Amaro Freitas: “Y’Y” emozioni dall’Amazzonia

Amaro Freitas – Foto Micael Hocherman

Ieri sera sono andato ad ascoltare Amaro Freitas che suonava nell’Aula Magna dell’Università Bocconi nell’ambito di Isole Sonore, bella avventura concertistica curata da Cesare Picco, organizzata dall’ateneo milanese in collaborazione con Yamaha Music Europe. È da un po’ che seguo le vicende di questo musicista che ha qualcosa di speciale. 

Amaro è uno di quei preziosi doni che la musica dispensa con parsimonia. Sarà perché ha la rara capacità di emozionarsi e far emozionare mentre suona – letteralmente – l’intero pianoforte da cui estrae gli strumenti più impensabili, tamburi, berimbau, chitarre distorte, sarà per la sua presenza scenica con i suoi abiti sgargianti, o perché “canta” la sua musica, sta di fatto che assistere a un suo live è come imboccare un cammino che non sai dove ti porta ma che è bellissimo, pieno di sorprese e di panorami mozzafiato.

Il piano preparato è la sua fissazione artistica, John Cage è uno dei suoi fari con Cecil Taylor e Naná Vasconcelos, ma a differenza di Cage che usava oggetti metallici sulle corde del piano, Amaro si diletta con oggetti naturali perché così lo strumento non si rovina: «Uso il legno, tra le altre cose: semi dell’Amazzonia, appendiabiti, tessere del domino», raccontava nel febbraio scorso al New York Times.

Da Sangue Negro, il suo primo disco in trio del 2016, a Rasif, secondo album pubblicato nel 2018, a Sankofa, terzo lavoro del 2021 dove c’è la mitica Batucada, capolavoro percussivo, fino a Y’Y, uscito il primo marzo scorso, il crescendo artistico di questo pianista di 32 anni è stato fulminante. Nato in una famiglia umile nella periferia di Recife, ha imparato a suonare la batteria e una tastiera a cinque ottave da suo padre, che aveva fondato un gruppo musicale nella chiesa evangelica. Il padre lo mandò dal barbiere del quartiere a studiare musica. Lo ricorda lo stesso Amaro in un’intervista del 2020 al magazine Carta Capital: «Mentre tagliava i capelli alla gente, mi insegnava la musica. Tenevo anche un quaderno per annotare le informazioni all’interno del salone…». Poi è arrivato il conservatorio, per poterselo pagare ha lavorato facendo di tutto, dal venditore di pane per strada al telemarket.

Veniamo a Y’Y, parola che nella lingua indigena dei Satereé-Mawe, una derivazione del tupi gauraní, significa acqua. La pronuncia non è facile, ma potrebbe suonare con un eeehyé eeehyé. Nove brani dove il piano preparato di Freitas si fonde con la cultura indigena dell’Amazzonia. Un disco nato per sfruttare le potenzialità dello strumento ma anche per celebrare una delle bellezze del Pianeta, la foresta amazzonica e la cultura degli abitanti che la vivono. Ma anche un monito a tutti noi: attenzione, se si continua a devastare la foresta a rimetterci non sarà solo l’ecosistema locale ma l’intero pianeta. 

Nel disco ci sono delle collaborazioni molto interessanti, innanzitutto Shabaka Hutchings che suona insieme al polistrumentista cubano Aniel Someillan e al batterista Hamid Drake in Encantados, quindi il chitarrista americano Jeff Parker in Mar de Cirandeiras e l’arpista newyorkese Brandee Younger in Gloriosa.

Il risultato è un’esaltazione della natura e della musica, paesaggi sonori dove le note diventano ritmo, l’armonia si fonde nel canto di uccelli, nel fruscio degli alberi, nello scorrere lento dell’imponente rio Amazonas. Musica per immagini e viceversa. 

Ho inseguito Amaro tra una sala d’incisione, un concerto, un volo che lo ha portato qui a Milano per una serie di date tra questi ultimi giorni di marzo e aprile che lo porteranno in tutta Europa. Quella sua intervista. 

Amaro, partiamo subito dal tuo ultimo lavoro: com’è nato Y’Y?
«Il disco nasce dalla volontà di voler unire lo studio del piano preparato e la mia esperienza in Amazzonia. Sono più o meno cinque anni che mi sto dedicando alle tante forme e al possibile lavoro del piano preparato, mi ispiro direttamente a John Cage, cercando di ottenere nella mia intenzione, un suono che manifesti una “identità brasiliana”, un suono tropicale, che unisca il caldo del Nordeste all’umidità del Nord, della foresta pluviale. Un suono che racconti un Brasile che forse lo stesso Brasile non conosce così bene. Per questo è stato essenziale stare a Manaus, chiacchierare con la comunità indigena dei Sateré-Mawé, capire l’importanza dei nostri fiumi, della nostra foresta. Tutto questo mi ha portato emozione, bellezza, sentimento, senso di appartenenza che s’è trasformato in processo creativo. Unita allo studio del piano preparato  questa creatività è passata attraverso le mie mani e ha iniziato a scorrere lungo il pianoforte, trasformandosi in musica. Y’Y nella lingua dei Sateré-Mawé significa acqua, fiume».

Sei pernambucano, continui ad abitare a Recife. Cosa rappresenta per te il Nordeste brasiliano? È una regione di cointrasti, ricca di cultura popolare, che ha prodotto grandi artisti…
«Il Nordeste brasiliano è la mia vita! Abitare qui per me oltre a essere un privilegio è anche un atto politico. Oggi potrei vivere in qualsiasi parte del Brasile e del mondo, visto che lavoro costantemente in Europa, Giappone, Australia, Stati Uniti… I primi contatti che ho fatto, musicalmente parlando, sono stati nel Nordeste. Ho suonato molto in Ceará, nel Rio Grande do Norte, nella Paraiba, in Alagoas, a Bahia. Ho sempre avuto molti contatti diretti con i musicisti di questi luoghi. Poi la mia musica è uscita dai confini nordestini diffondendosi nel resto del Brasile e nel mondo, facendomi viaggiare tanto. Tornare nel Nordeste mi dà una sensazione di casa, di arricchimento, di appartenenza e anche di autostima, perché sono pochi gli artisti che riescono a sviluppare la propria musica continuando ad abitare il proprio territorio. Normalmente scendono nel Sudeste, a São Paulo, ma succede ugualmente in tutti quei posti dove si concentra la musica, vedi Parigi, Berlino, New York, Buenos Aires, perché lì si lavora di più. Credo sia molto gratificante quando si riesce a rompere questa “migrazione”, mantenendo una connessione diretta con il proprio territorio con il risultato di avvicinarsi a una nuova generazione locale coinvolta nell’arte. Questi ragazzi che incontro a Recife spesso mi dicono: “Però Amaro, settimana scorsa ti ho visto a New York, poi a Madrid e adesso sei tornato qui”. Io rispondo: “Ero là ma ora sono qui, vivo qui. Anche tu puoi farlo”. È un messaggio positivo, e per i giovani estremamente fondamentale».

Il Brasile è un Paese difficile. Uno dei grossi problemi è riuscire a proteggere in maniera efficace la foresta amazzonica e la sua popolazione… Y’Y affronta queste tematiche?
«È un disco che porta con sé la bellezza di quel territorio, delle sue leggende, delle sue meraviglie, pensa all’incontro delle acque, un fenomeno incredibile, al fascino della foresta, di quegli alberi millenari. Y’Y celebra anche una comunità primitiva, con la propria cultura, lingua, saperi che si sono tramandati in forma orale. Ma allo stesso tempo è un grido di allerta: dobbiamo stare attenti alle continue minacce di questo delicato ecosistema: la deforestazione selvaggia, i garimpos (le miniere dei cercatori d’oro, ndr), l’inquinamento dei fiumi e dell’oceano, lo smog tossico di Manaus. Il Rio Amazonas è la più grande riserva di acqua dolce del pianeta e dà origine a quel fenomeno chiamato rios flutuantes (o voadores, sorta di corsi d’acqua invisibili che circolano nell’atmosfera. È l’umidità generata dall’Amazzonia e dispersa in tutto il continente sudamericano, soprattutto nelle regioni del Centro Ovest, del Sud est e del Sud del Brasile, ndr). Le fazendas agroalimentari del Mato Grosso che hanno la foresta confinante i loro terreni hanno tre mesi in più di pioggia all’anno rispetto a quelle che non hanno la foresta vicino. Y’Y lancia un avvertimento: il tempo per proteggere la foresta e il nostro pianeta è scaduto, siamo in ritardo, abbiamo bisogno urgente di agire. Dobbiamo riuscire a convivere evolvendo con responsabilità, aver cura veramente dell’Amazzonia, con fermezza».

Amaro Freitas al concerto milanese nell’Aula Magna dell’Università Bocconi il 21 marzo

Sei tu che hai scelto la musica o lei che ti ha scelto?
«È una domanda molto difficile, direi che è stato un incontro molto piacevole. Provengo da una famiglia molto musicale, mio padre suona più strumenti. Prima mi ha insegnato a suonare la batteria, poi le tastiere. Ho iniziato nella chiesa, in quell’universo ho sviluppato i primi passi nella musica».

La tua musica è catalogata nel genere jazz, ma è qualcosa di più: tradizione popolare, composizione classica. In Brasile dicono che hai plasmato un “nuovo jazz”. Sei d’accordo? Cosa significa per te la parola jazz?
«Il jazz è quello che più abbraccia la mia musica, aperta al dialogo partendo da un’altra prospettiva. Quando guardo a lei vedo che ci sono riferimenti al jazz, ma allo stesso tempo, anche alla musica classica, all’afro-brasiliana, all’indigena. Tutti i Paesi del mondo hanno sviluppato melodia, armonia e ritmo, ciò che definisce di più la differenza tra culture è quest’ultimo. Lavoro su tanti ritmi nordestini, Baião, Côco, Ciranda, Maracatu penso a nuovi abbordaggi ricorrendo alla poliritmia, all’isoritmia, al ritmo negativo, al dislocamento ritmico. Tutto ciò porta un nuovo sapore, suona in un modo diverso. A volte penso che la mia musica non sia etichettatile ma contenga influenze di tutto quello che ti ho detto prima, dalla cultura afro-brasiliana, iberica, indigena, araba, del jazz, ovviamente. C’è tutto questo dentro i miei lavori».

Stiamo vivendo anni di passaggio, crisi culturale, semplificazione, assenza di una coscienza collettiva. Anche la musica è coinvolta in questo processo. Mi riferisco al mainstream, anche a quello brasileiro
«Penso alla nostra musica e a quella fatta in altri Paesi, sto parlando di musica che abbia profondità e che richieda un certo tempo di creazione: in Europa o negli Stati Uniti c’è voglia di condividerla tra gli artisti, i grandi nomi non hanno problemi a collaborare tra di loro mettendo a disposizione degli altri la propria creatività.  Prendi il movimento di Chicago, Jeff Parker, Makaya e altri musicisti, che lavorano insieme fortificando una scena, creando una dinamica positiva per il loro territorio. Così è stato quel concerto che poi è diventato un disco con Herbie Hanckok, Jack De Jonhette, Dave Holland e Pat Metheny. In Brasile non è tanto comune. Ci sono collaborazioni, ma sono lavori sporadici. Ogni tanto nasce un Hermeto Pascoal, un Egberto Gismonti, un Moacir Santos, un Naná Vasconcelos, un Hamilton de Hollanda o un Yamandu Costa… Non abbiamo un collettivo che sta facendo questa musica e che allo stesso tempo la fortifichi. Nei conservatori e nelle scuole di musica dovrebbero prevedere una nuova disciplina che insegni il mercato della musica partendo dalla collettività. In una certa forma il mainstream che fa una musica popolare più semplice, riuscendo a dialogare con la maggior parte del popolo brasiliano attraverso radio, tv, internet possiede questa logica di connessione tra artisti ed è molto più organizzata perché lì ci sono i soldi, c’è un mercato forte. Il Brasile è ancora un pozzo di creatività in vari segmenti, spesso sconosciuto allo stesso popolo brasiliano, una grande “isola” che crea ancora troppo poche connessioni con l’America Latina rispetto alle sue incredibili potenzialità espressive».

Quali sono i musicisti che ti hanno ispirato e che ascolti?
«Ho tante referenze musicali, Chick Corea, Thelonious Monk, Cecil Taylor, John Cage, Naná Vasconcelos, o Dom Salvador, Moacir Santos, Johnny Alf, John Coltrane e, ovviamente, Miles Davis ed Herbie Hancock: tutti mi hanno influenzato in modo assurdo, sono stati super importanti nella mia formazione, come i Coco Raizes de Arcoverde, la Ciranda di Lia de Itamaracá, la Noite dos tambores sileciósos (una cerimonia che si tiene durante il carnevale di Recife di sincretismo religioso, ndr), i Maracatu che sfilano nell’apertura del carnevale di Olinda. Sono influenze diverse ma tutto questo è musica, mi prende, mi stimola a comporre».

Suoni un piano percussivo, è la bellezza della tua musica. C’è una ragione o è puro istinto?
«Sono diventato un pianista ma credo di essere intimamente un percussionista! Ciò ha fatto sì che  nello studio e durante gli esami di pratica pianistica ho finito per indirizzarmi su un cammino molto più percussivo dello strumento. L’importanza di Naná Vasconcelos nella mia vita mi ha portato a trasformare le corde del pianoforte in un berimbau, l’importanza di Cecil Taylor e Monk di vivere il piano in un modo percussivo mi ha indirizzato su questa strada. Sono un pianista che considera il piano come un tamburo di 88 tasti. E lì posso sperimentare infinite combinazioni».

Le date di Marzo
22 – Lisbona, Centro Cultual de Belém 
23 – San Vito al Tagliamento, San Vito Jazz
24 – Venezia, Conservatorio
25 – Bologna, Luci del Jazz
28 – Roma, Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini