì, bisogna essere “resistenti” se si vuole restare in un luogo complicato. Comunque siamo giusto in mezzo tra Roma e Napoli. Dico sempre che Frosinone, il Frusinate, è la porta del Sud, passata Roma inizi ad assaporarlo in tutte le sue bellezze e i suoi problemi».

Perché l’organetto?
«Il mio bisnonno lo suonava. A casa però nessuno si dedicava a uno strumento preciso, tranne mio padre che si dilettava con la fisarmonica. Antenato a parte, l’organetto l’ho scelto perché… è uno strumento anarchico. Ogni suonatore ha il suo tipo e i propri set di intavolatura delle note. È uno strumento limitato, all’apparenza semplice».

Perché la musica popolare?
«Era strettamente legata allo strumento. Grazie all’organetto ho scoperto i canti popolari, i dialetti – ho cantato in siciliano, campano, pugliese salentino… – e gli altri strumenti, la zampogna, il tamburello, la chitarra battente, mi si è aperto un mondo. Dalla musica alle persone che la suonavano: grandi personaggi ma anche tanti giovani che che si avvicinano sempre pi numerosi a questi strumenti. Una speranza: è una realtà che sembra non esistere, considerata dai più un folklore d’altri tempi».

Comunque c’è una rivalutazione della musica popolare…
«Sì, La notte della Taranta è stata importantissima per dare un segnale di vita. Noi musicisti l’abbiamo cavalcata negli anni giusti. Il problema è che, come al solito, si vira velocemente verso un folklore che non c’entra niente con quella autenticità dei canti e delle musiche popolari, e lo si fa spesso inconsapevolmente. Ci sono regole non scritte per trattare questa musica…».

Ho fatto una lunga chiacchierata con i tre componenti dell’Ensemble Sangineto: loro sono convinti che la causa dell’oblio della musica popolare sia avvenuta negli anni Sessanta, quando tutto doveva essere cambiato per dimenticare guerra, fatiche, campi… Ora sta rinascendo in nuove forme…
«È una cesura totale che tuttora continua. I Sangineto li conosco bene, sono eccezionali, noi tutti siamo ancora legati alla speranza che la musica popolare possa evolversi. Ma siamo ancora nella fase embrionale, ed è una fase piuttosto lunga. Il mio impegno è voler lavorare con i ritmi arcaici, le nostre culture popolari, meridionali, mediterranee, nel mio caso…».

La mediterraneità sta anche nell’uso di strumenti di altri popoli vicini, vedi il bouzuki, fusi con la chitarra battente, tamburi a cornice e l’elettronica…
«È un suono mediterraneo negli strumenti e nell’idea di tornare a quel grande “popolo mediterraneo” che si creò nel passato. Prima si dialogava molto di più per via dei commerci, c’era una lingua parlata da tutti i popoli (porta il titolo del mio terzo brano, Sabir), un miscuglio di italiano, francese, spagnolo, arabo. Tutto ciò mi fa pensare che in questo piccolo mare c’era un gran fermento tra i popoli, sicuramente anche attraverso la musica. È quello che ho cercato di fare nel disco: servirmi di ritmi popolari che accompagnano un ascolto più comprensibile, in italiano, consapevole dei limiti del dialetto. È un’operazione difficile, nella discografia nazionale ci sono pochissimi esperimenti di musica etnica cantata in italiano, perché è complesso trasmettere qualcosa se si è abituati ad associare questa musica al dialetto».

Penso sia anche un problema di metriche diverse…
«È complesso, per esempio, incastrare in una terzina dei versi che possono essere ben interpretati, è stato un lavoro simile a quello di un artigiano che stava costruendo, manipolando qualcosa di fisico».

Italia e Francia com’è la situazione della musica popolare?
«In Francia ci sono zone dove regna sovrana, prendi la Bretagna. Poi esistono tantissime operazioni di artisti che mescolano musiche, soprattutto quelle del mondo, visto l’alto numero di immigrati, per gli ovvi motivi (colonialismo, ndr). Non a caso la World Music è nata tra Londra e Parigi come segmento commerciale. Ci sono tanti esperti, tanti festival, tanta gente che suona, perché la Francia ha un sistema di tutela degli artisti unico al mondo. In Italia, nonostante i media non ne parlino, o ne parlino male riducendo tutto a folklore, ci potrebbe essere un grande interesse da parte del pubblico per questo genere musicale. La gente non lo ascolta perché non sa che esiste, non sa che c’è una nicchia in piena crescita e fermento. È tutto ovattato, nascosto. Viviamo pur sempre nel paese di De Andrè, di Branduardi, di Capossela, artisti che hanno inserito nel loro lavoro la musica popolare. Non c’è interesse né da parte della discografia, né dei media, né tantomeno del servizio pubblico».

Ti riconosci nella grande famiglia della World Music?
«Assolutamente sì, è il riferimento del mio lavoro. Il disco l’ha prodotto Martin Meissonier, ho avuto la fortuna di conoscerlo, è uno molto rigoroso. Gliel’ho proposto, l’ha accettato e ho lavorato con lui per due anni. In un’intervista che abbiamo rilasciato insieme a RFI ha dichiarato che si è trovato molto bene a lavorare con me e aspetta da me il secondo disco».

Veniamo alla cover: le maschere rappresentano “i basta” di questo lavoro?
«È un concept grafico che gira intorno a questi personaggi che ho battezzato Le Maschere della Coscienza, ideate per identificare e dare un volto fantastico ad alcuni dei temi più scottanti affrontati nel disco. Sono state realizzate artigianalmente utilizzando tutti materiali di riciclo, oggetti comuni. C’è la Disperata, con il viso smunto in macramè e i capelli dell’arancio fluorescente dei giubbotti di salvataggio (rappresenta i migranti che chiedono aiuto dal mare ad una terra che non li ascolta e finge di non vederli), la Mammasantissima, maschera del potere occulto, dei soldi facili della mafia, della ricchezza ingiusta, che si traveste da demonio; la USA&GettaWar col volto in blujeans ricoperto dalle piume degli indiani d’America, una lacrima di sangue e proiettili al posto del sorriso, impersona la parte peggiore e più destabilizzante dell’occidente. E ancora FuturAntica, la maschera concepita dall’Intelligenza Artificiale, infine Mondo-Ezza, fatta di sacchi neri dell’immondizia, vecchi dischi, lattine di metallo, bottiglie di plastica schiacciate, rifiuti di ogni genere riporta al degrado ambientale».

In Basta! Canti: Qualcuno non si limita/ imita, imita/ Discorsi senza metrica/ Basta! Basta! Basta! A chi ti riferisci?
«Lo dico in vari modi e in diversi testi: si imita troppo, nell’arte, nella musica. Ho sempre odiato l’imitazione, era un concetto che dovevo affermare. Oggi in particolare modo, essendo tutto impostato in compartimenti stagni, si avanza per imitazione, cosa che può portare a una certa forma di creatività, ma avere un progetto importante ripreso di sana pianta da un altro progetto non è così eccezionale come viene presentato in tv o in radio. Sono per lo più cose già fatte, già viste. L’esempio più eclatante? I Måneskin: la loro bravura è indiscutibile, discuto invece lo stra-successo, ottenuto copiando di sana pianta cliché risalenti agli anni Settanta. In un mondo in cui ormai camminiamo tutti a testa in giù perché è tutto il contrario di come dovrebbe essere, tutto ciò è sufficiente per dire Basta! Volevo far capire come gira questo Paese oggi, unico e particolare, nel bene e nel male. Non avrei potuto creare un disco del genere se fossi stato un finlandese, ma nemmeno un francese! Siamo una colonia, si avverte chiaramente quanto dipendiamo da un sistema, anche nella musica, specchio “innocente” di un Paese. Sono certo che più di qualcuno dirà che è un lavoro pesante, ma non è che la nostra vita sia così leggera…».

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