La musica come viaggio onirico. Ottenuta attraverso strumenti, noise, elettronica e soprattutto silenzi. Una costruzione complessa che per questo richiama subito all’ascolto il prog degli anni Settanta, i Genesis, i King Crimson, gli ELP, quelle lunghe suite che imboccavano una via per poi cambiare bruscamente direzione e ritornare al tema principale dopo lunghi viaggi di note.
Mondi fantastici creati da una pianista e cantante ventisettenne, Miriam Fornari, studi alla Siena Jazz University – la sua tesi di laurea La ricerca del Silenzio è stata pubblicata tre anni fa da Morlacchi editore – e alle battute finali del biennio di perfezionamento all’Accademia di Santa Cecilia di Roma. Miriam è la sorella di Ruggero Fornari, altro artista che vi consiglio di tenere d’occhio: il 3 novembre è uscito il suo nuovo disco- progetto, Phormix, in trio con Alessandro Cianferoni al basso elettrico e Lorenzo Brilli alla batteria. Ve ne parlerò prossimamente.
Torniamo a Miriam: il 13 ottobre ha pubblicato per l’etichetta indipendente Onyx Dischi, Mora, nove brani in cui il trait d’union è il sogno, quel momento in cui la ragione viene spodestata dall’inconscio, dove si è altri da se stessi. Per raccontare questi momenti sospesi Miriam ha usato con sapienza un mix di suoni, pianoforte e synth, il suo regno, batteria e drum machine suonati da Evita Polidoro, basso elettrico e contrabbasso da Joe Rehmer e la chitarra di Ruggero.L’intervento di archi – violino, viola e violoncello – e persino di un’arpa In The Wild Sanctuary contribuiscono a comporre questo racconto fantastico.
I brani sono cantati in inglese, solo uno, l’ultimo, Cielo è in italiano. Mi spiega Miriam: «L’inglese mi è sempre stato più naturale nella musica, deriva da anni di ascolto di artisti americani e inglesi, rock, prog, jazz…». Cielo è l’inizio di un nuovo cammino che l’artista ha intrapreso e che si concretizzerà in un nuovo lavoro.
Miriam come sei arrivata a Mora?
«È un lungo percorso. A Siena Jazz ho conosciuto e sono stata allieva di Simone Graziano (di lui vi avevo parlato in questo post, ndr). Grazie a lui mi sono concentrata sulla composizione. Nel gruppo c’è mio fratello Ruggero, quindi ho incontrato Evita Polidoro, la batterista, e Joe Rehmer, il bassista. Mora l’abbiamo registrato nel 2021 e finalmente è uscito! I brani li avevo scritti tra il 2015 e il 2020. Un disco nato durante il periodo accademico».
Sei anche una cantante…
«Nasco come pianista, ho iniziato a studiare il pianoforte a sette anni, mentre a 11 anni ho iniziato a cantare: ero rimasta folgorata da Alicia Keys… Crescendo, ho deciso di unire le due cose».
E la passione per il jazz?
«Vengo da una famiglia di musicofili, mia mamma appassionata, mio padre era stato un batterista da giovane. Mamma ci ha cresciuto a Jimi Hendrix! Poi piano piano mi sono messa ad ascoltare i loro vinili, ce n’erano molti anche di mio nonno, di jazz. È così che mi sono avvicinata. Volevo studiare musica ma le scelte erano poche, c’era il conservatorio classico e iniziavano, almeno dalle mie parti, i primi trienni di musica jazz. Ho fatto un anno di pre-accademico a Siena Jazz e poi sono entrata. Già al liceo mi ero interessata al jazz attraverso il canto».
Anche tuo fratello ha fatto lo stesso percorso?
«Sì, ha iniziato un po’ dopo di me con la chitarra. Praticamente siamo cresciuti insieme, stimolandoci a vicenda. I corsi jazz li ha scoperti proprio lui leggendo Jazzit, così ha deciso di provare ed è entrato; dopo qualche anno ho fatto anch’io lo stesso percorso».
Veniamo a Mora, ora capisco il prog, il jazz e il rock!
«È un disco, senza farlo apposta, molto ispirato al sogno. Nei testi parlo di sogni che ho fatto, ho addirittura sognato la melodia di un pezzo. Il tema centrale è dunque quanto i sogni che facciamo possano avere un impatto nella nostra vita reale, essere esperienze significative. Mora era il nome del progetto, diventato poi il nome del disco. Mora è la frazione di Assisi in cui vivo. Sono tre case in croce e poi alcuni casali sparsi per la campagna. Un luogo molto bello, che ti dà quel senso di casa anche un po’ mistico, un ambiente fisico ma anche onirico. È quello dove abbiamo girato i video che abbiamo pubblicato in occasione dell’uscita del disco. Eravamo nel mio giardino e in una collina di fronte a casa».
Interessante il modo in cui usi l’elettronica: è una tua passione o un’esigenza di arrangiamento?
«Una mia passione, nata crescendo e facendo tanti ascolti anche insieme a mio fratello Ruggero. Grazie a lui ho scoperto i sintetizzatori. Io suono synth analogici e digitali, lui ora si è fissato con i synth modulari. Quando li scopri non torni più indietro!».
È un’elettronica “gentile” perfettamente inserita nel contesto…
«Vero, uno degli obiettivi principali della mia attività di studio è proprio la ricerca del suono, a prescindere dal fatto che siano strumenti elettronici o reali. Per esempio, che cosa succede se metto la chitarra con quel determinato effetto combinata a una nota del pianoforte? O il violoncello pizzicato con questo synth? La mia grande ispirazione sono stati i Son Lux (band americana di post-rock elettronica», ndr)».
Un’altra cosa che mi ha colpito è l’uso del silenzio nella tua musica…
«Il silenzio mi interessa molto, va di pari passo con la mia ricerca sonora (ho scritto la tesi di laurea su questo). Il corpo sonoro è una cosa importante ma altrettanto determinante è lo spazio su cui questo viene costruito, quindi il silenzio che lo circonda. Cos’è che dà l’identità a un suono? Il suo rapporto con il silenzio; è come se questo fosse una tela e il suono gocce di colore. Silenzio, libro del violoncellista veneto Mario Brunello, mi ha ispirata. Lui scrive: «Ho avuto l’illuminazione quando ho capito che essere musicista non significa solo padroneggiare i suoni ma anche il silenzio».
Perché hai cantato in inglese e solo un brano in italiano?
«Perché ho sempre ascoltato musica inglese, a casa mia c’era poca musica italiana. Cielo per me è stata un punto di svolta, mi è venuta di getto in italiano. È stato un brano dirimente».
Di musica italiana cosa ti piace?
Di sicuro i cantautori “classici”, sono fan di Tenco, Battisti, Dalla, Modugno. Ma anche la scena cantautorale moderna, penso ad Andrea Laszlo De Simone, il primo Colapesce, Niccolò Fabi, i Verdena, Joe Barbieri, Tosca. Mentre sono molto ferrata sulla musica americana e inglese, crescendo sto scoprendo tutto il mondo italiano. È un paradosso, lo so!».